I neolaureati italiani sono meno disposti ad accettare stipendi bassi rispetto a un anno fa
Lo dice il rapporto annuale AlmaLaurea, che mostra anche un aumento dei contratti a tempo indeterminato, soprattutto tra chi è laureato da qualche anno
Giovedì è stato pubblicato il rapporto del consorzio di università AlmaLaurea, che sintetizza la loro indagine annuale sulle prospettive lavorative dei laureati in Italia. Il rapporto dice qualcosa sulla qualità del lavoro a cui può ambire chi finisce gli studi, sia in termini contrattuali che retributivi, anche sulla base del percorso scelto. L’indagine ha coinvolto 660mila persone che nel 2023 si erano laureate da uno, tre e cinque anni. Gran parte di loro ha trovato lavoro, ma rispetto al passato l’indagine mostra che i neolaureati sono meno disposti dell’anno scorso ad accettare contratti con una retribuzione bassa e un lavoro non coerente con il proprio percorso di studi. Allo stesso tempo c’è però un aumento dei contratti stabili offerti poco dopo l’università.
Nel 2023 i laureati nel 2022 hanno detto di aver trovato lavoro nel 74,1 per cento dei casi tra quelli con la laurea triennale e nel 75,7 tra quelli con la laurea magistrale. Le percentuali aumentano col passare del tempo dalla laurea: dopo tre anni sta lavorando il 90,5 per cento di quelli con una laurea triennale e l’85,4 per cento di quelli con una laurea magistrale; dopo cinque anni la quota aumenta ancora rispettivamente al 93,6 per cento e all’88,2 per cento. Negli anni immediatamente successivi alla laurea è piuttosto normale che i laureati con una triennale lavorino prima dei laureati magistrali, che spesso iniziano un percorso successivo di formazione, come il dottorato o un master, o sono impegnati in concorsi pubblici, come per esempio gli studenti di giurisprudenza che vogliono diventare magistrati o notai.
In generale i laureati trovano lavoro soprattutto come dipendenti. Dopo un anno dalla laurea lavora come dipendente il 65 per cento delle persone con una laurea triennale (30 per cento a tempo determinato e 35 per cento indeterminato); e il 51,6 per cento (il 25,1 per cento a tempo determinato e il 26,5 a tempo indeterminato) di quelle con una laurea magistrale. Sono diffusi anche i contratti formativi, come il tirocinio o l’apprendistato, e sono più diffusi tra i laureati magistrali che tra quelli triennali. C’è poi un 10 per cento che svolge attività imprenditoriale tra i laureati triennali e un 8,4 per cento tra quelli magistrali. Tra questi ultimi c’è anche una quota di assegnisti di ricerca, l’8,8 per cento, che invece è bassissima e tra i laureati triennali (lo 0,3 per cento). Ci sono anche i laureati che dicono di avere un’occupazione senza un contratto regolare: sono l’1,1 per cento tra i laureati triennali e lo 0,9 per cento tra quelli magistrali.
La maggior parte dei laureati continua a lavorare come dipendente anche cinque anni dopo la laurea. Negli ultimi anni, soprattutto tra i laureati triennali, c’è stato un aumento delle posizioni a tempo indeterminato, a scapito dei contratti meno stabili: nel 2018 i laureati triennali da un anno avevano un contratto a tempo indeterminato nel 22,5 per cento dei casi, mentre nel 2023 lo avevano nel 34,9 per cento dei casi. Lo stesso vale per i laureati triennali da cinque anni: nel 2018 avevano un contratto a tempo indeterminato nel 58,5 per cento dei casi, mentre nel 2023 lo avevano nel 72,7 per cento dei casi.
Questa è una buona notizia, che però viene in parte compensata dal fatto che le retribuzioni sono ancora molto basse. Sebbene siano aumentate leggermente, di fatto il forte aumento dei prezzi degli ultimi tre anni ne ha ridotto il potere d’acquisto, ossia quante cose possono fare e comprare. In media un laureato triennale da un anno percepisce uno stipendio mensile di 1.384 euro netti, contro i 1.432 di uno magistrale. Le retribuzioni aumentano col tempo fino a raggiungere i 1.706 euro netti di un laureato triennale cinque anni dopo la laurea, e i 1.768 di uno magistrale.
Un anno dopo la laurea all’incirca un terzo dei laureati sarebbe disponibile ad accettare uno stipendio massimo di 1.250 euro netti: nello specifico lo accetterebbero il 38,1 per cento dei laureati triennali e il 32,9 di quelli magistrali. In un anno entrambi i valori si sono ridotti di 8,9 e di 6,8 punti percentuali, una riduzione significativa che riflette un grosso problema di retribuzioni nel mercato del lavoro: da una parte c’è una maggior consapevolezza dei lavoratori su che tipo di stipendio si vuole o si pensa di meritare, che spesso porta a rifiutare un’offerta di lavoro; dall’altra l’inflazione ha reso ancora più difficile riuscire a vivere con stipendi bassi.
La combinazione di questi due fattori non ha fatto altro che peggiorare ancora la già problematica situazione degli stipendi italiani, tra i più bassi dell’Unione Europea e gli unici che negli ultimi decenni non sono cresciuti in termini reali. Questo si vede anche da quanto percepiscono i lavoratori laureati che sono andati all’estero, e che sono stati compresi nell’indagine di AlmaLaurea: i laureati in magistrale che lavorano all’estero dopo un anno dalla laurea guadagnano in media 2.174 euro netti al mese, il 56 per cento in più rispetto a quelli rimasti in Italia. Dopo cinque anni dalla laurea il differenziale è leggermente più alto: all’estero i laureati in magistrale guadagnano in media 2.710 euro netti, il 58,7 per cento in più di quelli che lavorano in Italia.
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