Il problema nello studiare gli psichedelici
L’aspettativa sui loro effetti fa sì che sia difficile confonderli con un placebo, che però è una condizione fondamentale negli studi clinici più attendibili
Martedì scorso la Food and Drug Administration (FDA), l’agenzia governativa di regolamentazione dei farmaci e del cibo negli Stati Uniti, ha giudicato insufficienti le prove presentate dall’azienda statunitense Lykos Therapeutics per sollecitare l’approvazione di una medicina a base di Mdma, la sostanza psicoattiva nota anche come ecstasy, per la cura del disturbo da stress post-traumatico (PTSD). La notizia ha sorpreso diversi osservatori, perché le prove esaminate erano due studi clinici rigorosi: nessuno dei due dimostra l’efficacia della terapia, secondo il comitato consultivo della FDA, perché i rischi supererebbero i benefici.
Da diversi anni la cura di alcune malattie mentali come il PTSD e la depressione attraverso gli psichedelici è oggetto di studi incoraggianti e investimenti cospicui. Per la cura del PTSD, un disturbo che riguarda circa il 3,9 per cento della popolazione mondiale e circa 13 milioni di persone solo negli Stati Uniti, la terapia a base di Mdma è peraltro già disponibile in Australia. Ma il giudizio espresso dalla FDA, ha scritto il New York Times, ha attirato una certa attenzione verso un limite degli studi su queste sostanze: il fatto che difficilmente una persona può avere il ragionevole dubbio di aver preso un placebo anziché uno psichedelico.
L’Mdma non è propriamente uno psichedelico, perché ha effetti soprattutto stimolanti, diversi da quelli di sostanze come l’Lsd o la psilocibina. Appartiene però a una classe farmacologica che include anche sostanze che alterano le capacità sensoriali, e condivide con gli psichedelici diversi aspetti socioculturali relativi all’uso. Gli studi esaminati dalla FDA, come tutti quelli solitamente più attendibili e citati, erano studi controllati randomizzati (randomized controlled trial, RCT), cioè il tipo di studio clinico più adatto a ridurre pregiudizi e distorsioni nella valutazione dei risultati della sperimentazione di una cura. In pratica le persone che partecipano agli studi di questo tipo vengono assegnate casualmente o a un gruppo che riceve il trattamento oggetto della sperimentazione, o a un gruppo che riceve un placebo. Se lo studio è “cieco”, le persone non sanno se sono state assegnate a un gruppo o a un altro (e se è “doppio cieco”, non lo sanno nemmeno gli sperimentatori).
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Negli studi sottoposti all’attenzione del comitato consultivo della FDA il campione di partecipanti era formato da persone da tempo malate di PTSD. La sperimentazione prevedeva che tutte si sottoponessero a sessioni di terapia cognitivo-comportamentale intensiva, uno degli approcci di psicoterapia più diffusi, e che durante la terapia un gruppo di partecipanti assumesse il farmaco a base di Mdma e l’altro gruppo un placebo. I risultati mostrarono che le persone del primo gruppo avevano il doppio delle probabilità di guarire dal PTSD rispetto alle persone del secondo gruppo.
Ma il problema degli studi controllati randomizzati nel caso degli psichedelici, come ha sintetizzato l’Atlantic, è che «praticamente nessuno può assumere una sostanza psichedelica e non saperlo». Secondo alcuni studiosi il fatto che non sia possibile condurre un RCT sugli psichedelici davvero in cieco rischia di indebolire le numerose prove dell’efficacia delle terapie che circolano ormai da anni. Perché impedisce ai ricercatori di sapere se quelle prove sono valide o sono condizionate dalle grandi aspettative delle persone riguardo alla potenza degli psichedelici. Altri sostengono che tutte le sostanze psicoattive – non soltanto gli psichedelici – siano un caso utile a mostrare i limiti degli RCT in generale, quando è necessario valutare cure che agiscono sulla mente.
Fin dagli anni Sessanta gli studi controllati randomizzati sono considerati in ambito clinico il miglior metodo per escludere che alla base del miglioramento delle condizioni di persone a cui viene somministrato un certo farmaco ci siano ragioni non farmacologiche. Una delle ragioni più note è l’effetto placebo: la fiducia del paziente in sostanze e trattamenti presentati come risolutivi di un certo problema, indipendentemente dalla loro efficacia reale. Se il paziente ha aspettative altissime su un farmaco – come alcuni pensano succeda nel caso di molti studi sugli psichedelici – sapere di averlo ricevuto può indurre reazioni positive, e sapere che non lo ha ricevuto può indurre reazioni negative.
Il problema è che negli studi clinici sulle medicine antitumorali, per dire, i partecipanti non percepiscono la differenza tra una flebo di soluzione salina e una di medicina. Ma le sostanze psichedeliche inducono alterazioni percettive come distorsioni visive (immagini caleidoscopiche e particolari pattern sulle superfici) e sensazione alterata del passare del tempo: tutte cose di cui è praticamente impossibile non accorgersi. Anche negli studi clinici sull’Mdma condotti da Lykos Therapeutics, sebbene gli effetti dell’Mdma siano diversi da quelli degli psichedelici, tutti i partecipanti hanno infatti indovinato in poco tempo a quale gruppo erano stati assegnati. «Credo sia ovvio che gli RCT non sono adatti allo studio delle sostanze psichedeliche», ha detto all’Atlantic Boris Heifets, neuroscienziato della Stanford University.
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Per provare ad aggirare il problema alcuni ricercatori stanno cercando di strutturare gli studi in modo diverso. Uno studio in cieco sulle possibili proprietà antidepressive della ketamina pubblicato nel 2023, per esempio, prevedeva di somministrare il farmaco (o un placebo) a pazienti depressi tenuti al buio e anestetizzati, durante un intervento chirurgico programmato. Altri studi sull’Mdma hanno utilizzato come placebo sostanze diverse da quella oggetto di studio. Ma altri studiosi sostengono che il tentativo di elaborare studi in cieco adatti alla sperimentazione degli psichedelici, per quanto ingegnoso, trascuri il fatto che queste sostanze non sono riducibili alla loro azione biochimica. E la loro efficacia dipende proprio da quel contesto che alcuni ricercatori si sforzano di separare dagli effetti.
La maggior parte dei protocolli delle attuali terapie psichedeliche prevedono infatti diverse sessioni di psicoterapia, prima, durante e dopo il trattamento. E fin dalle prime ricerche sugli psichedelici condotte negli anni Sessanta è noto che sia il contesto in cui le persone li assumono sia le loro aspettative possono fortemente influenzare la loro esperienza, come dimostrano anche ricerche più recenti. Uno studio clinico uscito a gennaio, per quanto limitato nel campione, ha mostrato che in un gruppo di 22 pazienti con PTSD sottoposti a psicoterapia e Mdma l’efficacia del trattamento dipendeva strettamente dalla forza del legame che si instaurava tra il terapeuta e il paziente.
È molto probabile che nella sperimentazione clinica gli studi controllati randomizzati continueranno a essere considerati il gold standard, per la valutazione delle sostanze psicoattive come di qualsiasi altra sostanza. Ma questo non significa che non sia possibile ricavare altre informazioni altrettanto utili da studi condotti con metodi diversi da quello degli RCT, ha detto all’Atlantic Matt Butler, neuroscienziato del King’s College di Londra. Diversi ricercatori stanno già conducendo, per esempio, studi descrittivi che misurano sia le aspettative che gli effetti dei trattamenti, in cui i partecipanti sanno chiaramente quale sostanza stanno assumendo.