Le regioni devono attendere ancora parecchio prima di avere davvero l’autonomia
Il disegno di legge è stato approvato, ma per definire i Livelli essenziali delle prestazioni (LEP), trovare i soldi e concludere le intese tra governo e regioni ci vorranno anni
Mercoledì 19 giugno la Camera ha approvato in via definitiva il disegno di legge sull’autonomia differenziata, che prevede la concessione di maggiori poteri e prerogative alle regioni su materie finora gestite principalmente dallo Stato centrale. Il voto è arrivato al termine di una lunga sessione notturna, e dopo giorni di sedute accalorate, animate anche da zuffe e risse: alla fine la maggioranza di destra ha approvato il provvedimento con 172 voti favorevoli, contro i 99 delle opposizioni di centrosinistra.
Se il percorso parlamentare di approvazione del disegno di legge si è completato, ci vorrà tuttavia molto tempo prima che venga effettivamente attuato: prima, cioè, che alle regioni possano davvero essere attribuiti i poteri aggiuntivi previsti, al termine di lunghi e complessi negoziati col governo e col parlamento. È lo stesso disegno di legge, infatti, a stabilire che prima di avviare le procedure per devolvere maggiori competenze alle regioni debbano essere definiti i Livelli essenziali delle prestazioni (LEP), i servizi economici e sociali che lo Stato deve garantire su tutto il territorio nazionale in alcuni settori fondamentali.
Nel concreto significa stabilire, per esempio, quanti posti negli asili nido pubblici o quanti posti letto negli ospedali devono esserci in ciascuna provincia; con quanta frequenza devono passare gli autobus nei comuni di campagna; il numero massimo di alunni per classe nelle scuole, e così via. Il tutto, poi, tenendo in considerazione le specificità dei vari territori, e dunque prevedendo che ci debbano essere delle diverse attuazioni dei LEP a seconda che si parli di un piccolo borgo dell’appennino molisano o di una grande città della Lombardia. Ciò serve a garantire che l’attribuzione di ulteriori funzioni a certe regioni non generi o aumenti squilibri e divergenze tra le aree più sviluppate e quelle più arretrate del paese.
È una materia molto delicata e complessa, su cui da oltre vent’anni si effettuano ricerche e studi che hanno però finora dato risultati solo preliminari.
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Per cercare soluzioni più concrete, il governo di Giorgia Meloni ha approvato nella legge di bilancio del dicembre 2022 una norma per costituire una “cabina di regia”, un comitato tecnico presieduto da Meloni e composto dai ministri competenti e dagli amministratori locali dei comuni e delle regioni, a cui era assegnato il compito di fare entro sei mesi una ricognizione preliminare sui LEP. Insediatasi solo alla fine di aprile del 2023, questa “cabina di regia” non ha mai prodotto risultati, e per questo il suo mandato è stato prorogato fino a tutto il 2024.
Nel frattempo a marzo 2023 il governo ha nominato anche un “comitato tecnico scientifico” (CLEP), composto da 61 esperti di diritto e di finanza pubblica, che ha grosso modo funzioni analoghe a quelle della cabina di regia, e che a ottobre scorso ha elaborato un primo rapporto sull’attività svolta, specificando che questa va intesa come «un’esplorazione “in terre incognite”», insomma come una ricerca ancora interlocutoria. Da questa ricerca è emerso però abbastanza chiaramente che l’applicazione dei LEP avrà un costo rilevante per lo Stato, che dovrà aumentare i propri standard dei servizi pubblici offerti in molte regioni, soprattutto quelle del Sud: e questo comporterà una spesa al momento non quantificata ma stimata in diverse decine di miliardi di euro che il governo non ha ancora detto come intende trovare. Difficilmente potrà farlo sottraendo risorse alle regioni del Nord, perché sarebbe un ribaltamento del principio che sta alla base dell’autonomia differenziata.
Il testo del disegno di legge è tuttavia chiaro: il comma 2 dell’articolo 1 stabilisce che l’attribuzione di funzioni ulteriori alle regioni «è consentita subordinatamente alla determinazione […] dei relativi livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali», specificando che «tali livelli indicano la soglia costituzionalmente necessaria e costituiscono il nucleo invalicabile per rendere effettivi tali diritti su tutto il territorio nazionale». I primi a essere consapevoli che questo percorso richiederà anni sono proprio i parlamentari della Lega, che più di tutti si sono spesi per l’approvazione del provvedimento.
Lo stesso ministro per gli Affari regionali Roberto Calderoli, dirigente storico del partito di Matteo Salvini e principale promotore del disegno di legge, ha più volte ammesso l’approccio molto cauto del suo testo, anche per vincere le grosse resistenze che sul tema agitano anche Forza Italia e Fratelli d’Italia.
Proprio gli emendamenti di due senatori di Fratelli d’Italia, Andrea De Priamo e Alberto Balboni, hanno introdotto modifiche significative al provvedimento durante la sua discussione al Senato, nel gennaio scorso. Da un lato, questi emendamenti hanno stabilito che il processo legislativo necessario per definire le intese tra governo e regioni sulla concessione dell’autonomia non avvengano tramite semplici decreti del presidente del Consiglio (DPCM), ma tramite decreti legislativi: strumenti normativi che richiedono un percorso di approvazione più lungo e complesso. Dall’altro, De Priamo e Balboni hanno aggiunto al testo originario di Calderoli alcuni passaggi che ribadiscono come l’attuazione dei LEP debba avvenire su tutto il territorio nazionale e che la definizione delle intese con le singole regioni non debba compromettere la proporzionalità delle spese destinate alle altre regioni. Sono previsti per questo strumenti che garantiscono una sorta di compensazione per le regioni con minore capacità fiscale per abitante, cioè quelle più arretrate.
Al di là dell’aspetto tecnico, le modifiche apportate al testo durante l’esame del Senato per volere di Fratelli d’Italia sono rilevanti non perché stravolgono il senso del provvedimento, ma perché rendono ancor più rigido e proibitivo il processo che dovrebbe portare all’effettiva attribuzione di ulteriori competenze alle regioni. Lo stesso vale anche sul piano finanziario.
L’incognita di questo disegno di legge ruota proprio intorno a questa domanda: con quali soldi si finanzierà l’autonomia? Gli emendamenti approvati al Senato rendono questo dubbio assai difficile da sciogliere. È stato infatti stabilito che, qualora la determinazione dei LEP comporti maggiori spese per lo Stato, si può procedere al trasferimento delle funzioni solo dopo che siano entrate in vigore le norme necessarie a finanziare interventi per «assicurare i medesimi livelli essenziali delle prestazioni sull’intero territorio nazionale». Significa dunque che prima si dovranno stanziare i soldi per migliorare gli standard pubblici nelle aree più disagiate del paese, e dopo si potranno accogliere le richieste delle regioni che reclamano maggiore autonomia.
Riguardo a questo, i presidenti di regione leghisti come il veneto Luca Zaia o il lombardo Attilio Fontana hanno già detto che chiederanno al governo un’iniziale concessione parziale delle funzioni, che potrebbe seguire un percorso più rapido. Secondo gli articoli 116 e 117 della Costituzione, infatti, le materie di «legislazione concorrente», quelle su cui le regioni possono rivendicare maggiore autonomia rispetto allo Stato centrale, sono 23. Il Comitato tecnico per l’individuazione dei LEP ha però fatto una distinzione, tra queste, stabilendo che solo 14 hanno implicazioni dirette coi livelli essenziali delle prestazioni. Sono in effetti le più rilevanti: tutela e sicurezza del lavoro; istruzione; ricerca scientifica e tecnologica e sostegno all’innovazione per i settori produttivi; tutela della salute; alimentazione; ordinamento sportivo; governo del territorio; porti e aeroporti civili; grandi reti di trasporto e di navigazione; ordinamento della comunicazione; energia; valorizzazione dei beni culturali e ambientali.
Su altre 9, invece, il Comitato ha stabilito che non ci sono legami diretti con i LEP, non essendo le prestazioni associate alla tutela dei diritti civili e sociali: sono i rapporti internazionali delle regioni; il commercio con l’estero; le professioni; la protezione civile; la previdenza complementare; il coordinamento della finanza pubblica; le casse di risparmio regionali; gli enti di credito regionale; l’amministrazione della giustizia di pace.
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Ebbene, proprio partendo da queste 9 materie su cui teoricamente non ci sarebbe necessità di determinare i LEP, i presidenti leghisti delle regioni del Nord vorrebbero avviare gli accordi col governo. Ma è un aspetto ambiguo del provvedimento, su cui sono sorte anche divergenze interpretative tra gli stessi parlamentari di maggioranza, e non è chiaro se sia possibile iniziare per gradi a concedere porzioni di autonomia senza che prima i LEP siano stati definiti. Al di là di questo, il testo del provvedimento è chiaro nell’attribuire la responsabilità legislativa e politica del procedimento al capo del governo. Sarà quindi la presidente del Consiglio Meloni, e chi verrà dopo di lei, a dettare i tempi.
Una forzatura da parte dei presidenti di regione, in questo senso, è poco probabile, anche perché sia per le materie che sono interessate dai LEP sia per quelle che non lo sono, il procedimento legislativo previsto dal disegno di legge è lunghissimo.
Riassumendo: la regione che vuole più autonomia trasmette la richiesta al presidente del Consiglio; il presidente del Consiglio chiede una valutazione al riguardo ai ministri competenti, che hanno 60 giorni per fornirla; a quel punto il governo informa il parlamento e la Conferenza Stato-regioni, dopodiché avvia il negoziato con la regione, confrontandosi sulla definizione dei LEP su ciascuna delle materie su cui è stata fatta richiesta di trasferimento, fermo restando che il presidente del Consiglio può decidere di limitare il negoziato solo ad alcune di quelle materie, escludendone altre, senza che la regione interessata possa opporsi; lo schema di intesa che viene elaborato al termine di questo negoziato, che non ha scadenze temporali, viene approvato dal Consiglio dei ministri, e poi trasferito alla Conferenza unificata (quella in cui rappresentanti di governo, regioni, province e comuni si esprimono su materie di interesse condiviso). La Conferenza ha sessanta giorni per esprimere un parere.
Probabilmente vi siete persi, ma sappiate che non è ancora finita: trascorsi questi sessanta giorni, lo schema d’intesa preliminare è inviato alle camere, che devono esprimere degli “atti d’indirizzo” non vincolanti entro 90 giorni; a quel punto il presidente del Consiglio prepara lo schema d’intesa definitivo, al termine però di un ulteriore possibile negoziato con la regione, di nuovo senza alcuna scadenza; quello schema viene poi trasmesso alla regione perché lo approvi, e viene quindi di nuovo approvato dal Consiglio dei ministri entro i successivi 45 giorni; diventa così il testo base di un disegno di legge che deve essere nuovamente approvato dal Consiglio dei ministri, poi trasmesso alle camere che devono approvarlo ciascuna a maggioranza assoluta, quindi col voto favorevole di più della metà dei propri componenti.