La Lega ha perso il Nord
Il partito di Matteo Salvini, accantonata la causa federalista, vale ora meno di un terzo di Fratelli d'Italia nei territori dove nacque, mentre si consolida al Sud sia pure su percentuali molto basse
Tra i dati politici notevoli di queste elezioni europee c’è l’ormai conclamata perdita di radicamento territoriale della Lega nel Nord Italia. È un processo in verità in corso da tempo: l’idea di trasformare il partito federalista (e prima ancora secessionista) padano in partito nazionalista è il senso stesso del mandato di Matteo Salvini come segretario.
Divenuto segretario della Lega Nord (allora si chiamava ancora così) nel 2013, Salvini in una prima fase proseguì con la linea antimeridionalista, esasperando i toni neppure troppo velatamente razzisti di certe battaglie in favore del Nord. Poi, dal 2014 e nei dieci anni seguenti, ha sempre più convintamente preso un orientamento più nazionalista. Non più solo “sindacato di territorio” del Nord, come si diceva un tempo; ma partito di destra radicale sovranista. Questa trasformazione venne sancita anche dalla creazione di un nuovo partito, nato nel 2017 attraverso un contorto processo burocratico come per “gemmazione” dal vecchio, che venne accantonato: non più Lega Nord, dunque, ma Lega per Salvini Premier.
In questa transizione, però, la Lega ha sempre mantenuto negli anni il proprio elettorato e il proprio centro di gravità degli interessi politici ed economici nelle regioni settentrionali. Quelle stesse regioni garantivano al partito il maggior consenso anche nelle fasi più difficili, affidandosi al cosiddetto “zoccolo duro” fatto di attivisti e militanti, e fornivano la stragrande maggioranza di eletti e di dirigenti nazionali. Alle ultime elezioni nazionali a cui la Lega di Salvini si presentò col nome “Lega Nord”, le europee del 2014, nelle due circoscrizioni del Nord ottenne 1,49 milioni di voti sul totale degli 1,68 milioni di voti, cioè poco meno dell’89 per cento. A questo giro, dieci anni dopo, quelle stesse due circoscrizioni garantiscono circa il 65 per cento del consenso totale del partito: 1,3 dei 2 milioni di voti.
Queste elezioni europee mostrano quindi un’erosione del consenso della Lega al Nord, e allo stesso tempo grazie al contributo degli elettori del Sud, un piccolo avanzamento rispetto ai risultati di due anni fa. Quest’ultimo dato è raccontato in un report elaborato dall’Istituto Cattaneo, un centro di ricerche specializzato nell’analisi dei flussi elettorali.
È una tendenza che appare evidente anche dall’analisi delle preferenze. Nel 2019, alle precedenti europee, il contributo dato dai candidati leghisti del Nord, quelli di più lungo corso, era stato significativo: e al di là di Salvini, che si candidò capolista ovunque da vicepresidente del Consiglio e dunque ineleggibile al Parlamento Europeo, ci furono prestazioni notevoli tra i veneti (Mara Bizzotto con 94mila preferenze) e i lombardi (Angelo Ciocca con 89mila preferenze), i cui risultati erano ben al di sopra dei candidati più votati al Sud (dove il migliore fu Massimo Casanova, con 65mila preferenze).
Stavolta, invece, tanto al Nord quanto al Sud, il grosso delle preferenze è andato a un candidato indipendente come il generale Roberto Vannacci, che ha ben poco da spartire con le istanze tradizionali della Lega e anche per questo è stato contestato e sopportato con fastidio dai dirigenti storici del partito. Tolto Vannacci, con le sue 532mila preferenze, la sola candidata leghista che nelle circoscrizioni settentrionali ha ottenuto più di 50mila preferenze è la milanese Silvia Sardone (75mila). Al Sud sono invece in due a superare quella soglia: il leccese Roberto Marti (59mila) e soprattutto Aldo Patriciello, entrato nella Lega solo dal febbraio scorso, con poco meno di 70mila preferenze.
C’è dunque una sorta di livellamento tra i candidati più votati del Nord e quelli più votati del Sud. Ma soprattutto, ciò che rende lo scenario elettorale diverso rispetto al recente passato è il fatto che in molte regioni settentrionali dove la Lega era tradizionalmente la forza egemone della destra ora è nettamente distaccata da Fratelli d’Italia e in certi casi indietro anche rispetto a Forza Italia.
Per esempio alle Europee del 2019 in Piemonte la Lega aveva il 37,1 per cento dei consensi e Fratelli d’Italia il 6 per cento. Alle politiche del 2022, Fratelli d’Italia aveva ottenuto il 26,9 per cento, la Lega il 10,8. Ora questo ribaltamento si consolida e si fa più ampio: Fratelli d’Italia è al 30 per cento e la Lega al 10,3 per cento.
Un esempio ancora più clamoroso è la Lombardia, dove la Lega è passata dal 43,4 per cento del 2019 al 13,1 del 2024, passando per il 13,9 del 2022; mentre Fratelli d’Italia è cresciuta dal 5,5 per cento al 27,5 per cento, e ora è aumentata ancora raggiungendo il 31 per cento.
In Veneto Fratelli d’Italia è al 37,6 per cento e la Lega al 13,1 per cento; in Emilia-Romagna Fratelli d’Italia è al 28 e la Lega al 6,5 per cento; in Liguria, 26,8 per cento contro 8,9 per cento.
Insomma, un po’ ovunque al Nord e in maniera ormai piuttosto stabile la Lega vale tra un quarto e un terzo di Fratelli d’Italia. Un fatto impensabile solo fino a tre o quattro anni fa, e che avrà ripercussioni politiche ancor più evidenti nei prossimi mesi, quando molte delle regioni del Nord andranno al voto e Fratelli d’Italia non avrà difficoltà a indicare i candidati presidenti che preferisce. Forse in Liguria o in Emilia-Romagna Meloni potrebbe voler concedere maggiore spazio agli alleati, ma a questo punto diventa di fatto impossibile per Salvini rivendicare, come ha fatto finora, la scelta del successore di Luca Zaia come candidato presidente della destra in Veneto.
Il cambiamento della base elettorale del partito a livello geografico è dimostrato anche da altri dati. Alle politiche del 2018, le prime elezioni nazionali a cui il partito di Salvini si presentò col nuovo simbolo, Lega per Salvini Premier, la differenza tra i consensi presi al Nord e quelli ottenuti al Sud era notevole: in Veneto e Lombardia, le terre di nascita e di primo sviluppo del leghismo, il partito ottenne il 31 e il 28 per cento, mentre in Campania o in Puglia non andò oltre il 4,5 e il 6,5 per cento. Ora quella differenza si è drasticamente ridotta. Anzi, al Sud ha mantenuto i consensi o addirittura è cresciuto leggermente, per esempio in Puglia (poco sopra il 6,2 per cento) e in Campania (5,8 per cento).
Il tutto senza che i rivali interni di Salvini, quelli che lo accusano di aver tradito la causa nordista, riescano ad affermarsi in alcun modo. Molti di loro, anzi, non trovano neppure più spazio nel partito: è il caso del lombardo Marco Reguzzoni o del piemontese Roberto Cota, che si sono presentati negli scorsi mesi come i “custodi” del federalismo tradito e si sono candidati alle europee con Forza Italia proprio in opposizione a Salvini, ma raccogliendo risultati modestissimi. L’impressione, confermata dai primi rilievi degli istituti di ricerca, è che grossa parte dell’elettorato leghista più legato alle storiche battaglie federaliste si sia astenuto, o abbia in misura limitata votato per Fratelli d’Italia.
In questo contesto di progressiva erosione dei consensi al Nord e di marginale ma stabile radicamento al Sud, anche l’agenda del partito è un po’ cambiata. Salvini si è battuto molto per promuovere il disegno di legge sull’autonomia differenziata (approvato al Senato ma non ancora alla Camera, e soggetto ancora a qualche incognita procedurale che potrebbe ritardarne ancora il voto definitivo) che attribuisce maggiori poteri alle regioni e darebbe parziale compimento a uno dei progetti originari della Lega; ma al tempo stesso ha posto come obiettivo prioritario del suo mandato da ministro dei Trasporti la proibitiva realizzazione del ponte sullo Stretto di Messina.
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