Cosa ci dice sulle malattie in carcere la situazione di Renato Vallanzasca
Il noto criminale milanese ha 74 anni, 52 li ha trascorsi in prigione e ha una patologia che lo sta tenendo dentro, anche se i medici la giudicano incompatibile con la detenzione
Aggiornamento del 20 giugno: il tribunale di sorveglianza di Milano ha accolto il reclamo della difesa e stabilito che Renato Vallanzasca potrà nuovamente passare del tempo in una comunità di cura fuori dal carcere.
Renato Vallanzasca è uno dei più famosi e raccontati criminali italiani, responsabile tra gli anni Settanta e Ottanta di rapine, sequestri, omicidi ed evasioni per cui è stato condannato a 4 ergastoli. Oggi ha 74 anni, 52 li ha trascorsi in carcere, ed è malato.
Oggi Vallanzasca è affetto da un decadimento cognitivo di tipo degenerativo, un processo irreversibile che la detenzione in carcere sta aggravando e che potrebbe essere rallentato se adeguatamente trattato. Invece, la malattia è il motivo che sta alla base della decisione di revoca dei permessi che gli avrebbero consentito di frequentare, in alcuni giorni e per alcune ore, una comunità terapeutica: «Il paradosso», dicono i suoi avvocati Corrado Limentani e Paolo Antonio Muzzi, «è che la malattia giudicata dai medici come assolutamente incompatibile con il regime di detenzione lo sta tenendo più dentro che fuori».
Mercoledì 19 giugno c’è stata l’udienza per decidere se i permessi a Vallanzasca saranno di nuovo concessi oppure negati. La procuratrice generale ha chiesto al tribunale di sorveglianza di rigettare il ricorso dei legali di Vallanzasca, ma i giudici hanno rinviato la decisione, che è attesa nel giro di pochi giorni: potrebbero accogliere il ricorso, respingerlo o chiedere ulteriori documenti al carcere sulle condizioni di Vallanzasca. Il suo caso, però, non è isolato.
La sanità in carcere e gli ostacoli all’accesso alle cure sono da tempo un tema di dibattito. La Costituzione italiana, diverse sentenze nazionali e internazionali (anche recenti) e la Convenzione europea dei diritti umani (CEDU) stabiliscono il dovere di uno Stato di assicurare che la salute e il benessere anche della persona detenuta siano adeguatamente garantiti. I detenuti dovrebbero insomma beneficiare degli stessi standard di cura disponibili per la popolazione non detenuta, senza discriminazioni legate al loro stato giuridico: possibilità, dunque, di essere sottoposti a visite mediche, diagnosi e cure appropriate e tempestive.
Tuttavia la copertura terapeutica nelle carceri continua a essere scarsa, tra le altre cose a causa della carenza di personale e dell’eccessiva burocratizzazione dei percorsi. L’associazione Antigone, che si occupa della tutela dei diritti delle persone che si trovano in carcere, denuncia da tempo come la sanità nelle carceri sia «evidentemente al collasso»: è composta da medici e infermieri che operano all’interno degli istituti con risorse scarse e con personale del tutto insufficiente a un’adeguata gestione del problema; in media è presente un medico per 700 detenuti e, in alcuni casi, l’assenza di personale non garantisce la presenza di almeno un medico nell’arco delle 24 ore; gli infermieri si trovano spesso a dover fronteggiare situazioni emergenziali potendosi rivolgere esclusivamente al personale di polizia penitenziaria, che non ha le competenze necessarie per essere una risorsa utile in questo contesto.
Tutto questo, dice Antigone, vale anche nella gestione di patologie che possono essere considerate ordinarie in condizioni di libertà e vale ancor di più di fronte a patologie complesse come le malattie neurodegenerative o psicopatologiche: che un ambiente come quello carcerario contribuisce ad accelerare e che faticano più di altre a essere riconosciute.
– Leggi anche: Negli ultimi dieci anni in Italia non ci sono mai stati così tanti detenuti nelle carceri minorili
Renato Vallanzasca è in carcere da 52 anni, è detenuto nel carcere milanese di Bollate. Nel 2010 ebbe accesso al regime di semilibertà, che può essere applicato dopo l’espiazione di metà della pena o, per i delitti più gravi, di almeno due terzi, ma gli venne revocato dopo che nel 2014 era stato accusato di aver rubato un paio di boxer e altri oggetti di scarso valore in un supermercato di Milano. Nel novembre dello stesso anno fu condannato a dieci mesi per tentata rapina impropria.
Anche quell’evento ha avuto negli anni successivi un peso nelle decisioni del tribunale di sorveglianza che gli negò, peraltro, sia la libertà condizionale (concessa al condannato all’ergastolo quando abbia scontato almeno 26 anni di pena) sia la semilibertà. Nel febbraio del 2023, poi, gli furono revocati i permessi “premio”, solitamente concessi dal magistrato di sorveglianza ai condannati che non risultino socialmente pericolosi e che abbiano mantenuto una condotta regolare.
La revoca dei permessi venne giustificata con il fatto che Vallanzasca non fosse più in grado di rispettarne le prescrizioni: il «detenuto», scrisse il magistrato, mostrava «di non comprendere gli orari e le modalità dell’uscita in permesso». Dopo un ricorso, nel maggio del 2023 i permessi gli furono concessi di nuovo permettendogli di tornare a frequentare la comunità dove già andava in passato. Dopodiché, nel marzo del 2024, lo stesso magistrato li revocò di nuovo, sostanzialmente con le stesse motivazioni: «Dopo che la polizia penitenziaria aveva segnalato vari episodi avvenuti in carcere, non legati però a infrazioni disciplinarmente rilevanti, ma alla malattia», spiegano i legali di Vallanzasca. «Piccole reazioni dovute al fatto che non capiva, alle difficoltà di apprendimento dovute alla patologia», già diagnosticata dal 2021.
Nel maggio del 2021, per un sospetto declino cognitivo, Vallanzasca era stato infatti sottoposto a una prima valutazione neuropsicologica presso l’Unità Valutativa Alzheimer di Rho, a Milano. Nelle conclusioni era stata confermata la presenza di lievi difficoltà cognitive attribuite però, in questo primo momento, alla polmonite e alla conseguente carenza di ossigeno causata dal Covid.
Quello stesso mese, per una consulenza di parte richiesta dai suoi legali, erano intervenuti due neuropsicologi, Stefano Zago e Alice Naomi Preti, che avevano concluso, dopo una serie di colloqui e valutazioni, che le condizioni neurologiche e neuropsicologiche di Vallanzasca risultassero connotate «da un franco deterioramento di natura neuroprogressiva» di cui lui era parzialmente consapevole.
In quel primo incontro Vallanzasca non aveva saputo riferire l’anno, faticava a collocare correttamente nel tempo alcuni episodi del suo passato anche recente e lamentava difficoltà a esprimersi. «Ci siamo accorti subito che aveva un quadro di decadimento cognitivo, da cui già emergeva un quadro di intaccamento abbastanza significativo dell’espressione verbale. Non trovava le parole, aveva difficoltà a costruire delle frasi», spiegano Zago e Preti.
Negli anni successivi Vallanzasca è stato sottoposto a diverse altre valutazioni di parte in cui è stata coinvolta anche una neurologa, Monica Sciacco, valutazioni che qualche mese fa hanno finito con il coincidere con quelle disposte dal carcere. Prima che tutti i medici intervenuti arrivassero alle medesime conclusioni, a fronte di una serie di anomalie comportamentali, Vallanzasca è stato però sottoposto a terapie non congrue con la sua patologia, che da allora è peggiorata.
Ora il suo decadimento cognitivo è conclamato. I medici riferiscono che non parla spontaneamente, ha difficoltà a esprimersi e a formulare frasi di senso compiuto, a scrivere e anche solo a copiare delle semplici forme geometriche: condizione che genera in lui una grande frustrazione. «È seguito da un detenuto assegnato dal carcere, che lo assiste nei bisogni quotidiani», dicono gli avvocati, «ma è chiaro che stiamo parlando di una persona che ha bisogno di un aiuto ben più concreto e mirato».
I legali intendono anche avanzare richiesta di detenzione domiciliare: «E per questo siamo alla ricerca di una struttura che lo possa accogliere e abbiamo fatto richiesta anche per la nomina di un amministratore di sostegno che si occupi degli aspetti legali e patrimoniali al posto suo». Come i medici e le mediche che lo seguono da anni, ritengono che Vallanzasca «debba essere tolto dall’ambiente carcerario poiché il carcere non solo non è in grado di occuparsi della sua patologia, ma è peggiorativo per la malattia. Una persona affetta da decadimento cognitivo non deve stare in carcere. Deve stare in un luogo dove poter seguire una terapia integrata. Non per invertire la tendenza che è irreversibile, ma per rallentare e stabilizzare il suo quadro clinico».
Più il differimento della pena sarà ritardato e più tempo passerà in carcere, spiega il dottor Zago, «più le cose si faranno tragiche e complicate. Insistere a tenere le persone affette dalla patologia che affligge Vallanzasca in regime carcerario significa esporle a una sofferenza disumana».
– Leggi anche: L’ennesimo suicidio in carcere di una persona con gravi disturbi psichiatrici