Per Giorgia Meloni non sarà facile capitalizzare il successo elettorale in Europa
La leader di Fratelli d'Italia è uscita bene dal voto, ma il suo partito dovrà prendere un po' le distanze dagli alleati di destra per ottenere un commissario di rilievo
Le elezioni europee hanno decisamente rafforzato la presidente del Consiglio Giorgia Meloni, sia in Italia che sul piano internazionale. Col 28,8 per cento dei consensi preso da Fratelli d’Italia, Meloni ha raggiunto l’obiettivo dichiarato: migliorare il risultato delle politiche del 2022, quando aveva ottenuto poco meno del 26 per cento. E gli oltre due milioni e mezzo di preferenze personali possono essere visti come un’investitura popolare che dà nuovo slancio all’azione del suo governo.
Peraltro lei è stata di fatto l’unica tra i capi di governo o di Stato dei principali paesi dell’Unione a cavarsela così bene, gli altri sono usciti abbastanza sconfitti dalle elezioni, in certi casi in maniera clamorosa. Un po’ ovunque, poi, i partiti di destra euroscettici e sovranisti hanno ottenuto buoni risultati, cosa che darà forza a molte delle istanze di Fratelli d’Italia, che pur avendo attenuato molto alcuni toni antieuropeisti della sua propaganda resta comunque un partito piuttosto critico nei confronti dell’Unione.
Insomma, quando tra il 13 e il 15 giugno prossimi accoglierà in Puglia i più importanti leader del mondo per il G7, Meloni sarà quella messa meglio tra gli europei: la coalizione di governo progressista del cancelliere tedesco Olaf Scholz è stata nettamente battuta dall’opposizione di centrodestra; Emmanuel Macron, il presidente francese, ha deciso di sciogliere l’Assemblea nazionale dopo il trionfo del partito di estrema destra di Marine Le Pen, il Rassemblement National; e poi ci sarà anche il dimissionario primo ministro britannico Rishi Sunak. Tuttavia, nonostante la sua situazione, è difficile capire se e in che modo Meloni riuscirà a capitalizzare fino in fondo l’ottimo risultato elettorale.
È ormai chiaro, infatti, che un cambiamento negli equilibri politici all’interno del Parlamento Europeo, a lungo auspicata in maniera più o meno strumentale durante la campagna elettorale da Meloni stessa, non ci sarà.
Il buon risultato delle destre sovraniste in molti paesi non determinerà grosse modifiche nella composizione del parlamento: secondo delle stime ancora non del tutto ufficiali ma comunque affidabili, l’esito di queste elezioni consisterà in una perdita di 4 o 5 seggi per i socialisti e di una ventina per i liberali, a fronte però di un guadagno di 9 seggi da parte dei Popolari. Su questi tre gruppi si fondava la maggioranza trasversale della scorsa legislatura, la quale resterà in grado di mantenere il controllo dell’assemblea.
Le prime dichiarazioni della presidente uscente della Commissione Ursula von der Leyen, che è anche la candidata più accreditata per ottenere nuovamente l’incarico, confermano che le trattative per la ricerca di una nuova maggioranza avranno come punto di partenza un accordo di legislatura tra Socialisti, Popolari e Liberali, con possibilità poi di allargare ad altri gruppi, a partire dai Verdi. Sarà più complicato, invece, coinvolgere in maniera stabile il gruppo delle destre conservatrici di ECR (Conservatori e riformisti europei), di cui Fratelli d’Italia è il partito egemone. Molti esponenti socialisti e alcuni dei liberali, infatti, si rifiuterebbero di collaborare con movimenti di destra radicale ed euroscettica.
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Non potendo contribuire a una nuova maggioranza del Parlamento Europeo, è più probabile che la presidente del Consiglio italiana provi a far valere i voti presi negoziando da una posizione di relativo vantaggio le prossime posizioni più importanti della Commissione Europea, i cosiddetti top job (ricordiamo che la Commissione è l’organo esecutivo dell’Unione, una specie di governo ma con competenze più ridotte). Nei prossimi giorni von der Leyen aprirà le trattative per garantirsi il sostegno dei leader: sarà infatti il Consiglio Europeo, cioè l’insieme dei capi di Stato e di governo dell’Unione, a indicare il candidato alla presidenza della Commissione da sottoporre poi al voto di conferma del Parlamento Europeo (sì, la politica europea non è quasi mai lineare, anzi).
Lo scenario delineato dai collaboratori di Meloni su questo è abbastanza verosimile: secondo loro, per assicurarsi il sostegno di Meloni, von der Leyen potrebbe offrire all’Italia un buon incarico, magari un commissario di rilievo – quelli più ambiti da Fratelli d’Italia sono Concorrenza o Mercati Interni, Affari Economici, Commercio, Industria, eventualmente la Difesa se verrà davvero istituita la carica – e probabilmente di una vicepresidenza della Commissione. Incarichi per i quali circolano da tempo vari nomi, ma ancora nessuna certezza: dall’attuale capo dei servizi segreti Elisabetta Belloni all’ex ministro dell’Economia Daniele Franco, passando per il ministro degli Affari europei Raffaele Fitto.
Al di là delle scelte, conterà più che altro quanto sarà prestigioso l’incarico. Un ministro del governo di Fratelli d’Italia, che preferisce rimanere anonimo, dice al Post che se Meloni ottenesse un buon compromesso su questo negoziato, sarebbe possibile per lei e per Fratelli d’Italia sostenere la nascente Commissione e il suo presidente sia al Consiglio sia al Parlamento Europeo.
Di tutto ciò i leader europei inizieranno a discutere già durante il G7 in Puglia, che si terrà nel lussuoso resort di Borgo Egnazia, in provincia di Brindisi, e poi ancora di più al Consiglio Europeo informale del 17 giugno: un incontro in cui tutti i capi di Stato e di governo avvieranno le trattative, che partiranno con ogni probabilità dall’indicazione di von der Leyen come possibile presidente della Commissione. È lei infatti la candidata del Partito Popolare Europeo (PPE), il partito vincitore delle elezioni e che eleggerà il maggior numero di europarlamentari, mentre il leader che più di altri aveva espresso perplessità sulla sua riconferma, Macron, è alle prese con una clamorosa sconfitta elettorale.
Il compito di von der Leyen è comunque arduo: garantirsi il sostegno di alcuni leader della destra, Meloni inclusa, senza con ciò inimicarsi i leader socialisti come Scholz o lo spagnolo Pedro Sánchez.
L’esito di questi negoziati concitati si avrà a fine giugno, quando un nuovo Consiglio Europeo dovrebbe indicare ufficialmente il nome del candidato o della candidata alla presidenza della Commissione Europea, in attesa del voto di conferma da parte del Parlamento Europeo che dovrebbe esserci poi a metà settembre. A quel punto, se Meloni avrà ottenuto ciò che vuole o se riterrà comunque dignitoso il compromesso raggiunto sulla composizione della Commissione, potrebbe avvenire una rottura più o meno traumatica tra Fratelli d’Italia e alcuni suoi alleati di estrema destra. È infatti abbastanza scontato che altri partiti di ECR, come il PIS polacco o gli spagnoli di VOX, voteranno contro la prossima Commissione. Ma questo, dice lo stesso ministro di Fratelli d’Italia, risponde più che altro a questioni politiche interne ai singoli Stati: essendo sia VOX sia il PIS all’opposizione nei loro paesi, avranno tutto l’interesse a contestare l’accordo raggiunto dal Consiglio Europeo, dove siedono il primo ministro polacco Donald Tusk e quello spagnolo Sánchez.
Se tutto questo dovesse avvenire, gli europarlamentari di Fratelli d’Italia avrebbero pochi dubbi a votare a favore della presidente della Commissione, anche a costo di dissociarsi dal resto dei loro alleati di destra e di estrema destra. L’europarlamentare Nicola Procaccini, uno dei due presidenti del gruppo ECR, domenica sera ha spiegato appunto che sarebbe bizzarro per un partito come Fratelli d’Italia non votare a favore di una presidente della Commissione su cui Meloni, cioè la leader di Fratelli d’Italia, dà il suo parere positivo.
Una spaccatura dentro a ECR per il voto sulla Commissione non sarebbe così traumatica, secondo Carlo Fidanza, un altro importante europarlamentare uscente e rieletto di Fratelli d’Italia, come Procaccini.
Successe lo stesso, ma a parti invertite, nel 2019: all’epoca fu il PIS a votare a favore di von der Leyen, visto che il primo ministro polacco all’epoca era Mateusz Morawiecki, uno dei leader del PIS. «Ci sarà libertà di voto, e se in quell’occasione alcuni partiti si comporteranno in maniera diversa da altri, in ECR, non sarà un problema», dice Procaccini. Di tutto ciò, gli europarlamentari e i dirigenti di ECR inizieranno a parlare mercoledì 12 giugno, durante una prima riunione a Bruxelles. «Ma saranno ragionamenti interlocutori», precisa Fidanza.
Nei giorni passati si è parlato molto della nascita di un unico grande gruppo di estrema destra alla destra del PPE, visto che le destre radicali sono andate abbastanza bene alle elezioni (ma non abbastanza da poter entrare in una maggioranza, come abbiamo visto). Tuttavia, se lo scenario sarà quello analizzato fin qui, è un’ipotesi davvero remota.
Il gruppo infatti raccoglie il grosso dei componenti di ECR e di quelli di Identità e Democrazia (ID), il gruppo ancor più radicale ed euroscettico di cui fanno parte tra gli altri la Lega di Matteo Salvini e il Rassemblement National di Marine Le Pen, oltre ad alcuni partiti al momento senza una “famiglia” politica di riferimento, come per esempio Fidesz, il partito di estrema destra del primo ministro ungherese Viktor Orbán.
L’ipotetico grande gruppo potrebbe dare più peso alle rivendicazioni sovraniste delle destre europee, ma presenta incognite consistenti sul piano politico. Per prima cosa molti di questi partiti sono incompatibili gli uni con gli altri: su alcuni temi, come per esempio sul sostegno militare all’Ucraina, ci sono distanze enormi. In secondo luogo, la creazione del gruppo avrebbe l’effetto di rafforzare ancor più l’alleanza tra PPE e socialisti, in un’ottica di opposizione alla deriva antieuropeista: se molti dei partiti del PPE hanno grosse riserve su un’eventuale intesa con ECR, sono invece del tutto ostili a un accordo che coinvolga anche ID. E questo danneggerebbe Meloni, rendendole più complicato ottenere qualcosa dalle alleanze che faranno i principali leader europei.