La Pixar ha un problema con i sequel
“Inside Out 2” sta andando meglio degli altri, ma è comunque espressione di un approccio che, pur nella sua creatività, raramente ha pagato
di Gabriele Niola
Era da cinque anni, cioè da Toy Story 4 nel 2019, che un film Pixar non era un vero successo: significa che gli ultimi sei film della casa di produzione di proprietà della Disney non sono andati bene. Almeno tre di questi non sono usciti in sala ma direttamente sulla piattaforma Disney+, nel periodo in cui i cinema o erano chiusi per la pandemia da COVID-19 o funzionavano a capienza ridotta, o ancora non riuscivano ad attirare una quantità di pubblico paragonabile a prima: Soul, Red e Luca.
Gli altri tre invece, Lightyear, Elemental e Onward, sono passati al cinema con incassi scarsi per gli standard molto costosi di un grande film d’animazione. Tra questi la prestazione migliore è stata quella di Elemental, che ha incassato 600 milioni di dollari riuscendo così a ripagare l’investimento. Inside Out 2, distribuito in questi giorni in tutto il mondo, per la prima volta dal 2019 sta riportando gli incassi alle cifre cui ambisce ed è abituata la Pixar (cioè circa un miliardo di dollari in tutto il mondo). Ma Inside Out 2 è anche un ennesimo esempio del problema che lo studio ha con i sequel.
Da sempre la Pixar lavora ai seguiti dei suoi film di maggiore successo. Il suo terzo lungometraggio (dopo Toy Story e A Bug’s Life) fu Toy Story 2. Tuttavia se alle creazioni originali della Pixar il pubblico e la critica hanno sempre riconosciuto capacità superiori alla media nel racconto, nell’originalità e nella capacità di coinvolgere anche il pubblico adulto, questo non è stato quasi mai vero per i sequel. Nemmeno da quando Hollywood ha capito come lavorare sulle proprietà intellettuali, cioè come generare sequel o prequel soddisfacenti per il pubblico. Come per molte altre società di produzione, anche la Pixar negli anni Dieci ha aumentato la sua produzione di sequel e prequel, pur non smettendo di produrre nuove storie originali.
Esistono delle eccezioni a questo “problema dei sequel” e sono principalmente Toy Story 2 e Toy Story 3, entrambi molto apprezzati. Il primo ebbe una lavorazione travagliata e irripetibile, fu fatto e disfatto in corsa per poi essere ripensato da capo in un tempo molto breve e quindi con una storia ridotta all’osso che, forse anche per questo, è diversa dal solito. Il secondo invece doveva chiudere la storia del mondo di Toy Story, e come spesso avviene ai film conclusivi di un franchise (cioè un gruppo di film ambientati nello stesso mondo e con dei personaggi in comune), poteva permettersi di risolvere una volta per tutte i conflitti dei personaggi. In più con quel film la Pixar introdusse un sistema diverso, più complesso e profondo, di “recitazione” dei giocattoli animati. Sistema che gli aveva consentito tra le altre cose di fargli interpretare una evidente paura della morte, qualcosa che i cartoni per bambini di solito preferiscono evitare. Per il resto gli altri sei sequel, prequel o spin-off dello studio non hanno mai convinto come gli originali.
Toy Story 4, Cars 2 e Cars 3, Monsters University, Gli Incredibili 2 e Lightyear sono stati quasi tutti dei grandi successi commerciali, e in buona parte rientrano nel periodo d’oro della Pixar, in cui lo studio sembrava non sbagliare una produzione (tra il 1995 e il 2010). Ma nessuno di loro ha avuto il riconoscimento di pubblico e di critica degli altri film della Pixar, né si sono distinti altrettanto dal resto dei film di animazione. Una conseguenza secondaria che lo dimostra è che, nonostante gli ottimi incassi, il merchandising più venduto rimane quello dei loro originali.
Questo è dovuto alla maniera in cui la Pixar vuole lavorare all’allargamento del mondo narrativo delle sue creazioni. Il cinema americano negli ultimi 25 anni ha creato diversi franchise, sperimentando tante possibilità e modi differenti di farlo, e capendo alla fine che il modo più efficace per soddisfare il pubblico non è produrre nuove storie autoconclusive (come sono di solito i film originali), ma più capitoli di una grande saga, ognuno dipendente dai film futuri e da quelli che sono venuti prima, come fossero episodi di una grande serie televisiva. La Marvel (che è parte della Disney, come la Pixar) è la società che è stata pioniera di questo e le altre, ognuna a modo proprio, si sono adeguate.
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Alla Pixar invece da sempre i sequel o i prequel vengono concepiti come si faceva prima, cioè come nuovi film originali con personaggi noti, come avventure diverse che solitamente introducono uno o più nuovi personaggi e soprattutto che assecondano la vecchia convinzione che il sequel di un film debba replicare tutti i punti di forza del suo originale, aumentandoli quantitativamente. Un’impresa di ricerca più grande e impossibile in Alla ricerca di Dory, sequel di Alla ricerca di Nemo; un mondo di mostri più vario e ampio in Monsters University, sequel di Monster & Co.; gare più spericolate con mezzi più vari in Cars 3 (o introducendo nel secondo una improbabile trama di spionaggio internazionale); una crisi più grande per la famiglia protagonista in Gli Incredibili 2.
Inside Out 2 è l’ultimo di questi esempi: replica esattamente la trama del film precedente (alcune emozioni della testa di una bambina si perdono nella sua mente e devono tornare al quartier generale mentre lei affronta un momento emotivamente complicato della sua crescita), aumentando il numero di emozioni, e quindi di personaggi, e alzando la posta in gioco nella vita della bambina protagonista.
Per la Pixar è più faticoso pensare, come fanno le altre società di produzione, in maniera industriale: perché è uno studio di creativi. Che è anche la ragione della sua unicità. È un concetto che è stato raccontato più volte lungo gli anni dai suoi stessi registi e dai suoi dirigenti. Lo studio è sempre stato diretto da un regista e da un board di registi, ognuno al lavoro su un film ma anche consulente per i film degli altri. E questa è un’organizzazione unica che non si trova in nessuna altra società di produzione (ragione per la quale alla Mostra del cinema di Venezia del 2009 fu dato un Leone d’oro onorario a tutto lo studio e non a un singolo regista).
Al comando c’era prima John Lasseter, il suo fondatore, e dopo che Lasseter fu allontanato in seguito ad accuse di molestie, Pete Docter, membro del board di registi fin dall’inizio e personalmente responsabile di Monsters & Co., Up e Inside Out. In questa maniera, hanno spiegato più volte, ci sono i creativi al comando e qualsiasi idea è frutto dell’unione di menti creative e non di produttori o esperti di marketing (nonostante i film Pixar poi vadano molto molto bene con il marketing).
Ad oggi quasi tutti i vertici sono cambiati e la generazione iniziale, che ha lavorato ai film dello studio fino agli anni Dieci, è stata gradualmente sostituita da nuovi arrivati. Questa impostazione favorisce ogni volta una creazione originale, cioè una mentalità autoriale e poco industriale. La cosa è ottima quando si tratta di inventare una novità, ma si è dimostrata meno efficace nel momento in cui bisogna sfruttare una proprietà intellettuale.
Un buon esempio di questo approccio è Lightyear – La vera storia di Buzz, lo spin-off di Toy Story, cioè un film che sviluppa una storia parallela approfondendo un personaggio in particolare. È un cartone animato di fantascienza pura, che non ha niente a che fare con il mondo dei giocattoli e ha come protagonista il personaggio di Buzz Lightyear (il giocattolo di un astronauta del futuro, un avventuriero dello spazio) come fosse effettivamente protagonista di avventure spaziali. È quindi un film che sfrutta un nome legato a Toy Story, ma anche una creazione totalmente originale che non replica in nessuna maniera il mondo o le caratteristiche della sua proprietà intellettuale (cioè il mondo dei giocattoli che parlano). Un’operazione audace e creativa che è stata anche un fiasco commerciale e di critica.
Adesso, dopo i sei film di seguito che per ragioni diverse hanno incassato meno del previsto, la Pixar sta cambiando strategia, cosa che per uno studio di animazione richiede tempo. Per fare un lungometraggio animato infatti servono cinque anni circa, quindi di solito ce ne sono quattro o cinque in sviluppo contemporaneamente, sviluppo che una volta partito non conviene quasi mai fermare. Al momento è noto che dopo Inside Out 2 ci sarà Toy Story 5 (sequel di un film che non avrebbe dovuto più averne ma che è anche la proprietà intellettuale di maggiore successo dello studio), e pur non rinunciando a occasionali film originali la cui lavorazione è già a buon punto, come Elio, le forze saranno indirizzate in maniera più decisa, almeno per un po’, verso lo sfruttamento di marchi e titoli di provata efficacia.