I cinque uomini che cercano di negoziare un accordo a Gaza
Sono i rappresentanti del governo israeliano e di Hamas e i mediatori di Qatar, Egitto e Stati Uniti: sono al lavoro da mesi, ma per ora i risultati sono scarsi
I negoziati per la fine della guerra nella Striscia di Gaza non hanno ancora raggiunto risultati, nonostante le forti pressioni degli Stati Uniti, che stanno spingendo per l’approvazione di un piano per il cessate il fuoco in tre fasi presentato a fine maggio dal presidente Joe Biden. Lunedì il Consiglio di Sicurezza dell’ONU ha approvato una risoluzione che sostiene la proposta americana, che al momento tuttavia non è stata formalmente accettata né da Hamas né da Israele. Un portavoce di Hamas fuori dalla Striscia ha detto martedì che l’organizzazione intende accettarla, ma non è ancora arrivata la conferma da parte della leadership che si trova dentro Gaza.
Gli incontri più recenti sono avvenuti a Doha, la capitale del Qatar, la scorsa settimana. Hanno partecipato, oltre alla delegazione israeliana e a quella di Hamas, anche quelle dei mediatori di Egitto, Qatar e Stati Uniti. I rappresentanti di ciascuna di queste delegazioni, che si incontrano periodicamente ormai da mesi, sono diventati figure riconosciute, tanto che Le Monde li ha presentati come «i cinque negoziatori dell’irraggiungibile cessate il fuoco».
La difficoltà principale nel raggiungimento di un accordo riguarda – in questo come nei negoziati precedenti – il fatto che Hamas pretende un cessate il fuoco definitivo, con un ritiro completo dell’esercito israeliano dalla Striscia di Gaza, mentre Israele ne vuole uno temporaneo, che garantisca all’esercito di attaccare di nuovo la Striscia di Gaza se ritenuto necessario.
I negoziati si svolgono sempre all’estero (finora a Parigi, Doha o al Cairo) e in maniera indiretta: i rappresentanti delle due parti in conflitto non si incontrano direttamente, ma fanno affidamento sui mediatori degli altri paesi per portare avanti il dialogo. Tendenzialmente, i negoziatori di Qatar ed Egitto parlano con la parte palestinese, mentre quelli statunitensi con la parte israeliana. La decisione finale sugli accordi spetta però sempre al governo israeliano, guidato dal primo ministro Netanyahu, e alla direzione politica di Hamas, che si trova a Doha, in Qatar, ed è diretta da Ismail Haniyeh (anche se in questo caso la questione è complicata dal fatto che Hamas ha bisogno anche dell’approvazione del leader del gruppo nella Striscia di Gaza, Yahya Sinwar).
Oltre ai negoziati, che non sono pubblici, ci sono le attività diplomatiche portate avanti dai leader politici: in questi giorni, per esempio, il segretario di Stato americano Antony Blinken sta viaggiando tra Egitto, Israele, Giordania e Qatar con l’obiettivo di parlare con gli altri leader politici e fare pressione per l’approvazione del piano statunitense. I cinque negoziatori, tuttavia, rimangono figure fondamentali.
Israele: David Barnea
David Barnea è dal maggio del 2021 il capo del Mossad, ovvero i servizi segreti israeliani che si occupano di operazioni all’estero. Prima di diventare il capo dell’agenzia, Barnea ha fatto parte della Keshet, l’unità del Mossad specializzata nella raccolta di informazioni sugli obiettivi, e poi nella Tzomet, l’unità che invece gestisce il reclutamento e l’attività della rete dei settemila agenti.
Il compito di Barnea è oneroso per due ragioni. La prima è che la leadership politica israeliana che è chiamato a rappresentare è molto divisa, come dimostrano le dimissioni di Benny Gantz, il principale leader dell’opposizione, e Gadi Eiskenot, ex capo di stato maggiore dell’esercito, entrambi membri del gabinetto di guerra. La seconda ragione è che il primo ministro Netanyahu in più di una occasione sembra avere mostrato scarso interesse a raggiungere un accordo con Hamas e porre fine alla guerra.
Fonti anonime hanno rivelato a Le Monde che il team di Barnea è «incredibilmente frustrato» da questa situazione, perché in più di una occasione ha ostacolato o ritardato i risultati del loro lavoro. Per esempio: quando a fine ottobre iniziò l’invasione di terra della Striscia, Barnea propose subito una pausa dai combattimenti per permettere la liberazione di un primo contingente di ostaggi, che accanto alla distruzione di Hamas è ufficialmente l’obiettivo principale dell’offensiva israeliana a Gaza. Il gabinetto di guerra, però, aveva continuato i bombardamenti e accettò la tregua soltanto dopo tre settimane.
Un altro esempio: quando a inizio maggio Hamas accettò la proposta di cessate il fuoco presentata da Egitto e Qatar, il governo israeliano proibì alla sua delegazione di andare a Doha e iniziò invece le operazioni per l’invasione di Rafah, l’ultima città della Striscia in cui non era ancora entrato, che ha poi estesamente bombardato.
Hamas: Khalil al Hayya
Khalil al Hayya è un diplomatico di Hamas, vice del leader Yahya Sinwar, il capo politico di Hamas dentro la Striscia. È dal 2017 parte del Politburo, l’organo decisionale dell’organizzazione che ha sede in Qatar. Nel 2006 era stato eletto deputato alle elezioni che si sono tenute in Palestina, le ultime. Si era ricandidato anche nel 2021, ma poi le elezioni sono state posticipate e mai più riorganizzate.
Per comprendere la posizione di al Hayya bisogna sapere che Hamas ha una natura ibrida: da un lato è un’organizzazione terroristica con un braccio armato, dall’altro funziona più o meno come uno stato (nella Striscia di Gaza gestisce ospedali, scuole, dipendenti pubblici, e via dicendo). Al Hayya deve quindi conciliare le istanze dei militanti dentro la Striscia – guidati da Yayha Sinwar – e del Politburo che ha sede a Doha e gestisce le attività più istituzionali dell’organizzazione. Se i primi hanno una visione molto più chiara sull’andamento della guerra, il secondo guarda più all’evoluzione del contesto internazionale e quindi alle posizioni degli alleati dell’organizzazione.
Hamas ha reagito abbastanza positivamente alla proposta di cessate il fuoco presentata dagli Stati Uniti, ma dice di essere disposta ad accettarla solo a condizione che Israele accetti una «cessazione permanente delle ostilità», cosa che Israele finora non ha mai voluto accettare.
In un’intervista ad Associated Press, Al Hayya ha detto di essere disposto a concordare una fase intermedia: una tregua di almeno cinque anni che permetta la demilitarizzazione dell’organizzazione e la creazione di uno stato palestinese nei confini stabiliti dall’ONU nel 1967, guidato da un governo di unità nazionale insieme a Fatah, il principale partito laico e moderato della scena politica palestinese.
Qatar: Mohammed bin Abdulrahman al Thani
Il Qatar fa parte di questi negoziati perché è un importante alleato degli Stati Uniti, che nell’emirato hanno una delle loro più importanti basi militari in Medio Oriente, e al tempo stesso è molto vicino ad Hamas. Ha anche un canale di comunicazione diretto con le autorità israeliane e il Comitato Internazionale della Croce Rossa.
Mohammed bin Abdulrahman al Thani è membro della famiglia reale che governa il Qatar dagli anni ’70, ovvero dalla fine del protettorato britannico. In questi negoziati deve riuscire a mediare tra le parti senza mettere a rischio la posizione di neutralità percepita del suo paese. È da questa posizione che discende l’influenza del piccolo emirato, oltre che dalla ricchezza derivante dalla vendita di gas naturale. In passato è già successo che questa neutralità venisse messa in discussione, sia da Israele che dal suo alleato principale, gli Stati Uniti: da diverso tempo il Qatar offre ospitalità ai leader di Hamas in esilio e il 7 ottobre era stato tra i pochi paesi arabi a indicare Israele come il principale responsabile delle violenze.
Stati Uniti: William Burns
William Burns è il direttore dei servizi di intelligence esterni americani. Nominato dall’attuale presidente Joe Biden, è stato confermato dal Senato a marzo 2021. Durante la sua carriera decennale ha servito in tutte le amministrazioni americane, repubblicane e democratiche, da quella di Ronald Reagan in avanti (con l’unica eccezione di Donald Trump). È il primo direttore della CIA ad aver seguito la carriera diplomatica, cosa che ha fatto per 32 anni prima di ricoprire il ruolo attuale. È stato ambasciatore in Russia e Giordania.
Gli Stati Uniti sono storicamente il più fedele e importante alleato di Israele. In passato le amministrazioni americane avevano utilizzato nei suoi confronti una «politica di affetto e influenza»: sostenevano pubblicamente il governo israeliano e cercavano, attraverso incontri privati, di indirizzarne la politica e limitarne gli eccessi. Dal 7 ottobre in avanti, però, questa strategia non ha portato a grandi risultati, e il governo Netanyahu ha ignorato e molto spesso umiliato i tentativi dell’amministrazione americana di raggiungere un cessate il fuoco. A partire da dicembre, a causa delle crescenti pressioni interne ed esterne, l’amministrazione Biden ha quindi iniziato a criticare sempre più duramente la gestione della guerra da parte del governo israeliano, anche in pubblico. Questo ovviamente non ha significato che gli Stati Uniti abbiano smesso di sostenere Israele militarmente, benché abbiano sospeso l’invio di alcuni carichi di armi.
Egitto: Abbas Kamel
È a capo dei servizi di intelligence egiziani da sei anni, ed è considerato un amico e fedele consigliere dell’attuale presidente Abdel Fattah al Sisi dal 2008. È stato generale dell’esercito e ha già lavorato in passato ai negoziati relativi al conflitto tra Israele e Hamas, l’ultima volta durante la crisi del 2021.
In queste negoziazioni, l’Egitto, in modo simile al Qatar, deve cercare di mantenere una posizione di apparente neutralità, essendo uno dei pochi paesi al mondo ad avere rapporti piuttosto stretti sia con Israele che con Hamas, che ha un ufficio anche al Cairo.
Al tempo stesso, l’Egitto confina con Israele, e le polizie di frontiera e l’intelligence dei due paesi hanno da anni un rapporto di fiducia e collaborazione. Le prime collaborano nella gestione del confine che separa l’Egitto dalla Striscia di Gaza: in questi 16 anni l’Egitto ha contribuito all’isolamento della popolazione palestinese, collaborando con le autorità israeliane e limitandone gli spostamenti. I servizi segreti invece collaborano nell’ambito dell’antiterrorismo e della sicurezza, tra gli altri: poco dopo gli attacchi del 7 ottobre Associated Press e Times of Israel hanno diffuso la notizia secondo cui i servizi segreti egiziani avrebbero avvertito il governo di Netanyahu che Hamas stava organizzando «qualcosa di grosso», «un’operazione terribile».
Il ruolo di Abbas Kamel in questo caso è quello di cercare di tutelare la posizione di relativa forza in cui si trova l’Egitto – proprio in virtù della sua capacità di mediazione tra le due parti in causa – e non farsi sostituire dal Qatar, che ormai da più di 20 anni prova a fare lo stesso.