Ray Charles poteva cantare tutto

Vent'anni fa morì il musicista che più di tutti contribuì a rendere pop generi come jazz, gospel, blues e country, influenzando enormemente successive generazioni di cantanti e gruppi

Ray Charles nel 1960 (Express Newspapers/Getty Images)
Ray Charles nel 1960 (Express Newspapers/Getty Images)
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Quando la critica musicale parla di Ray Charles, probabilmente il più grande cantante di rhythm and blues di tutti i tempi, spesso si concentra su un aspetto: poteva cantare qualsiasi cosa. Durante i suoi quasi sessant’anni di carriera Charles, che morì il 10 giugno di vent’anni fa per le complicanze di una malattia al fegato, si consacrò come uno dei più importanti interpreti della musica statunitense del Novecento, reinterpretando in chiave pop generi come jazz, gospel, blues e country e contribuendo alla nascita di quella musica che oggi viene definita soul, insieme a colleghi come Otis Redding, Donny Hathaway, Sam Cooke e Dionne Warwick.

Mascherando composizioni sofisticatissime con melodie orecchiabili diventò una fonte di ispirazione per tantissimi, da Aretha Franklin a Stevie Wonder, da Van Morrison a Billy Joel, fino a Elvis Presley e i Rolling Stones. Charles ebbe anche una grande importanza dal punto di vista simbolico per i musicisti afroamericani, che prima di lui venivano concepiti soprattutto come intrattenitori per bianchi, ma che anche grazie al suo successo cominciarono a rivendicare la propria posizione da musicisti e celebrità: un ruolo che la stragrande maggioranza dei bianchi, in anni in cui la segregazione era ancora legale, non erano assolutamente disposti a concedere.

Nacque come Ray Charles Robinson ad Albany, in Georgia, il 23 settembre 1930, ma si trasferì immediatamente a Greenville, in Florida: sua madre, Aretha Williams, lavorava come addetta in una segheria, e suo padre, Bailey Robinson, era un ferroviere. Si appassionò al pianoforte da piccolissimo, osservando suonare Wiley Pitman, proprietario del Red Wing Cafè: era un locale frequentato soprattutto da famiglie afroamericane, e funzionava anche come negozio di generi alimentari.

Come ha scritto Michael Lydon, autore del libro Ray Charles: Man and Music, al Red Wing Cafè si poteva trovare qualsiasi cosa: «cherosene, fiammiferi, farina, sale, birra e panini con zampe di maiale. Al centro della sala c’erano alcuni tavoli e contro una parete c’erano un jukebox e, soprattutto, un pianoforte» che Pitman suonava ogni pomeriggio per far ballare e divertire la gente con il boogie-woogie. Charles prese le prime, rudimentali lezioni di pianoforte proprio da Pitman, sviluppando precocemente un grande senso del ritmo e della melodia.

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Quando aveva appena cinque anni, Charles assistette impotente alla morte di George, suo fratello minore, che annegò in una tinozza per il bucato. L’anno dopo un glaucoma gli causò dei danni irreversibili al nervo ottico, portandolo alla cecità. Riuscì ad approfondire lo studio della musica grazie a una sua insegnante della scuola per ciechi di Jacksonville, dove si era trasferito insieme a sua madre, che gli insegnò a comporre la musica utilizzando il braille, il sistema di lettura e scrittura tattile a rilievo per persone cieche e ipovedenti.

Alla fine delle superiori, Charles era già un pianista esperto e di incredibile talento: a Jacksonville aveva approfondito lo studio della musica classica, studiando compositori come Bach, Mozart e Beethoven. A questa formazione accademica, Charles affiancò sempre una grande curiosità per la musica popolare.

Una parte di queste influenze era dovuta ai contesti con cui era entrato in contatto durante l’infanzia: era affascinato da alcune intuizioni del gospel che veniva suonato nelle chiese afroamericane cristiane-metodiste, e in particolare dalla struttura “botta e risposta” tipica del genere, ed era cresciuto in un periodo in cui le radio passavano moltissimi cantanti country, come Roy Acuff, Bill Monroe e Hank Williams.

Parallelamente sviluppò una certa passione per il rhythm and blues, per lo swing delle grandi big band americane, come quelle di Duke Ellington e Artie Shaw, e per i virtuosismi di pianisti come Art Tatum. Quando concluse le scuole e iniziò a pensare di dedicarsi professionalmente alla musica, verso la fine degli anni Quaranta, decise di fondere insieme tutte queste influenze per dare vita a qualcosa di nuovo. I suoi primi dischi, usciti tutti per piccole etichette indipendenti, fornirono alcune indicazioni del suo potenziale, ma la sua carriera cambiò soltanto nel 1953, quando Ahmet Ertegun, figlio di un diplomatico turco, gli offrì un contratto per una major: la Atlantic Records.

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L’anno dopo Charles realizzò il suo primo, enorme successo, e tuttora uno degli esempi più celebri di questa sua inclinazione a unire generi musicali diversi: “I Got a Woman”, che registrò nel 1954 in uno studio di registrazione di Atlanta, in Georgia. L’idea venne da un inno religioso, e Charles la buttò giù con il trombettista della sua band Renald Richard (l’assolo di sassofono nella versione definitiva è di Donald Wilkerson).

Come ha ricordato Richard Williams sul Guardian, all’inizio la canzone ricevette alcune critiche da parte degli ascoltatori afroamericani più anziani, che mal sopportavano la mescolanza di forme sacre (il botta e risposta del gospel) con musiche decisamente più secolari (il blues). Ma ricevette invece un gran apprezzamento da parte dei più giovani, entusiasti di incontrare quella che, ai tempi, sembrava la musica più disinibita e di rottura che potessero ascoltare.

Da “I Got a Woman” in poi, Ray Charles divenne Ray Charles per il mondo. Negli anni successivi scrisse canzoni destinate a diventare tormentoni, come “Busted, “Take these Chains from My Heart”, “Here We Go Again”  e soprattutto “Hit the Road Jack”, probabilmente il suo successo più famoso in assoluto. 

Agli inizi degli anni Sessanta Charles ottenne una fama enorme, diventando a tutti gli effetti un pezzo importante della cultura pop occidentale: il suo modo di dimenarsi mentre suonava il pianoforte, le espressioni facciali che alternava nel canto e i suoi onnipresenti occhiali da sole lo resero riconoscibilissimo e apprezzato in tutto il mondo.

Nel 1962 realizzò i due dischi di Modern Sounds in Country and Western Music, dedicati alla reinterpretazione dei classici del country che aveva imparato ad apprezzare da bambino. Per un musicista afroamericano, realizzare un disco del genere non era un’impresa di poco conto: pur essendosi sviluppato inizialmente nella comunità afroamericana, il country veniva considerato essenzialmente una musica per bianchi. Questa concezione si sviluppò anche per via delle logiche di distribuzione dominanti nell’industria musicale degli anni Venti, quando le case discografiche iniziarono a suddividere la musica anche in base a fattori etnici.

In quel periodo l’impatto delle cosiddette leggi “Jim Crow”, approvate in singoli stati del sud a partire dal 1876 per sistematizzare la segregazione razziale per i neri e i membri di altri gruppi etnici diversi dai bianchi, era ancora molto forte. Anche la musica finì per risentire di quell’approccio, e così alcuni generi, come il jazz e il gospel, cominciarono a essere commercializzati come “musica per neri”, mentre il country cominciò a essere presentato come la musica più adatta «da fare ascoltare ai bianchi che dal Sud si erano trasferiti nelle grandi città del Nord e dell’Ovest», ha spiegato il musicologo Charles Hughes.

Anche per questo motivo, Modern Sounds in Country and Western Music è considerato un disco importantissimo nel processo di riappropriazione del country da parte della comunità afroamericana, portato avanti ancora oggi da cantanti come Beyoncé. Oltre alla sua rilevanza “sociale”, l’album è descritto come un capolavoro da praticamente tutta la critica: Charles reinterpretò vari classici del genere, facendoli conoscere a nuove generazioni di ascoltatori.

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Nel 1965, a 35 anni, aveva già una fama incomparabile a quella della maggior parte dei suoi contemporanei. Quell’anno fu arrestato per possesso di eroina, una droga che aveva iniziato ad assumere fin dall’adolescenza. Questo arresto viene spesso descritto come un momento decisivo nella carriera di Ray Charles: passò quel biennio, durante il quale vinse anche un Grammy, in libertà vigilata.

Nel decennio successivo Charles fu criticato da molti addetti ai lavori, che anche per alcuni dischi accolti molto tiepidamente lo consideravano ormai superato, privo di spunti e poco ispirato. Da quel momento e fino agli inizi degli anni Ottanta, pur essendo riconosciuto come un’influenza fondamentale praticamente da chiunque, visse un periodo di forte declino commerciale.

Fu causato anche dal fatto che la sua musica divenne sempre meno importante per il mercato discografico, sempre più attratto dal rock e dai suoi sottogeneri. La sua popolarità tornò a crescere nel 1980, grazie alla sua storica partecipazione nel film The Blues Brothers, film di John Landis oggi considerato di enorme culto, in cui interpretò sé stesso, suonando tra le altre cose una versione di Shake a Tail Feather insieme a John Belushi e Dan Aykroyd. The Blues Brothers rilanciò la popolarità di Charles, facendo conoscere la sua musica al pubblico più giovane.

Dopo questa esperienza ridusse progressivamente le sue esibizioni, continuando però la ricerca che aveva iniziato nel 1962: gli album che realizzò negli anni Ottanta per la Columbia Records avevano tutti al centro il country, e lo stesso Charles divenne uno dei più importanti esponenti del genere. Nel decennio successivo passò alla Warner e nel 2002 pubblicò il suo ultimo disco, Thanks for Bringing Love Around Again, con la sua etichetta Crossover.