In Giappone 5 donne hanno fatto causa al governo per avere accesso alla sterilizzazione volontaria
Glielo impedisce una legge sulla “tutela della maternità”, contro cui si è aperto un processo
In Giappone questa settimana è cominciato un processo dopo che cinque donne hanno fatto causa al governo contro una legge del 1996 che limita in modo considerevole l’accesso volontario alle procedure di sterilizzazione, cioè quelle operazioni chirurgiche che servono a impedire in modo permanente la gravidanza. La norma in questione è la “legge per la tutela della maternità”, e riguarda i diritti riproduttivi: in teoria riguarderebbe entrambi i sessi, ma nel concreto viene applicata principalmente per controllare l’accesso delle donne a procedure come l’aborto, la contraccezione e, appunto, la sterilizzazione volontaria.
La legge prevede che chi vuole sottoporsi a interventi chirurgici che inibiscono la capacità riproduttiva debba già avere «diversi figli», provare che una gravidanza sarebbe dannosa per la propria salute e ottenere il consenso del coniuge o convivente di fatto. In teoria la norma fa riferimento anche alla vasectomia, che è la procedura per la sterilizzazione maschile, ma nella pratica viene applicata principalmente alle donne e riguarda pratiche come per esempio il legamento delle tube.
Una delle conseguenze della norma è che di fatto in Giappone le donne non sposate e senza figli non possono accedere alle procedure di sterilizzazione; per tutte le altre resta comunque molto difficile, in quanto devono provare il nesso tra la futura gravidanza e il rischio per la vita o gli eventuali problemi di salute che ne deriverebbero.
Le cinque donne che hanno fatto causa al governo hanno deciso che non vogliono avere figli, ma proprio per questo non riescono ad accedere alla procedura. Chiedono allo stato giapponese un risarcimento di 1 milione di yen a testa (circa 6mila euro), in quanto ritengono violato il loro diritto all’autodeterminazione, cioè a scegliere cosa fare del proprio corpo, e all’uguaglianza, perché nel paese la legge viene applicata in modo discriminatorio verso le donne. La prima udienza si è tenuta mercoledì 12 giugno.
In Italia la sterilizzazione volontaria era vietata dal codice Rocco, il codice penale approvato nel 1930, in epoca fascista. Al titolo decimo indicava i «delitti contro la sanità e l’integrità delle stirpe» e prevedeva la stessa pena sia per chi acconsentiva a sottoporsi all’operazione, sia per chi la praticava. Nel 1978 gli articoli che proibivano la procedura sono stati abrogati (insieme a quelli che vietavano l’aborto) e oggi è consentita.
Anche la “legge per la tutela della maternità” giapponese deriva da una norma precedente, del 1948. Anche in questo caso la norma originale includeva una serie di articoli, abrogati nel 1996 con l’approvazione della norma attuale. La parte di legge che non esiste più è nota come “legge di protezione eugenetica”: permetteva ai medici di sterilizzare i e le pazienti a cui fossero state diagnosticate patologie ereditarie. La procedura poteva essere portata a termine anche senza il consenso della persona interessata, ma nel presunto interesse pubblico. Una diagnosi di schizofrenia o di “eccessivo desiderio sessuale” potevano portare alla sterilizzazione, così come l’albinismo, la distrofia muscolare o l’epilessia.
Quello che riguarda la “legge di protezione eugenetica” è un tema particolarmente sensibile per la storia giapponese. Un rapporto sulle sue conseguenze, reso pubblico l’anno scorso dal governo, ha documentato quasi 25mila casi di sterilizzazione nei quasi 50 anni in cui la norma è rimasta in vigore. Di questi 16.500 sarebbero stati portati a termine senza il consenso della persona interessata. Tuttavia le organizzazioni di attivisti e attiviste che si sono occupate del caso hanno espresso forti dubbi sul grado di libertà che ebbero anche le altre. La maggior parte di queste sterilizzazioni è stata effettuata su donne.
Ciò che rimane della legge precedente, ovvero l’attuale “legge per la tutela della maternità”, continua a limitare le decisioni che le donne possono prendere sul proprio corpo, non solo in tema di sterilizzazione. La norma regolamenta infatti anche l’accesso all’aborto, più o meno con gli stessi princìpi: è previsto entro le prime 22 settimane della gravidanza e solo nei casi in cui questa comporta un rischio per la salute, o nei casi di stupro. Anche in questo caso è richiesto il consenso del marito, quando c’è. La procedura, in ogni caso, non è coperta dal sistema sanitario nazionale e può costare tra i 100mila e i 200mila yen (approssimativamente tra i 600 e i 1.200 euro).
L’anno scorso ad aprile il governo ha approvato l’uso della pillola abortiva entro le 9 settimane, ma il Japan Times ha scritto che secondo il ministero della Salute è comunque necessario il consenso del coniuge. In ogni caso non è coperta dal sistema sanitario e per acquistarla serve la prescrizione medica, come avviene in molti altri paesi compresa l’Italia. In Giappone i metodi di contraccezione più usati sono il preservativo e il coito interrotto, che non è assolutamente considerato un metodo sicuro.
Secondo Yukako Ohashi, scrittrice e rappresentante di un’organizzazione internazionale per i diritti riproduttivi delle donne, tra i motivi che spiegano l’arretratezza del Giappone sui temi della salute riproduttiva c’è il dominio quasi incontrastato del partito Liberal Democratico, che è un partito conservatore di destra, e l’importanza dei valori tradizionali nella cultura giapponese. Il nome stesso della legge sulla tutela della maternità spiega il principio che la ispira: «Le donne che diventano madri verranno protette, ma le donne che non lo diventeranno non saranno rispettate» ha detto Ohashi.