Che ruolo hanno avuto i candidati in queste elezioni
L'analisi delle preferenze dice che il successo di Fratelli d'Italia è dovuto a Meloni, e che al risultato del PD hanno contribuito in molti: e poi c'è Vannacci, che rafforza Salvini nonostante tutto
Quando lo scrutinio delle elezioni europee è ormai quasi completato si stanno definendo in maniera pressoché definitiva non solo i voti presi dai vari partiti, ma anche le preferenze ottenute dai singoli candidati. Oltre a indicare con una “X” la lista che s’intende votare, gli elettori hanno potuto indicare anche i nomi dei candidati e delle candidate (fino a un massimo di tre) che volevano contribuire a fare eleggere. Era una scelta, e molti elettori non esprimono nessuna preferenza: ma chi lo fa dà in questo modo un segnale ulteriore con il suo voto, oltre a contribuire a determinare chi ottiene i seggi al Parlamento Europeo.
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L’analisi delle preferenze consente insomma anche di fare delle analisi del voto più approfondite: e capire, cioè, come è maturato il successo o la sconfitta di una lista, o comprendere meglio gli equilibri e i rapporti di forza interni ai partiti. Da questa analisi apparentemente grossolana, ma di solito piuttosto efficace, si può per esempio stabilire che la vittoria di Fratelli d’Italia sia stata determinata in massima parte dalla sua leader Giorgia Meloni, laddove al contrario l’ottimo risultato del Partito Democratico è frutto di una buona prestazione collettiva.
O che Matteo Salvini, pur non ottenendo consensi troppo rassicuranti, potrà assai agevolmente evitare qualsiasi ipotetica minaccia interna alla sua leadership nella Lega, o ancora che la disfatta del Movimento 5 Stelle sia da attribuire principalmente a una scelta sbagliata dei candidati, che ha dirottato con ogni probabilità molti voti radicali verso Alleanza Verdi e Sinistra, che invece da parte sua ha saputo comporre delle liste molto competitive.
Andando con ordine, è interessante notare la diversa natura del successo dei due partiti usciti vincitori dalle europee: Fratelli d’Italia e Partito Democratico. Nel caso di Fratelli d’Italia, a determinare il successo è stata la grande massa di preferenze prese da Meloni, che si è candidata in tutte e cinque le circoscrizioni elettorali da presidente del Consiglio in carica, con una scelta che non ha altri precedenti se non quelli di Silvio Berlusconi. Meloni, che ovviamente non andrà al Parlamento Europeo, ha ottenuto più 2,3 milioni di preferenze. Cioè, in sostanza, più di un terzo dei 6,6 milioni di voti presi nel complesso dal suo partito, in cui nessun altro dei candidati ha raggiunto le 100mila preferenze.
Al contrario, nel Partito Democratico c’è stato un contributo corale. E anzi, il successo di Schlein è determinato in massima parte dai candidati dell’area riformista, quelli cioè che al congresso del PD avevano sostenuto non la segretaria, ma il suo avversario Stefano Bonaccini. Sono state notevoli, tra le altre, le prestazioni del sindaco di Bari Antonio Decaro, con 495mila preferenze ottenute nella circoscrizione del Sud, e di Bonaccini stesso, con 382mila preferenze raccolte da capolista nel Nord-Est. Schlein, capolista al Centro e nelle Isole, ha preso poco più di 206mila preferenze: un risultato dignitoso, ma non clamoroso.
Nel complesso, dei 21 (o 22, a seconda dei risultati finali) europarlamentari che il Pd eleggerà, quelli più vicini alla segretaria a livello personale o ideologico, cioè quelli più di sinistra, saranno probabilmente sei (o sette, se al Centro Marco Tarquinio farà meglio di Alessia Morani per l’ultimo dei 5 seggi che spetteranno al PD). Per evidenziare la differenza tra il consenso del PD e quello di FdI, si può poi considerare un altro dato: se nel partito della presidente del Consiglio, dietro a Meloni, il più votato è Alberico Gambino al Sud con 92mila preferenze, nel partito di Schlein saranno almeno 7 (e forse 8) i candidati che otterranno più di 100mila preferenze, oltre alla segretaria.
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Quanto alla Lega, le ipotesi di una crisi della leadership di Salvini a seguito del voto si stanno drasticamente ridimensionando proprio in virtù della distribuzione delle preferenze. La Lega ha preso infatti poco più di 2 milioni di voti: e Roberto Vannacci ha contribuito in maniera decisiva a questo risultato, con le sue circa 530mila preferenze. È un dato significativo sul piano politico, oltreché aritmetico: la scelta di candidare il generale dell’Esercito, famoso per le sue reiterate dichiarazioni razziste e omofobe, aveva generato molte critiche tra i dirigenti del partito, che rimproveravano a Salvini di aver sacrificato i candidati più radicati sul territorio e soprattutto quelli più devoti alla causa nordista. Tuttavia, proprio al nord la Lega ha ottenuto risultati più negativi del solito, e anche al nord è comunque Vannacci ad aver trainato i consensi con le sue preferenze.
Alcuni esempi sono emblematici. Quando il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti, vicesegretario della Lega, aveva biasimato la scelta di Vannacci, lo aveva fatto in un evento elettorale a sostegno della candidata del suo collegio, e cioè la varesotta Isabella Tovaglieri: la quale, però, ha preso 40mila preferenze nel Nord-Ovest, a fronte delle 186mila di Vannacci. Lo stesso vale per il Nord-Est. Anche lì, i presidenti leghisti del Veneto Luca Zaia e del Friuli Venezia Giulia Massimiliano Fedriga avevano annunciato il proprio sostegno ai candidati locali: ma tra questi la migliore è risultata la sindaca di Monfalcone Anna Maria Cisint, con circa 43mila preferenze, cioè circa 100mila in meno di Vannacci.
Quanto alle istanze nordiste, il candidato che nei mesi passati, sia pure in maniera ambigua e contraddittoria, aveva dato voce ai risentimenti della base storica della Lega, quella padana e autonomista, è stato il pavese Angelo Ciocca, protagonista di una campagna elettorale molto folkloristica. Ciocca ha ottenuto 38mila preferenze, che non gli garantiscono ancora del tutto l’elezione e che sono inoltre molte meno delle 89mila che prese nel 2019. Il tutto, peraltro, mentre Umberto Bossi, cioè il fondatore della Lega e colui a cui spesso si richiamavano i leghisti che contestano la linea di Salvini, ha dichiarato di aver votato per Forza Italia (che ha candidato ex leghisti a lui molto vicini, come Marco Reguzzoni), di fatto delegittimando tutti gli avversari interni di Salvini stesso.
È interessante anche l’analisi del voto comparata tra Movimento 5 Stelle e Alleanza Verdi e Sinistra (AVS). In larga misura, le due liste si rivolgevano a un elettorato simile: ecologista, contrario al sostegno militare all’Ucraina, nettamente filopalestinese, generalmente intransigente nel rimproverare tiepidezza e moderazione al PD. In questo caso, oltreché la maggiore o minore credibilità dei leader nazionali, a risultare decisiva pare essere stata proprio la scelta dei candidati. Nicola Fratoianni e Angelo Bonelli, leader di AVS, hanno fatto scelte clamorose che hanno pagato: Ilaria Salis, l’attivista antifascista milanese detenuta agli arresti domiciliari a Budapest, ha raccolto 176mila preferenze nelle due circoscrizioni settentrionali dov’era candidata, ed è così certa dell’elezione al Parlamento Europeo e del conseguente ottenimento dell’immunità parlamentare. Mimmo Lucano, ex sindaco di Riace noto per il suo impegno in sostegno dell’integrazione dei migranti, candidato in tutte le circoscrizioni tranne quella del Centro, ha preso quasi 190mila preferenze.
Il M5S, al contrario, ha dovuto fare affidamento di più sul voto d’opinione, senza il sostegno di candidati di rilievo in grado di ottenere un gran numero di preferenze: il più votato è stato, al Sud, l’ex presidente dell’INPS, l’Istituto nazionale della previdenza sociale, Pasquale Tridico. Anche così si spiega il fatto che una buona parte del voto radicale sia passato con ogni probabilità da M5S ad AVS, e che la distanza tra le due forze politiche si sia molto ridotta rispetto alle politiche del 2022: in quel caso il partito di Giuseppe Conte aveva ottenuto il 15,4 per cento, mentre AVS il 3,6 per cento; stavolta il M5S ha preso poco meno del 10 per cento, e AVS il 6,71 per cento.