Particolare della mappa dell'inferno di Dante Alighieri dipinta da Sandro Botticelli, 1485 circa <a href="https://ilpost.link/4lRUDfX39M">Wikipedia</a>

Mappa dei libri con le mappe

«Nei libri, soprattutto in quelli “per ragazzi” (e ragazze!), la mappa di solito si trova all’inizio. Le ricordo bene queste mappe, a volte su fogli più grandi del libro, incollati alla controcopertina o inseriti in una tasca di cartoncino. Li dovevi distendere con un gesto rituale, facendo attenzione a non sdrucirli: le linee di piegatura erano già tanto consumate da esporre una peluria di fibre. Era proprio la mappa a dare al libro la patente di “libro per ragazzi”, cioè tuo. Ogni mappa è una promessa, è una mappa del tesoro. Ma la verità è che la mappa è essa stessa il tesoro: perché là fuori, nella realtà, il tesoro non è detto che lo trovi»

Avrò avuto otto anni quando ho disegnato la mia prima mappa. A quell’epoca vivevamo appena fuori Taranto, in un comprensorio della Marina Militare che ospitava alcuni villini destinati agli ufficiali e alle loro famiglie. Nei ricordi d’infanzia, gli spazi sono più grandi del vero: ma la stanza in cui dormivo la ricordo piccola, certamente perché dovevo dividerla con due fratelli maggiori. Al muro, però, accanto alla finestra, avevo appiccicato con lo scotch una mappa del parco.

L’avevo disegnata io, riportando le palazzine, i vialetti, il disegno delle aiuole, il lungomare sudicio con il suo piccolo molo. E naturalmente le basi segrete, i passaggi, i nascondigli. Chissà dov’è andata a finire: forse in qualche magazzino sorvegliato dai goblin o da Michele Mari. Ma soprattutto: chissà a cosa mi serviva. Erano tutti luoghi che conoscevo alla perfezione. E allora?

Allora posso fare delle ipotesi. Una mappa è prima di tutto la rappresentazione di uno spazio da un punto di vista impossibile – a meno di non disporre di elicotteri o droni e di un tagliamuri per scoperchiare i soffitti. Dal punto di vista di Dio, diciamo. Manifesta un’ambizione di controllo totale sulla realtà. In un bambino, un ultimogenito, questo desiderio non sorprende affatto. Più precisamente, la mappa appesa al muro sollecita una fantasia cinematografica: indicare con una lunga bacchetta a un team di esecutori il piano per una rapina in banca o per l’incursione in una base sottomarina. Era esattamente il gioco che inventavo quando qualche amico veniva a trovarmi. «Passeremo di qua, poi ci ritroveremo tutti qui… Perfetto!» Un sogno di potere e di rivalsa sulla realtà, grandioso e puerile. Erano gli anni di Roger Moore, il più puerile degli 007.

«Allora posso fare delle ipotesi. Una mappa è prima di tutto la rappresentazione di uno spazio da un punto di vista impossibile». Jacopo de’ Barbari, Veduta di Venezia, 1500 (Museo Correr, Venezia, via Wikimedia).

C’è una battuta completamente idiota che ho sempre amato perché smaschera con ironia questo meccanismo. Pochi anni prima che Moore interpretasse il ruolo dell’agente segreto per eccellenza, Woody Allen aveva “girato” il suo primo film: What’s Up, Tiger Lily? (titolo che in Italia è stato banalizzato in Che fai, rubi?). In realtà era un esperimento bizzarro, che anticipava di decenni certe pratiche dei social media. Allen aveva semplicemente acquistato i diritti su un vero film d’azione giapponese in stile James Bond. Poi ne aveva tagliato e rimontato le scene, e l’aveva doppiato sostituendo al dialogo originale le sue battute assurdiste. In questa versione rivisitata, per esempio, l’obiettivo non è recuperare un’atomica o un microfilm ma… la ricetta per un’insalata con le uova sode, che conferirà a chi la possiede il dominio sul mondo.

A un certo punto un capobanda mostra una mappa dettagliata della casa in cui occorre penetrare: un cliché dei film di spionaggio. Ed esclama:
– Wong vive qui!
La superspia di turno (Tatsuya Mihashi, un attore con l’aria da duro) ribatte:
– Come?! In questo piccolo pezzo di carta?

Questa freddura, ecco, mi incantava. Dava sfogo – in modo leggerissimo – alla mia amara consapevolezza che la mappa non era il territorio. Non lo era affatto. Su cosa si esercitava il mio potere? Su un piccolo pezzo di carta. Non la cosa in sé, ma la sua immagine. Era bene ricordarselo!

Quindi la mappa come fantasia di controllo, mera immagine del mondo… che però, proprio per questo, nutre la fantasia, nutre l’immaginazione. Ecco un grande paradosso della cartografia: benché la mappa sia in fondo un risultato, il frutto di esplorazioni e rilevazioni, noi la raccontiamo soprattutto come progetto. Un proiettarsi in avanti, verso un’azione da compiere, che sia un viaggio di piacere o la ricerca di un microfilm (o di una ricetta). Davanti a un quadro pensiamo a chi l’ha dipinto; davanti a una mappa, a chi la userà. Spesso noi stessi. Sentiamo che ci riguarda in questo modo diretto.

Per questo nei libri, soprattutto quelli considerati “per ragazzi” (e ragazze!), la mappa di solito si trova all’inizio. Le ricordo bene queste mappe, a volte su fogli più grandi del libro, incollati alla controcopertina o inseriti in una tasca di cartoncino. Li dovevi distendere con un gesto rituale, facendo attenzione a non sdrucirli: le linee di piegatura erano già tanto consumate da esporre una peluria di fibre. Era proprio la mappa a dare al libro la patente di “libro per ragazzi”, cioè tuo. Solo qualche volume di storia o di guerra presentava lo stesso lasciapassare: e in fondo anche quelli potevi considerarli libri d’avventura.

La mappa, dicevo, sta all’inizio. Certo, viene collocata lì perché si possa consultarla nel corso della lettura: ma prima ancora perché ci permette di sognare. Sognare prima ancora di aver letto il libro (in questo senso è affine all’indice, alla table of contents, che offre un assaggio di ciò che verrà). Infatti ci sono libri che nascono per intero da una mappa. Il più famoso è certamente L’isola del tesoro: non solo ha la sua genesi nelle carte di isole immaginarie che Stevenson disegnava durante un viaggio in Scozia, ma racconta proprio il ritrovamento di una mappa, che a sua volta spinge gli eroi a partire alla ricerca del tesoro.

Ogni mappa è una promessa, è una mappa del tesoro. Ma la verità è che la mappa è essa stessa il tesoro: perché là fuori, nella realtà, il tesoro non è detto che lo trovi. O ti costa caro.

Leopardi lo dice chiaramente: il mondo appare più vasto al “fanciullino” che non al saggio; una volta conosciuto «non cresce, anzi si scema». Anche Baudelaire parla del «mondo monotono e meschino», e anche lui osserva che «per il ragazzo, amante delle mappe e delle stampe, l’universo è pari al suo smisurato appetito. Com’è grande il mondo al lume delle lampade!» C’è in entrambi i poeti questa parola tonda e rimbalzante, “mondo”, che evoca uno spazio sempre ancora da scoprire. Ma quando poi lo esplori davvero, quello spazio immaginario, ti imbatti in delusioni di ogni sorta, o peggio ancora in violenze omicide e dilemmi morali come quelli che segnano tutta l’avventura dell’isola del tesoro. Non è un caso che questo senso del contrasto tra mappa e territorio abbia le sue radici nel secolo dell’imperialismo spietato. Il secolo che si conclude con un altro di questi racconti: c’è un bambino che ama sognare sulle carte geografiche, e poi diventa uomo e decide di andare a esplorare quegli spazi, solo per scoprire tutti gli orrori di quello che è, di fatto, schiavismo. Il libro è Cuore di tenebra di Joseph Conrad.

Ho l’impressione che in quell’ultimo quarto dell’Ottocento si sia collocato un bivio decisivo. Da una parte, fu un’epoca d’oro per la letteratura per ragazzi, che da quel momento in poi si sarebbe adornata sempre più di mappe di paesi reali o immaginari (preferendo di gran lunga questi ultimi, per evidenti motivi): l’isola del tesoro, Oz, Pellucidar, il bosco di Winnie Pooh, la Terra di Mezzo, Narnia. Ma dall’altra parte, in quel momento storico l’idea stessa di mappa fu messa in discussione.

Qui la figura decisiva è quella di Lewis Carroll.

Anche lui, come Woody Allen, si fa gioco delle ambizioni della cartografia, quando immagina (in Sylvie and Bruno Concluded, una sessantina di anni prima della carta dell’impero di Borges) una mappa che riproduce il territorio in scala 1:1. Non può venire aperta, perché coprirebbe per intero il paese e bloccherebbe la luce solare («Perciò ora usiamo il paese come mappa di sé stesso, e le assicuro che va quasi altrettanto bene»). Ma Carroll va oltre. Nella caccia allo Snark inserisce una mappa perfettamente vuota: una distesa di mare senza traccia di terre, e senza neppure i meridiani e i paralleli – «sono solo segni convenzionali!». La mappa del paese al di là dello specchio, del resto, è semplicemente una scacchiera: cioè appunto uno schema convenzionale, che prende vita solo grazie alle avventure di Alice. Ma l’immaginazione, quando è davvero sbrigliata, fa a meno di qualsiasi schema. Non esiste una mappa del paese delle meraviglie.

Sono dunque queste convenzioni, questi schemi, ciò che occorre indagare e anche forzare (così come, subito dopo Carroll, avrebbero fatto certi signori di nome Freud e Einstein, che mettono in discussione le coordinate fondamentali della psiche e dello spaziotempo). È quello che fa Edwin Abbott quando racconta le vite di punti, triangoli e sfere in Flatlandia. È quello che fa Kipling quando racconta la nascita delle lettere dell’alfabeto in Storie proprio così. Io stesso nel mio piccolo ho provato a fare qualcosa del genere in un libro chiamato Autobiogrammatica.

Ancora oggi, tra gli usi più interessanti delle mappe in letteratura c’è proprio l’esplorazione della loro banalità e convenzionalità (le mappe puramente immaginarie, nel frattempo, vengono lasciate al mercato della letteratura fantasy: dove del resto regna forse un altro tipo di prevedibilità). Prendiamo un caso particolare: la mappa di una casa. Qui, diciamocelo, lo schema – tranne nel caso di vaste magioni aristocratiche – ha scarsissima forza di suggestione: è più un lavoro da geometra. In effetti queste mappe sono rare nella letteratura di consumo, si trovano più che altro nel paratesto di qualche giallo. Eppure il grande romanzo del Novecento ha tematizzato più volte la piantina della casa. Se ne è interessato proprio per il suo carattere convenzionale, cioè insieme regolare e banale.

La vita istruzioni per l’uso di Georges Perec (1978) racconta una per una le vite dei residenti di un condominio parigino. All’inizio troviamo una sezione dell’edificio: ogni appartamento è numerato. Poi Perec passa da un locale all’altro con il salto del cavallo, fino a esaurirli praticamente tutti – ma non tutti. In modo altrettanto sistematico, molti elementi di ogni storia (oggetti, sentimenti, libri, quadri…) sono prefissati attraverso complicate tabelle – incluse tabelle di eccezioni. Perec gioca con le regole. Non vuole demolirle; al contrario, ne è affascinato. Non ne avrebbe mai abbastanza.

Abbiamo quindi un centinaio di storie: ma non ne ricordo quasi nessuna (fa eccezione quella di Bartlebooth, che è un po’ il filo conduttore del libro). Hanno la rigidità esemplare e l’ostentata formalità di un ex voto. Leggere La vita istruzioni per l’uso è una cosa divertente che non farò mai più. Amo Perec, amo la sua scrittura che racconta e riflette mediante continui sprofondamenti nel ghiaccio secco. Ma in fondo l’essenza del suo romanzo sta già tutta nella prima pagina: le nude righe della mappa dell’immobile, il progetto di riempirlo e “esaurirlo” (di qui le tante tabelle, nude anche loro, un po’ come nel gioco “nomi cose città”), e la constatazione del necessario fallimento – perché ogni regola ha la sua eccezione e ogni carta geografica il suo punto cieco. Il che, paradossalmente, conferma la validità del progetto: davanti a una mappa cosa possiamo fare se non tentare, partire, raccontare?

Forse ogni narratore-geografo è portato a adottare uno stile asciutto e minuto, entomologico. Mi viene in mente un libro recentissimo, Inventario di quel che resta dopo che la foresta brucia di Michele Ruol (TerraRossa). Quando l’ho aperto per la prima volta, non mi ha colpito. Il linguaggio sembrava privo di carattere. Poi ho capito che quella lingua distaccata e accurata somigliava a quella di Perec, o anche alle frasi delle didascalie teatrali (Ruol, in effetti, ha scritto anche per il teatro). Il romanzo non ha una mappa ad accompagnarlo, ma l’indice stesso è una mappa. La prima parte, “Casa”, comprende i capitoli “Ingresso”, “Cucina”, “Salotto” e così via; nella seconda, “Automobile”, abbiamo “Bagagliaio”, “Abitacolo”, “Tettuccio”. Ogni capitolo accoglie sezioni dedicate ai singoli oggetti: nel “Bagno”, per esempio, “il Rasoio elettrico”, “il Bicchiere”, “il Dispenser”… oggetti qualsiasi: cioè convenzionali.

Sembrava tutto assolutamente gelido. Uno dei personaggi, in effetti, a un certo punto diceva: non provare niente è «una bellissima sensazione». E aveva le sue buone ragioni per dirlo. Perché la storia narrata da Ruol è atroce. Una famiglia con due figli che muoiono entrambi in un incidente d’auto. Intanto un violento incendio (reale? metaforico?) ha distrutto la casa comune. Ogni oggetto permette di raccontare un pezzo di questa storia spostandosi avanti e indietro nel tempo, dall’infanzia dei ragazzi, con lo sviluppo delle loro differenti personalità, al tempo dopo la tragedia: il processo, la crisi tra i genitori. L’inventario chiede a chi legge uno sforzo attivo per riconnettere questi frammenti, proprio come di fronte ai reperti di una catastrofe.

Michele Ruol di mestiere fa l’anestesista. Il tema centrale del suo romanzo è: cosa fare del dolore? Negarlo, analizzarlo, lasciare che si scateni? Il tempo si è fermato per sempre attorno a quell’automobile contorta. Per questo il suo libro-inventario è una mappa: un puro spazio disseminato di brevi episodi, che trillano ancora come i pezzi dispersi di un ingranaggio distrutto. Come riparare l’orologio rotto, come riavviare il tempo? Ruol suggerisce che si possa prendere esempio dalla natura, che è morte e vita, foresta che brucia per poi rinascere. Una mappa, ci dice, serve a fare il punto, a capire come stanno le cose, ma è sempre solo un punto di partenza. Meglio cercare il tesoro, a qualunque costo.

Non è l’unico scrittore a muoversi in questo modo. Un altro è Christophe Boltanski, che in Il nascondiglio (tradotto da Marina Di Leo per Sellerio nel 2017) ha costruito uno straordinario racconto autobiografico articolato sulle singole stanze della casa in cui è cresciuto. I capitoli sono introdotti da mappe sempre più dettagliate, seguendo la trasformazione degli ambienti e il trascorrere delle vite – due processi ora morbidi ora violenti. Alla fine la famiglia si dissolve, e si conferma. Un altro, il più in sintonia con Perec, è Andrea Canobbio: in La traversata notturna (La nave di Teseo, 2022) disegna una griglia sulla sua città, Torino; poi si muove da un riquadro all’altro per raccontare la storia di un matrimonio e (di nuovo) di una famiglia, la sua. Il percorso labirintico, cioè al tempo stesso claustrofobico e imprevedibile, corrisponde strettamente alla gravissima depressione che traccia un solco discontinuo attraverso la vita del padre. Si potrebbero fare ancora altri nomi. In ogni caso una cosa è chiara: scrivere a partire da una mappa non significa restare incollati a un immaginario bidimensionale, persi nel tavoliere dello spazio, ma partire per il viaggio più difficile, lungo i corridoi del tempo.

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