Al G7 si parlerà soprattutto di come finanziare un nuovo prestito per l’Ucraina
Comincia giovedì in Puglia: finora Europa e Stati Uniti hanno avuto visioni diverse, ma c'è una soluzione che potrebbe mettere d'accordo tutti
Tra giovedì e sabato in Puglia si svolgerà il G7, la riunione dei capi di Stato e di governo delle sette più influenti democrazie del mondo. Uno dei temi più delicati che verranno discussi dai leader sarà la concessione di un corposo prestito da 50 miliardi di euro all’Ucraina. Sono soldi che servono per finanziare la resistenza militare e la ricostruzione delle infrastrutture energetiche del paese, che da più di due anni combatte contro l’invasione dell’esercito russo.
Il governo italiano ha intenzione di assecondare le pressioni che su questo punto fa l’amministrazione statunitense: il presidente Joe Biden da mesi insiste perché l’Unione Europea conceda questo prestito, su cui però ci sono obiezioni da parte di alcuni Stati membri (tra cui Francia, Germania e Belgio) per via di complicazioni tecniche e finanziarie. La materia è molto complessa e finora in Europa è prevalsa la linea della cautela. Giorgia Meloni vorrebbe riuscire a sbloccare la soluzione proprio in questi giorni, così da intestarsi un significativo successo sul piano diplomatico.
Sarà Meloni, infatti, a guidare i lavori del G7. La presidenza è annuale: a rotazione, ciascuno dei sette paesi – Stati Uniti, Canada, Regno Unito, Germania, Francia, Italia e Giappone – organizza il ciclo di conferenze e di incontri tra funzionari e membri dei governi. Il momento più importante sarà la riunione dei leader. L’Italia, quest’anno, ha pianificato 21 riunioni tra ministri (ogni ministro del governo di Meloni ha scelto un luogo dove accogliere i colleghi degli altri sei paesi), e circa 130 gruppi di lavoro sui vari temi: la sintesi di questo lavoro avviene proprio nell’incontro tra i capi di Stato e di governo, che è anche l’appuntamento politicamente più importante, quello insomma dove in teoria l’Occidente discute e poi diffonde le proprie priorità al resto del mondo.
Quest’anno la riunione dei leader avverrà a Borgo Egnazia, un grande resort di lusso sulla costa adriatica all’altezza di Savelletri, una frazione di Fasano (Brindisi). Borgo Egnazia è noto da anni come meta turistica apprezzata da star dello spettacolo e dello sport come Madonna o David Beckham, ma anche da emiri, importanti politici e manager di mezzo mondo: è qui che Meloni, dopo averci passato una breve vacanza nel luglio 2023 che servì anche come sopralluogo, ha deciso di accogliere i leader del G7.
Il programma prevede sette diverse sessioni di lavoro: alcune nel formato canonico del G7, dunque coi soli leader presenti accompagnati ciascuno da un solo consigliere diplomatico (chiamati “sherpa”, in gergo); altre in formato allargato, con la partecipazione cioè di altri capi di Stato o di governo appositamente invitati. Si discuterà di Africa e di cambiamento climatico, di Ucraina, di Medio Oriente, di migrazioni, di Indo-Pacifico e sicurezza economica, con un’attenzione particolare ai rapporti tra l’Occidente e la Cina.
Oltre a questi temi, che furono i più ricorrenti anche ai precedenti G7, Meloni ha poi voluto inserire una sessione dedicata agli argomenti più cari al governo: gli sviluppi dell’intelligenza artificiale, su cui interverrà eccezionalmente anche Papa Francesco che terrà un discorso d’introduzione davanti ai leader, e le politiche di sostegno all’Africa e di stabilizzazione dell’area del Mediteranneo. Oltre ai sette leader del G7, interverranno anche i presidenti di Argentina e Brasile, Javier Milei e Lula; il primo ministro dell’India Narendra Modi e il presidente turco Recep Tayyip Erdogan; il re di Giordania Abdullah II e il presidente degli Emirati Arabi Uniti, Mohammed bin Zayed; i leader di vari paesi africani e i dirigenti di varie istituzioni internazionali, tra cui l’ONU, l’OCSE, la Banca Mondiale, il Fondo Monetario Internazionale.
Ci saranno poi vari incontri bilaterali: colloqui diretti e riservati tra due leader, per discutere questioni più specifiche di interesse dei due Stati. Alcuni di questi incontri saranno tra i leader europei, e serviranno ad avviare le trattative per formare la prossima Commissione e discutere i nuovi equilibri politici dopo le elezioni europee del fine settimana scorso.
Gli esiti di queste riunioni verranno infine discussi nella sessione finale, prevista per il tardo pomeriggio di venerdì, durante la quale verrà approvata una risoluzione finale, le “conclusioni”. I consiglieri diplomatici di Meloni avrebbero voluto adottare un formato nuovo: un documento più snello e sintetico di 3 o 4 pagine. Invece anche stavolta le conclusioni saranno inserite in un dossier di una trentina di pagine, che è in larghissima parte già definito. I leader politici e soprattutto i loro collaboratori ci lavorano infatti da settimane.
Questo intenso lavoro diplomatico ha di fatto già definito molti dei punti in discussione e strutturato la risoluzione, su cui poi i leader si riserveranno alcuni interventi marginali durante la discussione finale.
Con le conclusioni si saprà che decisione adotteranno i leader sul tema forse più complesso e urgente del G7 di Borgo Egnazia, la concessione di un prestito eccezionale all’Ucraina, come dicevamo. Sono 50 miliardi di euro che verrebbero versati sul conto del governo di Volodymyr Zelensky: il 90 per cento andrebbe a finanziare la resistenza militare, il resto sarebbe destinato alla ricostruzione del paese e in particolare delle sue infrastrutture energetiche, danneggiate per oltre l’80 per cento dagli attacchi dell’esercito russo. Del prestito si parla da mesi, e a promuoverlo è soprattutto Joe Biden, che ha dovuto però fare i conti con le resistenze di vari governi e istituzioni europee.
In una prima fase era stata la Banca Centrale Europea a suggerire cautela, d’accordo con la presidente della Commissione Ursula von der Leyen: l’idea iniziale infatti era utilizzare direttamente i beni “congelati” per effetto delle sanzioni contro la Russia e devolverli almeno in parte all’Ucraina. Parliamo nel complesso di 210 miliardi di euro sequestrati alla Banca centrale russa (cioè soldi che la Banca aveva in deposito in istituti di credito europei) e di circa 25 miliardi di fondi privati, conti correnti o altri depositi di oligarchi, imprenditori e funzionari statali legati al presidente russo Vladimir Putin.
Un’azione del genere avrebbe però costituito un precedente: secondo la legge, infatti, i beni sequestrati continuano a essere formalmente di proprietà del loro detentore, e dunque l’istituzione che li sequestra può al massimo bloccarli, “congelarli” appunto, ma non utilizzarli in altro modo. Dirottare quei fondi all’Ucraina sarebbe stata invece una specie di confisca, di esproprio, e questo avrebbe esposto le istituzioni finanziarie europee, e la BCE più di tutte, a un rischio potenzialmente enorme, perché altri investitori internazionali avrebbero potuto ritirare i propri depositi per paura di analoghe misure ai loro danni.
Anche per questo è stata poi valutata un’altra ipotesi, che a sua volta non è stata risolutiva per le perplessità di alcuni paesi, escluso quello italiano che aveva informalmente fatto sapere all’amministrazione Biden di essere d’accordo. Prevedeva di utilizzare quei beni congelati non direttamente, ma come collaterale, cioè come una sorta di garanzia per finanziare un prestito in favore dell’Ucraina. Il processo, complesso dal punto di vista finanziario, grosso modo avrebbe funzionato così: i paesi europei dovevano raccogliere investimenti per strutturare un prestito da circa 50 miliardi, ponendo come garanzia i beni russi congelati. In teoria, se il prestito non fosse stato ripagato, i finanziatori avrebbero potuto rivalersi proprio su quei beni, un po’ come quando una banca concede un mutuo ma mettendo l’ipoteca su un immobile della persona a cui quel mutuo viene concesso.
I francesi hanno contestato, tra l’altro, il fatto che tramite questa operazione finanziaria un po’ rischiosa e tutta a carico dell’Unione si sarebbe finanziata l’industria della difesa americana, visto che il grosso dei fondi sarebbe servito per comprare armi e dispositivi militari da industrie belliche statunitensi. I tedeschi invece hanno insistito sui rischi di perdita di credibilità delle istituzioni finanziarie, ponendo insieme ad altri un cavillo burocratico: il congelamento dei beni russi, infatti, viene rinnovato di sei mesi in sei mesi dal Consiglio Europeo all’unanimità. Tutti i capi di Stato e di governo dei 27 paesi membri, che compongono il Consiglio, devono dare il proprio assenso: e questo rende difficile mettere a garanzia di un prestito pluriennale dei beni su cui ogni sei mesi grava una certa incognita. Peraltro nel Consiglio Europeo ci sono leader che puntualmente tentano di opporsi alla conferma delle sanzioni alla Russia e che da soli possono esercitare un potere di veto, come il primo ministro ungherese Viktor Orbán.
Infine c’era la contrarietà del Belgio. Per quanto paese fondatore, di per sé il Belgio non avrebbe il peso di condizionare scelte così importanti, tuttavia in questo caso ha assunto per vari motivi un peso inusuale.
Innanzitutto la quasi totalità dei 250 miliardi di beni russi congelati sono depositati presso una società finanziaria belga, Euroclear (il resto perlopiù è in Francia e Germania). Il governo belga avrebbe le potenziali maggiori ripercussioni in termini di reputazione finanziaria: formalmente, insomma, sarebbe una banca belga ad avallare l’operazione. Ma le obiezioni sono in parte strumentali, perché il Belgio tassa i profitti che quei beni congelati producono (come tutti i depositi), e ne ricava più di un miliardo e mezzo che può utilizzare per il suo bilancio statale. Nell’aprile scorso, quando intorno a questa questione ne nacque una polemica a Bruxelles, il governo belga fece sapere che in ogni caso gli introiti che derivano da quelle tasse vengono utilizzati per finanziare fondi in sostegno dell’Ucraina.
Da gennaio e fino alla fine di giugno, inoltre, il Belgio detiene la presidenza di turno del Consiglio dell’Unione Europea, quell’istituzione che ha il potere legislativo insieme al Parlamento Europeo, composto da un rappresentante del governo per ogni paese dell’Unione a seconda del tema che si discute. Il governo belga, quindi, in questo semestre ha avuto una certa possibilità di indirizzare i lavori e le scelte dei ministri dell’Economia e delle Finanze, più volte chiamati a discutere sul tema del prestito.
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Le gravi difficoltà dell’esercito ucraino al fronte, però, hanno reso sempre meno sostenibili sul piano diplomatico e politico queste resistenze europee. All’inizio di maggio è stato fatto un significativo passo avanti per risolvere lo stallo: i rappresentanti diplomatici dei 27 Stati membri hanno infatti approvato – dovendo anche in questo caso superare la contrarietà dell’Ungheria – un piano per utilizzare i profitti derivanti dai beni russi congelati come prestito diretto all’Ucraina.
Parliamo di una somma modesta, circa 3 miliardi di euro per il 2024, ma il principio di usare i profitti sembra aver sbloccato un po’ la discussione, e la presidenza italiana vuole basarsi su quello per arrivare a un accordo da adottare a conclusione del G7. L’idea, cioè, è di utilizzare ora i profitti che quei beni congelati producono ogni anno come una sorta di garanzia per il prestito da 50 miliardi per l’Ucraina. Il grosso delle discussioni è stato già condotto riservatamente dai consiglieri diplomatici. Fonti dell’ambasciata americana nei giorni scorsi si sono mostrate ottimiste in merito alle bozze delle conclusioni del G7. Al momento questa soluzione sembra quindi assai probabile.
I consiglieri diplomatici di Meloni, tuttavia, hanno fatto notare che i negoziati sono ancora in corso e che restano dei dubbi da sciogliere, legati però esclusivamente a questioni tecniche.
Alcuni funzionari della Commissione Europa coinvolti spiegano che uno di questi dubbi riguarda la copertura finanziaria del prestito: si stima che i beni congelati produrranno tra i 4 e i 5 miliardi di euro all’anno, e dunque pur ipotizzando che il loro sequestro venga confermato nel tempo, la garanzia del prestito da 50 miliardi sarà garantita solo nel giro di una decina d’anni. L’altra riguarda il fatto che il Giappone potrebbe avere obiezioni sugli scopi del prestito: la Costituzione giapponese proibisce infatti qualsiasi coinvolgimento, anche solo marginale, del paese in una guerra, per cui anche i finanziamenti destinati all’acquisto di armi sono un problema politico per il primo ministro Fumio Kishida. Negli ultimi anni Kishida ha cercato di dare un’interpretazione meno restrittiva di questi principi, ma è comunque stato sempre molto attento a dire che il sostegno economico concesso all’Ucraina è servito per scopi umanitari o al massimo per dispositivi militari esclusivamente difensivi.