Luciano Spalletti, reazionario e rivoluzionario
L'allenatore della Nazionale si divide tra una visione della vita nostalgica e un approccio contemporaneo al calcio: spesso è stato il suo segreto
Nella prima partita degli Europei maschili di calcio l’Italia ha vinto 2-1 contro l’Albania, rimontando in fretta il gol subìto dopo soli 24 secondi e giocando, in particolare nel primo tempo, una partita tutto sommato intensa e convincente. Le migliori cose mostrate dalla Nazionale sono state il pressing insistente, la continua riaggressione (il tentativo cioè di riprendere il possesso subito dopo averlo perso) e la capacità di attaccare con molti giocatori e in modi diversi.
Tutte queste cose fanno parte di una lista di “comandamenti” che l’allenatore Luciano Spalletti ha trasmesso ai giocatori prima dell’inizio del torneo. Nonostante alleni l’Italia da dieci mesi (e appena undici partite), Spalletti sembra aver già dato alla squadra un’identità abbastanza definita: i calciatori, anche quelli che giocano da poco in Nazionale, sanno cosa devono fare in campo. Dalle partite contro la Spagna e contro la Croazia (giovedì 20 e lunedì 24 giugno, alle 21) si capirà meglio se la squadra sarà in grado di restare coerente alle sue idee anche contro avversarie più forti, che porranno maggiori problemi.
Da quando nell’agosto del 2023 fu nominato per sostituire Roberto Mancini, Luciano Spalletti ha vissuto il ruolo di allenatore della Nazionale in maniera totalizzante, come quasi sempre ha inteso il suo lavoro nel corso della lunga carriera (ha 65 anni e fa l’allenatore da trenta). A differenza del suo predecessore Mancini, che non è mai stato particolarmente in sintonia con il pubblico e con i media, Spalletti sembra molto a suo agio quando è al centro dell’attenzione. Non ha problemi a mostrare la sua eccentricità e le sue incongruenze, anzi proprio queste fanno parte della costruzione del suo personaggio e della sua filosofia di allenatore.
Siccome esistono poche persone più al centro dell’attenzione dell’allenatore della Nazionale italiana durante un grande torneo, si può dire che Spalletti sia la persona giusta al momento giusto. Anche perché pur nelle sue contraddizioni, o forse grazie a queste, riesce a mettere d’accordo tutti: i tifosi più conservatori e reazionari, più legati cioè alla retorica del calcio di una volta, con le frequenti citazioni alla vita contadina o le invettive sulle cattive abitudini dei giovani di oggi; ma anche chi ama il calcio contemporaneo, perché a livello sportivo le sue idee sono al passo con i tempi.
Spalletti è sempre stato un allenatore moderno, avanguardista quasi, capace di evolversi in continuazione fino a raggiungere il suo più grande successo (lo Scudetto con il Napoli) a 64 anni. Nella sua lunga carriera ha avuto intuizioni brillanti come far diventare Francesco Totti un centravanti o Marcelo Brozović un regista, e nell’anno dello Scudetto il suo Napoli giocava probabilmente il miglior calcio d’Europa, almeno nella prima parte della stagione, basato soprattutto sul possesso palla e sugli scambi di posizione tra i calciatori.
Spalletti però è anche una persona che, apparentemente, tiene molto a ribadire quali siano i suoi principi, i suoi riferimenti culturali, la sua etica. Come ha detto il giornalista Giorgio Porrà, che ha raccontato Spalletti in un recente episodio del programma di Sky Sport L’uomo della domenica, «lui è un allenatore che vive nel futuro, un allenatore assolutamente progressista, però come uomo rientra perfettamente nel mondo rurale, bucolico, ci si integra benissimo, lì trova il suo senso della vita». Con il suo modo di esprimersi un po’ pomposo, a ogni intervista o occasione in cui parla in pubblico pare davvero che Spalletti stia riflettendo su qualcosa di più grande del calcio: a volte addirittura sul senso della vita.
Da quando è diventato l’allenatore della Nazionale, poi, è come se si sentisse in dovere non solo di far giocare bene i suoi calciatori, ma di educarli, di cambiare la cultura della squadra e quindi dei tifosi, ovviamente seguendo la sua personale scala di valori. L’intervista data alla Gazzetta dello Sport lo scorso febbraio spiega bene questo approccio.
Viviamo in un mondo che poco incentiva il duro lavoro, il sudarsi le cose. I ragazzi di oggi preferiscono mettere una foto su Instagram con il capello fatto piuttosto che abbassare la testa e pedalare. Questi non sono i valori che la mia Italia deve trasmettere. Si viene in Nazionale con gli occhi che ridono e con il cuore che batte e ci si sta come un branco di lupi che vanno in fila indiana per spingere il compagno davanti e non lasciare nessuno indietro. Gli italiani chiedono una Nazionale cazzuta e responsabile, solida e spavalda. Si viene in Nazionale per vincere l’Europeo, non per vincere a Call of Duty.
Per riflessioni come queste, Spalletti attira periodicamente anche delle critiche. Una persona come lui, che frequenta il mondo del calcio da cinquant’anni (fu calciatore prima di allenare), probabilmente sa bene che i calciatori di oggi hanno un livello altissimo di attenzione a ogni aspetto della vita professionale e che nella maggior parte dei casi gestiscono la propria vita privata di conseguenza. La retorica sulla necessità di sacrificarsi e di impegnarsi è quindi quasi anacronistica: è evidente che nel calcio e nello sport moderno sia fondamentale lavorare duramente per ottenere dei risultati ai massimi livelli.
Porrà lo ha descritto come un «figlio di un mondo antico ma capace di creare laboratori gonfi di principi innovativi». Quando Spalletti filosofeggia, insomma, lo fa dal punto di vista di una persona di 65 anni che ha raggiunto risultati importanti attraverso il lavoro: «Ero scarso da giocatore e da allenatore, poi mi sono fatto il mazzo e mi è capitato di vincere contro squadre e allenatori più forti», ha detto una volta.
Come ha scritto Emanuele Atturo sul sito sportivo L’Ultimo Uomo, però, una comunicazione di questo tipo ha anche delle controindicazioni:
Spalletti si è preso la Nazionale italiana col piglio di chi non deve solo allenare ma fare una rivoluzione culturale. Come i despoti illuminati, non si accontenta di governare la squadra, vuole cambiarne i gusti, gli stili di vita, la morale profonda. La serietà con cui ha preso il suo ruolo è ammirevole, ma possiede anche qualcosa di inevitabilmente comico o, meglio ancora, di cringe. Per fare la propria rivoluzione culturale Spalletti ha scelto uno stile estetico ben preciso, l’immaginario del WhatsApp dei cinquantenni: il loro linguaggio, la loro estetica, la loro ironia.
Questa missione di cui Spalletti si sente investito a volte ha risvolti un po’ paternalistici, come quando rimproverò dei bambini che per seguire l’allenamento del Napoli avevano saltato la scuola («e quando ti dovrò allenare e non capirai cosa ti dico? Io quelli che non capiscono non li voglio»). Allo stesso tempo però è una delle principali spiegazioni del suo successo come allenatore, perché grazie all’atteggiamento da mentore e da anziano saggio ha spesso saputo unire e motivare le squadre che ha allenato: una caratteristica che diventa particolarmente importante nel caso di una nazionale, in cui i giocatori passano insieme solo brevi periodi durante l’anno e devono accelerare quei meccanismi relazionali che normalmente servono per creare un gruppo vincente.
Dopo la vittoria con l’Albania, gli hanno chiesto se l’Italia potesse vincere gli Europei; Spalletti ha risposto che tutti, da quando ha cominciato ad allenare i bambini, gli dicono sempre che l’importante è vincere. «No, l’importante è giocare bene», ha detto l’allenatore della Nazionale. «Noi per poter ambire a fare quello che lei dice (cioè vincere gli Europei, ndr) abbiamo una strada sola, quella del gioco, perché bisogna giocare a calcio, sennò ci sono squadre di livello superiore».
Nazionali come l’Inghilterra e la Francia, ma anche la Germania, la Spagna e il Portogallo, sono effettivamente più forti dell’Italia se si considera la qualità dei calciatori. Con la sua fiducia nel lavoro, con idee di calcio coraggiose e anche con le sue stravaganze, Spalletti sta provando a far avvicinare l’Italia alle squadre più forti, per cercare di ripetere la vittoria di tre anni fa.