In Sudafrica entrerà nel governo un partito a maggioranza bianca
Si chiama Democratic Alliance e sarà in coalizione con l'ANC, il partito che fu di Nelson Mandela, che non ha la maggioranza per la prima volta dalla fine dell'apartheid
Venerdì in Sudafrica è stato trovato un accordo per formare un governo di unità nazionale dopo che alle elezioni di maggio l’African National Congress (ANC), che ha governato il paese negli ultimi trent’anni, non ha ottenuto la maggioranza dei seggi. Il principale partner di questa nuova coalizione, che sarà guidata dall’ANC (il presidente del paese rimarrà il leader dell’ANC Cyril Ramaphosa) sarà Democratic Alliance (DA), un partito di centrodestra, la cui leadership è quasi esclusivamente bianca e che è associato alla comunità bianca del paese.
Alle elezioni di fine maggio Democratic Alliance era arrivato secondo, con il 21,8 per cento dei voti (l’ANC ha il 40,1). È la prima volta dalla fine dell’apartheid – il regime di violenta segregazione razziale che tra la fine della Seconda guerra mondiale e il 1991 sanciva la separazione tra bianchi e neri – che l’ANC, il partito che fu di Nelson Mandela, è costretto a governare in coalizione, e soprattutto a governare con un partito che è spesso stato associato alla minoranza bianca del paese. In un paese in cui più dell’80 per cento della popolazione è nera e i bianchi sono solo il 7 per cento, un governo di coalizione con un partito quasi esclusivamente bianco è una notizia piuttosto rilevante.
Il rapporto tra Democratic Alliance e la questione etnica è ambiguo. Il partito esiste dal 2000, ed è il risultato della fusione di varie forze politiche, tra cui anche l’ex Partito Progressista a maggioranza bianca e contrario all’apartheid. Fin dalla sua nascita, però, DA ha attirato anche elettori che furono del Partito Nazionale, cioè del gruppo di estrema destra che nel 1948 istituzionalizzò la segregazione razziale in Sudafrica e diede inizio all’apartheid. Nel corso degli anni Democratic Alliance è riuscita a conquistare anche una parte di elettori neri e non bianchi (come la minoranza asiatica, per esempio). Tuttavia, per evidenti questioni storiche, nella politica sudafricana la questione dell’etnia pesa molto, e DA non è mai riuscito a scrollarsi di dosso l’immagine di “partito dei bianchi”.
L’esponente più importante di Democratic Alliance è John Steenhuisen, un uomo bianco di 48 anni che da cinque è alla guida del partito. È succeduto al primo e ultimo leader nero, Mmusi Maimane, che nel 2019 si dimise in polemica con la linea del partito, secondo lui troppo lontana dai temi dell’elettorato nero. Quando Maimane andò via, lo seguirono diversi esponenti di spicco neri. «L’etnia avrà un peso», ha detto Steenhuisen prima delle ultime elezioni, «ma prendo esempio dall’esperienza di altre democrazie. Barack Obama era una minoranza negli Stati Uniti, eppure è riuscito a farsi eleggere».
Tuttavia, non è solo l’etnia a fare l’immagine del partito. Anche alcune posizioni espresse negli anni dagli esponenti di Democratic Alliance hanno contribuito a formare nell’elettorato l’idea di una forza politica per elettori bianchi e privilegiati. Ad esempio, nel 2017 Helen Zille, all’epoca presidente della provincia di Città del Capo, dovette dimettersi per aver detto che il colonialismo in Sudafrica era stato anche positivo, perché aveva portato nel paese «il sistema giudiziario, quello dei trasporti e il sistema idrico».
In questi anni all’opposizione, Democratic Alliance si è opposta inoltre a una legge contro i crimini d’odio razzisti, sessisti e omofobi, con l’argomentazione che sarebbe stata rischiosa per la libertà d’espressione perché la definizione di “crimine d’odio” era troppo vaga. La legge, che infine è passata, definisce “crimine d’odio” un reato motivato da pregiudizio o intolleranza verso una o più caratteristiche della vittima o di un familiare della vittima.
Un’altra battaglia di Democratic Alliance è stata quella contro l’aumento del salario minimo, che secondo DA avrebbe aumentato la disoccupazione e favorito i sindacati e le piccole imprese poco competitive. Apparentemente il salario minimo non ha direttamente a che vedere con l’etnia, ma in realtà è strettamente collegato: il Sudafrica ha un forte problema con la povertà e la distribuzione del benessere, che è prevalentemente concentrato tra le persone della comunità bianca. Da un lato, è il paese con il tasso di disoccupazione più alto al mondo: 32,9 per cento tra la popolazione generale e 45,5 per cento tra chi ha tra i 15 e i 34 anni. Dall’altro, è anche quello con la più alta disuguaglianza nella distribuzione del reddito: oggi nel paese lo 0,01 per cento della popolazione (ovvero circa 3.500 persone) detiene circa il 15 per cento della ricchezza del paese. Anche a decenni dalla fine dell’apartheid, l’etnia è ancora un fattore molto rilevante nel determinare il benessere.
Secondo uno studio pubblicato sulla rivista Review of Political Economy, nel 2017 la ricchezza mediana di una famiglia sudafricana bianca era attorno ai 18mila euro, mentre quella di una famiglia nera di poco più di 3mila. Lo stesso studio poi ha calcolato che anche le famiglie nere in cui il capofamiglia ha un livello di istruzione superiore, e quindi una laurea, sono in media meno ricche di quelle bianche con un livello di istruzione primario.
In un paese con queste caratteristiche, Steenhuisen ha proposto di cancellare le politiche pubbliche che cercano di promuovere l’inclusione delle categorie sottorappresentate e ridurre le discriminazioni attraverso strumenti come quote di accesso privilegiato alle scuole e altre istituzioni (politiche note con il termine inglese di “affirmative action”). Queste politiche sono state sostenute con forza dall’ANC negli ultimi trent’anni, ma secondo DA hanno reso il paese inefficiente. In alternativa, propone un approccio “colorblind”, cioè privo di discriminazioni, anche positive, che non tenga in considerazione l’etnia nelle politiche sociali di inclusione. Secondo Steenhuisen, l’approccio scelto in questi ultimi trent’anni dall’African National Congress per contrastare le disuguaglianze razziali avrebbe favorito solo una piccola minoranza tra le persone nere.
In economia, la Democratic Alliance è un partito di centrodestra favorevole alla concorrenza e al libero mercato: Steenhuisen ha detto spesso di ispirarsi alle politiche della prima ministra britannica Margaret Thatcher. L’idea è quella che non siano gli investimenti statali nel welfare, ma la crescita economica e la ricchezza privata a generare anche un miglioramento degli standard di vita della popolazione. DA intende per esempio sostenere le imprese e promuovere gli investimenti privati anche nei settori che finora erano stati a gestione pubblica, come il servizio di distribuzione dell’elettricità o delle borse di studio. Sul tema della casa, aspira a un futuro «in cui i poveri» considerino «la proprietà come il frutto del proprio lavoro piuttosto che come un dono dello stato». Su quello dell’educazione, ritiene che lo stato debba investire soldi pubblici non tanto per rendere il sistema educativo più accessibile, quanto per migliorarne gli standard qualitativi.
Queste posizioni preoccupano alcuni membri dell’African National Congress, che oltre a essere il simbolo della lotta alle politiche segregazioniste sostiene posizioni opposte, di centrosinistra.
Al tempo stesso, pur avendo governato da solo per trent’anni, l’African National Congress non può dire di essere riuscito a sanare le profonde divisioni economiche e sociali del paese, né a risolvere i suoi gravi problemi strutturali. Per esempio, in molte comunità sudafricane manca l’acqua corrente, cosa che causa spesso epidemie di colera; non di rado salta l’elettricità; a Johannesburg le strade sono piene di buche enormi; nel paese i tassi di omicidi, tentati omicidi, rapine e furti di auto sono tutti aumentati notevolmente negli ultimi dieci anni.
L’ANC «ha fallito su tanti livelli: la scuola, la sanità, il diritto alla casa, l’economia», ha detto al Financial Times Moeletsi Mbeki, un analista politico molto vicino all’African National Congress: suo padre Govan è stato in carcere con Nelson Mandela per 24 anni e suo fratello Thabo è stato presidente dopo Mandela, tra il 1999 e il 2008.
Democratic Alliance, dall’altro lato, ha ottenuto a livello locale buoni risultati economici, e li usa per presentarsi come il partito del pragmatismo, dell’efficienza e dell’anticorruzione. Secondo il centro studi Good Governance Africa, che stila classifiche annuali sulle amministrazioni locali, Città del Capo, Drakenstein e Swartland sono i centri urbani meglio gestiti del paese, tutti nella provincia di Western Cape e tutti, compresa la provincia, gestiti da DA. Allo stesso tempo, è vero anche che Western Cape è una delle province più benestanti del paese, in cui abita quasi il 20 per cento dell’intera popolazione bianca sudafricana.
In ogni caso, anche nell’anno del suo peggior risultato, l’African National Congress ha ottenuto il 40 per cento dei consensi ed esprimerà quindi il presidente, che rimarrà Cyril Ramaphosa. Democratic Alliance nominerà invece il vicepresidente del parlamento. Due piccoli partiti di destra hanno detto che si uniranno alla coalizione: uno è l’Inkatha Freedom Party (IKF), che ha un programma che si rivolge sostanzialmente alle persone di etnia zulu, una delle tante di cui si compone la popolazione nera del Sudafrica. L’IKF, che è stato il quinto partito più votato, sostiene la monarchia tradizionale zulu e ha posizioni conservatrici in ambito sociale. L’altro è Patriotic Alliance, di estrema destra e vicina agli interessi della popolazione coloured, una sfumata classificazione demografica sudafricana che include principalmente persone di discendenza mista nera e bianca o asiatica.