Le trattative in Europa sono complicate per Giorgia Meloni

La presidente del Consiglio italiana non ha trovato la sponda che cercava nel Partito popolare: dovrà decidere se rispettare le promesse elettorali oppure allontanarsi dai suoi alleati di estrema destra

Giorgia Meloni al lavoro durante il Consiglio Europeo informale del 17 giugno, a Bruxelles (OLIVIER HOSLET/ANSA)
Giorgia Meloni al lavoro durante il Consiglio Europeo informale del 17 giugno, a Bruxelles (OLIVIER HOSLET/ANSA)
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Lunedì a Bruxelles, in Belgio, un Consiglio Europeo informale ha avviato i negoziati per definire gli assetti politici e istituzionali dell’Unione dopo le elezioni di inizio mese. Prima nel corso di una serie di colloqui e di incontri, poi durante una cena, i ventisette capi di Stato e di governo dei paesi membri hanno discusso dell’assegnazione degli incarichi di maggior rilievo: la presidenza della Commissione, del Consiglio e del Parlamento Europeo, e l’alto rappresentante per la Politica estera. È stato un confronto ancora interlocutorio, in vista del decisivo Consiglio Europeo ufficiale del 27 e del 28 giugno, ma che ha già fornito primi importanti segnali sulle alleanze e sugli equilibri politici che regoleranno con ogni probabilità la nuova legislatura. Non sono stati segnali molto positivi per Giorgia Meloni.

Meloni è tra i pochi leader usciti rafforzati dalle elezioni europee, e ha un buon rapporto personale con la presidente – uscente e ricandidata – della Commissione Ursula von der Leyen. A Bruxelles ha provato ad assumere il ruolo di “portavoce” dei partiti della destra radicale e allo stesso tempo avere voce in capitolo nella formazione delle alleanze. Invece proprio questa sua posizione in bilico e un po’ ambigua, dialogante con i leader dei principali partiti europeisti ma rappresentante autorevole di quelli euroscettici, ha finito col relegarla per ora in una condizione di marginalità, rendendola ininfluente per la formazione di una maggioranza politica nel Consiglio e nel Parlamento Europeo.

Resta dunque abbastanza probabile che il governo italiano, in virtù del suo ruolo di paese fondatore e di terza economia del continente, ottenga un incarico prestigioso, per esempio un commissario con deleghe importanti e forse una vicepresidenza della Commissione; è meno probabile che invece si concretizzi l’obiettivo più volte indicato da Meloni: cioè che la vittoria delle destre radicali in vari paesi europei possa determinare un complessivo spostamento a destra dell’orientamento politico nelle istituzioni europee.

– Leggi anche: Dentro al Partito Popolare Europeo

Che le cose si stessero mettendo male per Meloni lo si è visto poco dopo l’ora di pranzo di lunedì, quando il primo ministro polacco Donald Tusk, davanti ai cronisti che gli chiedevano se fosse riuscito a convincere la leader di Fratelli d’Italia a entrare in maggioranza, ha risposto così:

Il mio lavoro non è convincere Meloni. Abbiamo già una maggioranza con PPE, Liberali, Socialisti e altri piccoli gruppi. La mia sensazione è che sia già più che sufficiente.

Le parole di Tusk si riferivano al fatto che i tre partiti storicamente alleati in Europa – i Popolari di centrodestra, i centristi liberali che hanno come riferimento il presidente francese Emmanuel Macron e i socialisti, appunto – hanno eletto un numero di europarlamentari sufficienti per garantire una maggioranza autonoma nel Parlamento Europeo, il quale dovrà confermare la candidata presidente per la Commissione indicata dai capi di Stato e di governo. Quasi sicuramente sarà proprio von der Leyen.

I tre gruppi hanno 406 dei 720 seggi dell’assemblea, 45 in più rispetto alla soglia di maggioranza di 361 eurodeputati. È vero che l’elezione del presidente della Commissione avviene a scrutinio segreto, e che fisiologicamente una quota di parlamentari vota in dissenso rispetto alle indicazioni del proprio gruppo, i cosiddetti “franchi tiratori”: ma i margini per Von der Leyen, che potrà contare anche sul sostegno di singole delegazioni o di europarlamentari iscritti ad altri partiti, sono ritenuti ampi.

Il cancelliere tedesco Olaf Scholz, a sinistra, riceve a Berlino il primo ministro polacco Donald Tusk, al centro, e il presidente francese Emmanuel Macron il 15 marzo 2024 (Ebrahim Noroozi/AP Photo)

Al di là dei numeri, che naturalmente contano, le parole di Tusk sono rilevanti perché indicano l’orientamento prevalente nel PPE, il partito vincitore delle elezioni europee (con 190 europarlamentari eletti, 14 in più rispetto al 2019) e il più decisivo per definire il futuro politico dell’Unione.

Tusk è uno dei negoziatori indicati dal PPE per condurre le trattative in questa fase, insieme al primo ministro greco Kyriakos Mitsotakis, e sono entrambi esponenti della corrente più moderata del PPE, quella cioè che con maggiore risolutezza si oppone a un accordo con i partiti della destra radicale di ECR, il gruppo dei Conservatori e riformisti europei capeggiato proprio da Fratelli d’Italia. Tusk, inoltre, ha nei confronti di Meloni un motivo di risentimento politico in più: la presidente del Consiglio italiana è stata ed è tuttora la principale alleata di Diritto e Giustizia (PiS), il partito di destra che ha governato la Polonia tra il 2017 e il 2023 con Mateusz Morawiecki, imponendo al paese una deriva semi-autoritaria in violazione dei principi europei sullo stato di diritto. Insomma, si può dire che Meloni è per Tusk la migliore amica del suo peggiore nemico, Morawiecki appunto.

Anche per questioni di politica interna, Tusk ha interesse a evitare qualsiasi dialogo con ECR: significherebbe, per lui, aprire al partito di cui fanno parte i suoi avversari in patria.

Ma ci sono anche altre questioni che contribuiscono a isolare Meloni. Nella riunione che il PPE ha avuto ieri a Bruxelles prima dell’avvio del Consiglio Europeo informale è emerso chiaramente come da giorni proprio Tusk, insieme a Mitsotakis, abbia fatto delle consultazioni tra i principali leader dei popolari per consolidare la corrente più moderata del PPE. Non solo i capi di Stato e di governo, anche alcuni singoli europarlamentari hanno raccontato di come questo lavoro diplomatico sia stato piuttosto intenso, e abbia confermato una tendenza già in corso negli ultimi mesi che ha portato Tusk a diventare sempre di più il terzo componente di un’alleanza a tre guidata dal cancelliere tedesco Olaf Scholz, socialdemocratico, e dal presidente francese Macron, liberale: entrambi indeboliti dal voto, sia Scholz sia Macron mantengono però una leadership di fatto, e non hanno nessun interesse ad aprire un dialogo coi partiti della destra radicale.

Intanto lunedì, prima dell’inizio del Consiglio, Giorgia Meloni si è incontrata col primo ministro ungherese Viktor Orbán e con Morawiecki. È una tattica che Meloni ha adottato già altre volte: proporsi come una sorta di mediatrice tra i leader dell’estrema destra euroscettici e i rappresentanti delle istituzioni europee. Lo scopo del colloquio, secondo i collaboratori di Meloni, è stato sondare l’eventuale disponibilità di Orbán e Morawiecki a votare in favore della Commissione. Un po’ come fece nel giugno del 2023, quando provò a convincerli a votare per il nuovo Patto per le migrazioni e l’asilo, fallendo però nel tentativo: al dunque, Orbán e Morawiecki si opposero all’accordo che Meloni decise invece di sostenere.

Ma nella percezione della maggior parte dei dirigenti del PPE la mossa di Meloni è sembrata più che altro una dimostrazione del fatto che sia più interessata a consolidare le alleanze coi partiti di estrema destra che non ad accreditarsi coi leader moderati – popolari, socialisti e liberali – che contano. E questo ha rafforzato le ragioni di chi si oppone a qualsiasi apertura del PPE verso ECR.

Di fronte a questo atteggiamento di chiusura, i suoi collaboratori hanno parlato con i giornalisti riportando un commento di Meloni contrario a qualsiasi ipotesi di «accordo preconfezionato». L’intesa tra PPE, socialisti e liberali è infatti già imbastita e piuttosto solida: prevede che i popolari ottengano la riconferma di von der Leyen e di Roberta Metsola alla presidenza di Commissione e Parlamento, che ai socialisti vada la presidenza del Consiglio Europeo con l’ex premier portoghese Antonio Costa, mentre ai liberali verrebbe affidato l’incarico di alto rappresentante per la politica estera, cioè la guida della diplomazia europea, con la prima ministra estone Kaja Kallas.

Meloni si è detta contraria a questo accordo, che in effetti ieri poi non si è chiuso anche perché i popolari hanno fatto un’ulteriore richiesta, rivendicando la presidenza del Consiglio Europeo per un loro esponente tra due anni e mezzo. La richiesta ha complicato le trattative.

Insomma, lo scenario emerso dalle trattative di lunedì pone Meloni di fronte a due scelte: votare per la Commissione Europea e per la sua maggioranza europeista senza un accordo strutturale tra PPE ed ECR, quindi eventualmente dividendosi dagli altri partiti del suo gruppo, oppure opporsi a quella maggioranza. Nel primo caso, dovrebbe contraddire anni di retorica e di propaganda; nel secondo caso, rischierebbe di restare ai margini della politica europea nei prossimi mesi, complicando alcuni delicati negoziati tra il governo italiano e le istituzioni europee come l’attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR) e l’applicazione delle nuove norme finanziarie del Patto di stabilità e crescita per risanare i conti pubblici.