Cosa ci lascia questo Parlamento Europeo

Nell'ultima legislatura è stato estremamente produttivo, e ha prodotto il Green Deal e la prima legge al mondo sull'intelligenza artificiale: in vari settori però è stato assai poco ambizioso

Un abbraccio tra la presidente del Parlamento Europeo Roberta Metsola, a sinistra, e quella della Commissione Europea Ursula von der Leyen, a destra, il 17 gennaio 2023 nella sede di Strasburgo del Parlamento Europeo (AP Photo/Jean-Francois Badias)
Un abbraccio tra la presidente del Parlamento Europeo Roberta Metsola, a sinistra, e quella della Commissione Europea Ursula von der Leyen, a destra, il 17 gennaio 2023 nella sede di Strasburgo del Parlamento Europeo (AP Photo/Jean-Francois Badias)

Con le elezioni europee e l’insediamento del nuovo Parlamento Europeo si concluderà la nona legislatura del Parlamento europeo, iniziata a luglio del 2019. È stata una legislatura piuttosto densa: negli ultimi cinque anni sono state approvate alcune tra le leggi più incisive e ambiziose della storia europea, anche perché sono arrivate talvolta in risposta a eventi straordinari come la pandemia, la guerra in Ucraina e la conseguente crisi energetica, oppure a grossi cambiamenti ambientali, tecnologici e digitali, solo per citarne alcuni.

Sebbene non abbia un vero e proprio potere di iniziativa legislativa, il Parlamento Europeo ha avuto un ruolo importante in quasi tutte queste misure perché le ha discusse, modificate a approvate. Nella legislatura appena conclusa ha approvato, tra atti nuovi ed emendamenti, 278 regolamenti, cioè quelle leggi che si applicano direttamente a tutti gli stati membri, e 69 direttive, quelle che invece dettano dei principi di massima che devono poi essere recepiti da leggi nazionali specifiche.

Sono numeri in linea con quanto era stato approvato nella legislatura precedente, ma tra questi, come dicevamo, ci sono alcuni provvedimenti che hanno e avranno un grande impatto sulla vita degli europei e delle europee.

Il Green Deal e le leggi sul clima
Sicuramente è il clima il settore su cui la Commissione Europea e il Parlamento Europeo si sono spesi di più nell’ultima legislatura, e anche il tema le cui leggi avranno l’impatto più tangibile. Riguardano per esempio che tipo di auto potremo comprare dopo il 2035, o quali lavori di ristrutturazione dovremo programmare per rendere le nostre case più efficienti dal punto di vista energetico.

Queste leggi fanno parte di un piano più ampio per il clima, conosciuto come Green Deal, che fu presentato dalla presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen a dicembre del 2019, proprio nei primi mesi del suo mandato. Il referente del progetto è stato il vicepresidente della Commissione Frans Timmermans, anche commissario europeo per il Green Deal, appunto, fino alle sue dimissioni avvenute nell’estate del 2023. Il Green Deal prevede la decarbonizzazione della maggior parte dei settori economici attraverso vari interventi legislativi più specifici, il grosso dei quali è stato approvato entro la legislatura.

La presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen durante la conferenza stampa di presentazione del Green Deal, l’11 dicembre del 2019 a Bruxelles (AP Photo/Francisco Seco)

I due pezzi principali del Green Deal sono la Legge sul Clima e il “Fit for 55”.

La Legge sul Clima è entrata in vigore nel 2021 e fissa gli obiettivi generali dell’intero piano: vincola l’Unione Europea a ridurre le emissioni inquinanti nette del 55 per cento entro il 2030, e infine ad azzerarle del tutto entro il 2050. Significa che per allora l’Unione dovrà essere in grado di riuscire a rimuovere tanta anidride carbonica, o altri gas serra, quanta quella immessa nell’atmosfera. Entro il 2030 inoltre il 42,5 per cento dell’energia prodotta dovrà provenire da fonti rinnovabili (dall’attuale 23 per cento).

Il secondo pezzo è il “Fit for 55”, il piano assai ambizioso con cui l’Unione ha definito misure concrete per rispettare l’obiettivo di riduzione delle emissioni del 55 per cento entro il 2030. È stato presentato nel 2021: allora von der Leyen lo paragonò all’arrivo «dell’uomo sulla Luna», mentre Timmermans lo definì la «più grande operazione di trasformazione della storia». Fu poi adottato nelle sue parti principali nell’aprile del 2023. Prevede molte misure anche diverse, dal Carbon Border Adjustment Mechanism – un sistema che costringerà le aziende internazionali che operano in settori particolarmente inquinanti a pagare per le emissioni da loro prodotte se vogliono importare in Europa – a nuove regole e incentivi per favorire l’elettrificazione del sistema dei trasporti, dal rilancio del Sistema di scambio delle emissioni (ETS), un complicato meccanismo con cui le industrie si scambiano i permessi per le emissioni e che consente di tenere il totale complessivo sotto una certa soglia, fino a una tassa per i carburanti (molto inquinanti) degli aerei e delle navi.

La presentazione del piano “Fit for 55″, a Bruxelles, il 14 luglio del 2021. Da sinistra: il commissario europeo per il Green Deal Frans Timmerman, la commissaria ai Trasporti Adina Vălean, la presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen, il commissario agli Affari economici Paolo Gentiloni, la commissaria per l’Energia Kadri Simson, e il commissario all’Ambiente Virginijus Sinkevičius (AP Photo/Valeria Mongelli)

Nell’ambito del Green Deal rientra poi tutta una serie di atti legislativi specifici che prevedono misure per ridurre l’impatto sull’ambiente di gran parte dei settori produttivi, dall’industria all’energia, passando per la mobilità e l’agricoltura.

Proprio sul settore agricolo i progetti di legge della Commissione Europea hanno trovato l’opposizione più forte da parte delle forze politiche e dell’opinione pubblica. Opposizione che si è vista per esempio nelle forti e talvolta violente proteste degli agricoltori organizzate in tutta Europa fra gennaio e marzo di quest’anno, quando molti di loro hanno bloccato le strade o le piazze di varie capitali europee con i propri trattori, arrivati anche davanti alla sede di Bruxelles del Parlamento Europeo. Gli agricoltori protestavano in certi casi per alcune specificità nazionali, ma erano comunque accomunati dal disaccordo verso quelle parti del Green Deal europeo che li riguardavano.

E soprattutto verso quelle che legavano alla riduzione delle emissioni del settore i sussidi europei, che per la maggior parte dei produttori sono essenziali per continuare a restare in attività: il settore agricolo europeo è composto al 95 per cento da imprese familiari con scarsi margini di guadagno e si regge soprattutto sui sussidi che riceve dall’Unione Europea attraverso la Politica Agricola Comune, quella che è conosciuta come PAC. Con alcuni provvedimenti del Green Deal i fondi legati alla PAC sono stati agganciati a una serie di obiettivi che costringeranno gli agricoltori a rendere più sostenibile la propria produzione: per esempio il piano Farm to Fork prevede di riconvertire entro il 2030 almeno il 25 per cento dei terreni coltivati ad agricoltura biologica.

Il settore agricolo produce circa il 14 per cento di tutte le emissioni nell’Unione Europea, ed è uno dei settori che negli ultimi anni hanno ridotto di meno le proprie emissioni inquinanti, rispetto per esempio alla produzione di energia e più in generale al settore industriale. È per questa ragione che prima delle proteste degli ultimi mesi diversi governi europei, oltre alla stessa Unione Europea, avevano cercato di imporre dei paletti più stringenti per spingere il settore agricolo verso una maggiore sostenibilità ambientale.

Nelle semplificazioni che spesso hanno accompagnato le cronache delle proteste è passato il concetto che gli agricoltori siano contro alcune delle più importanti politiche per contrastare il cambiamento climatico, e che di conseguenza siano più interessati al proprio tornaconto che all’ambiente e al suo futuro. In realtà, la questione è molto più complessa e le proteste sono state il risultato di proposte sul clima difficili da raggiungere in poco tempo, di meccanismi non sempre efficienti nell’attribuzione dei sussidi e soprattutto di anni di difficoltà economiche e competizione sempre più minacciosa da parte di paesi extraeuropei.

– Leggi anche: Le politiche ambientali danneggiano davvero gli agricoltori?

Resta il fatto che le proteste degli agricoltori, il cui consenso politico è particolarmente ambito dai partiti di destra, sono comunque riuscite a far ottenere al settore alcune concessioni, sia da parte dei governi nazionali che dalle autorità europee. E questo anche perché sono avvenute solo qualche mese prima delle elezioni europee.

Una legge che in particolare ha risentito di questa diffidenza verso le riforme per il clima è per esempio la Nature Restoration Law, un importante insieme di norme per la tutela dell’ambiente a cui le istituzioni europee stanno lavorando da almeno due anni e che ha trovato delle forti resistenze da parte dei partiti: punta a ripristinare le condizioni naturali in almeno il 20 per cento della superficie terrestre e marina dei territori dell’Unione entro il 2030 (e il 30 per cento di territori selezionati) – in modo da impedirne lo sfruttamento commerciale – e a estendere gradualmente la tutela a tutti gli ecosistemi scelti entro il 2050. Nella versione originale del testo erano previsti obiettivi specifici per i vari ecosistemi, per esempio le foreste, le città e le zone agricole, che sono stati modificati durante le successive revisioni del testo. Col tempo le resistenze dei partiti l’hanno reso meno ambizioso, ma un compromesso fu trovato lo scorso novembre e a febbraio è stato approvato dal Parlamento Europeo: il testo è ora fermo al Consiglio dell’Unione Europea, dove le votazioni sono state più volte rimandate anche per la volontà dei partiti di non esporsi troppo a ridosso delle elezioni su un tema così caldo sul piano dell’opinione pubblica.

Se con le prossime elezioni il Parlamento Europeo dovesse effettivamente poi spostarsi a destra, l’approvazione di questa legge diventa piuttosto improbabile: è contrario per esempio il Partito Popolare Europeo (PPE), il partito di centrodestra più grande del Parlamento dove confluisce Forza Italia, secondo cui l’approvazione farebbe salire i prezzi dei generi alimentari e metterebbe in difficoltà gli agricoltori. Sono contrari anche il gruppo dei Conservatori e Riformisti (ECR, di destra, di cui fa parte Fratelli d’Italia) e quelli di Identità e Democrazia. Di quest’ultimo gruppo fa parte la Lega, il cui parlamentare Angelo Ciocca si è sempre distinto per esternazioni molto colorite contro le leggi sul clima, come quando mostrò una busta di insalata in aula dicendo «non è rispettoso sostenere che si salva il pianeta togliendo la busta all’insalata».

In Italia ci sono poi state alcune polemiche su altri due atti legislativi sul clima, perché prevedono dei vincoli molto stringenti sulle abitazioni e sulle auto, due beni su cui c’è moltissima attenzione da parte della politica e degli elettori.

Il primo è quello che in Italia è stato chiamato la “direttiva case green”: è stata proposta dalla Commissione Europea nel dicembre del 2021, poi discussa e modificata dal Parlamento Europeo, e infine approvata in via definitiva ad aprile dall’ECOFIN, cioè il Consiglio dei ministri europei dell’Economia e delle Finanze, col voto contrario di Italia e Ungheria. L’obiettivo principale della direttiva è ridurre in maniera sostanziale il consumo energetico e le emissioni di gas inquinanti di case e palazzi entro il 2035, con interventi di ristrutturazione per un miglior isolamento termico degli edifici o per dotarli di impianti energetici più moderni, per poi puntare alla realizzazione di immobili che non producano emissioni inquinanti entro il 2050.

La direttiva europea non introduce obblighi per i singoli proprietari di case, né impone ai governi di adottare specifiche misure. Ciascuno Stato membro avrà ampia libertà nel definire le proprie politiche pubbliche necessarie per raggiungere gli obiettivi. È chiaro però che per raggiungere gli obiettivi dovranno essere previsti cospicui lavori di ristrutturazione per gli edifici più vecchi, e questo ha molto agitato l’opinione pubblica italiana. Tanto che all’ultima votazione, quella del Consiglio dell’Unione Europea, l’Italia ha votato contro, insieme all’Ungheria.

Il motivo è principalmente economico e lo ha riassunto il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti in alcune dichiarazioni alla stampa in cui definiva la direttiva «bellissima» e «ambiziosa», per poi chiedersi: «Chi paga? Le famiglie? Gli Stati? L’Europa?». L’esatta entità dei costi che comporterà applicare la direttiva è difficile da stabilire, ma a prescindere da chi li sosterrà saranno con ogni probabilità alti, soprattutto perché il patrimonio immobiliare italiano è fatto per lo più di edifici vecchi e con un alto consumo energetico, nonostante la dimensione dei bonus edilizi approvati dal secondo governo guidato da Giuseppe Conte, e sostenuto dal Movimento 5 Stelle e dal Partito Democratico. L’Italia è tra i primi dieci paesi dell’Unione Europea per emissioni inquinanti per abitante, legate al riscaldamento e raffreddamento delle case.

Un’altra legge che in Italia ha fatto discutere è stata quella che impone il divieto di vendere nuovi veicoli funzionanti a benzina e gasolio a partire dal 2035, entrata in vigore ad aprile del 2023, dopo la grossa opposizione dei partiti del governo italiano, che all’interno delle istituzioni europee sono riusciti a ostacolarla fino all’ultimo grazie anche all’appoggio della Germania.

L’obiettivo della legge è estremamente ambizioso, ma molti sono preoccupati dell’effettiva sostenibilità e fattibilità del progetto, e soprattutto dell’impatto che potrà esserci sulle aziende produttrici di auto, che ancora oggi danno lavoro a migliaia di persone anche in Italia. Le posizioni sul divieto specifico di produrre e commercializzare veicoli funzionanti con combustibili tradizionali a partire dal 2035 sono piuttosto polarizzate: c’è chi ritiene che sia un passaggio importante e inevitabile per arrivare alla neutralità carbonica e c’è chi invece teme che il divieto sia troppo stringente e repentino, e che finirà per rivelarsi dannoso per l’industria dell’auto europea e per i suoi oltre due milioni di dipendenti.

La risposta miliardaria alla pandemia con il Next Generation EU
L’altro grosso progetto legislativo che ha approvato il Parlamento Europeo nella legislatura che si è appena chiusa è il Next Generation EU, il grande piano di investimenti da 807 miliardi di euro complessivi in risposta alla crisi economica che era stata innescata dalla pandemia, un terzo dei quali è stato vincolato a progetti coerenti con gli obiettivi climatici dell’Unione Europea. Il Next Generation EU conteneva poi il Recovery and Resilience Facility, il grande fondo da 750 miliardi (diventati poi 648 miliardi per via di alcuni ricalcoli) che avrebbe poi finanziato tutti quei piani nazionali di spesa pubblica e investimenti, e che in Italia è stato chiamato Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza.

Il Next Generation EU è stato un piano storico perché approvato in risposta a un evento straordinario come la pandemia, ma anche per come fu finanziato: per la prima volta nella storia dell’Unione gli stati membri emisero titoli di stato condivisi per raccogliere denaro sui mercati finanziari. In estrema sintesi si indebitarono tutti insieme, facendo così cadere uno dei grossi limiti della politica economica europea, che era proprio l’assenza di strumenti di debito comune. Buona parte degli economisti li ritiene assai importanti per la stabilità di un’unione di paesi che condividono le politiche economiche e la moneta, ma storicamente sono sempre stati assai osteggiati dai paesi europei meno indebitati e più prudenti nella gestione dei soldi pubblici, che non volevano farsi carico anche dei debiti dei paesi meno equilibrati nella spesa e nel debito pubblico (i quali al contrario erano molto favorevoli).

I negoziati di allora furono molto complessi. Fu difficile trovare una sintesi tra le posizioni molto diverse dei diversi paesi europei: a partire da una prima proposta della Commissione ci furono diversi vertici di capi di stato e di governo che durarono notti intere e che si chiusero con un nulla di fatto. Fu trovato infine un accordo politico a luglio del 2020, e ci fu poi l’approvazione definitiva di Parlamento Europeo a novembre e Consiglio dell’Unione Europea a dicembre.

Allora si pensava che fosse caduto una volta per tutte lo stigma del debito comune e che quello del Recovery Fund sarebbe potuto diventare un modello per il futuro. Nel 2026 i piani nazionali legati al Recovery Fund dovranno esaurirsi, ma non sembrerebbero esserci più i presupposti politici ed economici di allora per replicarne il modello.

Oggi il contesto politico è molto diverso e sono più i paesi contrari di quelli favorevoli a replicare il modello del Recovery Fund nel complesso sistema dei fondi europei, che vengono attinti dal cosiddetto bilancio pluriennale dell’Unione Europea. In sostanza, sono soldi che gli stati membri versano all’Unione – circa l’1 per cento del proprio PIL – affinché le istituzioni comunitarie possano redistribuirli con criteri autonomi. Il bilancio pluriennale è valido per sette anni: quello attualmente in vigore è stato avviato nel 2021 e scadrà nel 2027.

La proposta per il prossimo bilancio sarà uno dei primi grossi compiti della nuova Commissione, che se spostata effettivamente più a destra difficilmente avanzerà un nuovo progetto di indebitamento comune: i partiti di destra sono storicamente più orientati al rigore nei conti pubblici, e scettici riguardo alla necessità di grossi piani di investimenti e spesa pubblica. La portata del Recovery Fund si ridurrebbe quindi alla sola gestione dell’emergenza pandemica, senza aver davvero rivoluzionato i meccanismi della politica economica europea.

– Leggi anche: Perché sarà difficile immaginare un nuovo Recovery Fund

Dopo anni è stato finalmente riformato l’odiato Patto di Stabilità
Durante la legislatura che si sta per concludere è stata anche approvata la riforma del Patto di Stabilità e Crescita, l’insieme di complesse regole sui bilanci degli stati che servono a far sì che ciascun paese tenga i conti pubblici in ordine e non faccia troppo ricorso al debito, in modo da evitare problemi che possano ricadere sul resto dell’Unione.

Le regole erano state sospese nella primavera del 2020 a causa della pandemia da coronavirus, per dare modo ai paesi di spendere miliardi di euro in aiuti ai propri cittadini senza troppi vincoli. Poi però non erano state reintrodotte, anche a causa dell’inizio della guerra in Ucraina e della conseguente crisi energetica. Il Patto di Stabilità sarebbe dovuto tornare in vigore a partire dal 2024, ma da tempo si discuteva della necessità di riformarlo al di là delle emergenze, perché considerato eccessivamente rigido.

In estrema sintesi la riforma prevede una semplificazione delle regole, trattamenti diversi a seconda della condizione economica “di partenza” dei paesi e un rafforzamento delle procedure di infrazione. Rimangono invariati i cosiddetti parametri di Maastricht, previsti anche dalla precedente versione del Patto ma particolarmente discussi: gli stati membri dovranno tendere ad avere un debito pubblico inferiore al 60 per cento del prodotto interno lordo (PIL), e il rapporto tra deficit (l’eccesso di spesa annuo rispetto alle entrate) e PIL non dovrà superare il 3 per cento. La riforma permette però agli stati con un rapporto debito/PIL particolarmente alto (come l’Italia) di concordare con le autorità europee dei piani di spesa individuali della durata di quattro anni – quindi con dei margini da negoziare, e non durissimi già in partenza – prorogabili fino a sette anni, che permettano di ridurlo e rimettersi in linea con gli standard europei.

È stata approvata in via definitiva dal Parlamento Europeo ad aprile di quest’anno, dopo lunghe e laboriose negoziazioni tra tutti i paesi membri. Il voto si è tenuto neanche due mesi prima delle elezioni europee, e questo ha creato una votazione un po’ anomala da parte dei parlamentari italiani: quasi la totalità non ha votato a favore della riforma del Patto di Stabilità e Crescita. La maggior parte si è astenuta e il Movimento 5 Stelle ha votato contro. Nessun partito italiano, insomma, ha voluto “intestarsi” dal punto di vista politico l’approvazione della riforma. E questo perché, nonostante siano norme considerate sulla carta più morbide rispetto al passato, non sono mai state applicate e quindi non è chiaro se in futuro potrebbero danneggiare o avvantaggiare l’Italia. Molto dipenderà anche da come sceglierà di interpretarle la nuova Commissione Europea, che si insedierà in estate dopo le elezioni europee (spetta infatti alla Commissione il compito di sorvegliare le politiche di bilancio dei governi nazionali). Nel dubbio, nessun partito ha voluto schierarsi a favore.

Le riforme in campo tecnologico, dalle piattaforme ai chip
Insieme al clima l’altro grosso tema su cui si è dedicata gran parte dello sforzo legislativo del Parlamento Europeo uscente è stato quello tecnologico. Il settore è stato impattato notevolmente sia dal punto di vista di nuovi vincoli introdotti per le aziende del settore che di ampi investimenti previsti dall’Unione.

Nell’ultima legislatura è stato approvato per esempio l’AI Act, la prima legge al mondo per regolamentare lo sviluppo e l’utilizzo dei sistemi di intelligenza artificiale. L’obiettivo della legge è indicare le modalità con cui è consentito usare i sistemi di intelligenza artificiale per tutelare la privacy e gli altri diritti dei cittadini europei. Il testo copre diversi ambiti e applicazioni dell’AI, dai sistemi per le nuove assunzioni di personale nelle aziende agli algoritmi che fanno funzionare le automobili a guida autonoma, passando per il riconoscimento facciale da parte delle forze dell’ordine e la diffusione della disinformazione online.

Sono state introdotte poi nuove regole particolarmente innovative per le aziende del settore digitale, contenute in due direttive: il Digital Services Act (DSA) e il Digital Markets Act (DMA).

Il DSA aggiorna una direttiva sull’e-commerce di circa vent’anni fa e regola l’attività delle piattaforme che fanno da intermediarie tra aziende che offrono prodotti, servizi o contenuti e gli utenti che ne fanno uso. Si applica a tutte le aziende che operano online ma è particolarmente rigida nei confronti delle piattaforme con oltre 45 milioni di utenti attivi nell’Unione Europea: si tratta in tutto di una ventina di società tra cui Google, Apple, Meta (quella di Facebook), TikTok e Twitter (ma non Telegram).

La direttiva chiede che queste aziende siano più trasparenti sui loro dati e algoritmi, oltre che sulle loro attività, e più attente nel moderare, filtrare, bloccare o rimuovere contenuti illegali o potenzialmente pericolosi. Il regolamento prevede tempi rapidi per la rimozione di contenuti e l’obbligo per le aziende di sospendere gli utenti che abbiano violato più volte il regolamento. Per verificare le attività delle aziende, il DSA prevede controlli annuali e, nel caso di infrazioni ripetute, sanzioni che possono arrivare fino a un massimo del 6 per cento del fatturato annuo.

Il DMA invece riguarda le storture dei meccanismi del mercato digitale, e prevede la limitazione del monopolio dei cosiddetti gatekeeper (letteralmente “custodi del cancello”), cioè le piattaforme che godono di una posizione di monopolio e che possono impedire o contrastare l’ingresso di nuove aziende in un determinato settore che può essere quello dei social network, del cloud computing, della ricerca online, della messaggistica, dello streaming video o altri. L’obiettivo è evitare comportamenti anticompetitivi: per esempio i gatekeeper non potranno favorire in nessun modo i propri servizi a scapito di quelli della concorrenza e quelli che gestiscono sistemi operativi dovranno consentire agli utenti di cancellare le app preinstallate. Gli e-commerce dovranno inoltre condividere con venditori terzi che usano la piattaforma i dati generati dalle loro attività.

Sia l’AI Act che il DSA e il DMA, per quanto innovativi e all’avanguardia, sono solo l’inizio di una regolamentazione più complessa di un settore che cambia costantemente e che crea dinamiche nuove da gestire. Non è chiaro come procederà la normativa nei prossimi anni, ed è probabile che una maggioranza di destra e conservatrice sarà meno sensibile a questi temi, per i quali potrebbero dunque non esserci sviluppi significativi.

Infine in questa legislatura è stato approvato lo European Chips Act, un piano che prevede investimenti complessivi nel settore dei microchip per 43 miliardi di euro, divisi fra finanziamenti pubblici e investimenti privati, oltre che la costituzione di un fondo specifico per gli investimenti e un allentamento delle regole per gli aiuti di stato da parte dei paesi membri. L’obiettivo del piano è arrivare al 2030 con una quota del 20 per cento di produzione mondiale di microchip (attualmente la produzione di microchip dell’Unione Europea è circa il 9 per cento di quella mondiale).

I microchip (o semplicemente chip) sono componenti fondamentali in moltissimi prodotti, non soltanto di elettronica pura, come computer e smartphone, ma anche per praticamente tutti gli elettrodomestici, le auto, e così via. Con la pandemia il mondo si è ritrovato per la prima volta a fare i conti con una grave carenza di microchip, in parte a causa degli effetti economici della pandemia e in parte a causa della crisi dei commerci globali. L’Europa si è trovata in particolare difficoltà, perché per l’approvvigionamento dei chip dipende quasi completamente dall’estero: il piano proposto dalla Commissione Europea servirà proprio a rafforzare la produzione interna, in modo da diminuire la dipendenza soprattutto dai paesi asiatici.

La riforma del regolamento di Dublino e la legge sulla violenza sulle donne
Gli atti legislativi raccontati fin qui avranno conseguenze estremamente concrete sulla vita di europee ed europei. Durante la scorsa legislatura ci sono stati poi altri provvedimenti altrettanto importanti ma con una rilevanza perlopiù valoriale, oppure che non cambieranno moltissimo le norme esistenti.

Il primo è il Nuovo Patto su migrazione e asilo, entrato in vigore a maggio: è un importante insieme di riforme pensate per modificare in parte il cosiddetto “regolamento di Dublino”, la principale norma europea che regola la gestione di migranti e richiedenti asilo. È stato frutto di un negoziato durato quattro anni, in cui lo stesso Parlamento e i governi dell’Unione avevano trovato un accordo di massima lo scorso dicembre. L’accordo è stato però ritenuto da gran parte degli esperti poco ambizioso nei contenuti: una microriforma, che peraltro limita ancora di più l’accoglienza delle persone migranti che arrivano in Europa.

Soprattutto per coloro che arrivano dai paesi considerati “sicuri” (“sicuri” secondo criteri piuttosto controversi, stabiliti dagli stessi paesi d’accoglienza): sono le persone che già oggi hanno meno possibilità che la loro richiesta di protezione internazionale sia approvata. Il nuovo patto prevede misure che renderanno più agevole, in teoria, espellerle e rimandarle nei loro paesi d’origine.

La parte meno ambiziosa riguarda soprattutto quelle regole che dovevano servire a risolvere una delle grandi questioni legate alla migrazione nell’Unione, ossia la gestione dei richiedenti asilo tra paesi membri: oggi grava molto di più sui paesi di arrivo (quindi principalmente i paesi dell’Europa meridionale, tra cui l’Italia) che su quelli interni, perché vincola i paesi di frontiera a ospitare i richiedenti asilo che mettono piede sul proprio territorio e a esaminare la loro richiesta di asilo.

Il testo introduce effettivamente un meccanismo di trasferimento dei richiedenti asilo tra gli stati, ma è molto limitato perché volontario, non obbligatorio: un punto particolarmente richiesto dai paesi dell’Est storicamente ostili alle migrazioni dal Nord Africa e dal Medio Oriente. La riforma prevede infatti che quando un paese dichiarerà di essere “sotto pressione” gli altri stati membri potranno scegliere se accettare o meno un certo numero di migranti, e se non lo fanno dovranno decidere se pagare una quota a un fondo comune dell’Unione Europea oppure fornire supporto operativo, inviando al paese personale o fornendo attrezzature tecniche.

Infine durante l’ultima legislatura è stata approvata la prima legge europea contro la violenza di genere, il primo strumento adottato dall’Unione per dotarsi di standard comuni. La sua formulazione ha richiesto mesi di negoziati, e ha comportato grandi compromessi: manca per esempio una definizione comune di “stupro”, questione che durante le negoziazioni era stata molto discussa e contestata. Alcuni paesi, tra cui l’Italia e la Grecia, avevano chiesto che la direttiva la includesse; altri, come la Francia e la Germania, si erano opposti sostenendo che non rientrasse nelle competenze dell’Unione.

La direttiva è comunque stata generalmente accolta come un passo avanti sui diritti delle donne all’interno dell’Unione, e prevede che gli Stati membri rendano reato atti come le mutilazioni genitali femminili, i matrimoni forzati e varie forme di violenza informatica, come la condivisione non consensuale di immagini intime, lo stalking online, le molestie online e l’istigazione alla violenza online. Stabilisce pene minime che vanno da un anno a cinque anni di reclusione per gli atti di cui prevede la criminalizzazione, indicando anche una serie di aggravanti nei casi in cui le violenze riguardino minori, coniugi, partner, ex coniugi o ex partner, ma anche personaggi pubblici, giornaliste o attiviste per i diritti umani. Prevede anche che diventi più semplice denunciare per chi subisce violenza domestica e introduce norme più dettagliate sull’assistenza e sulla protezione che le autorità degli Stati membri devono fornire a chi subisce violenza.

Gli Stati membri dovranno anche adottare misure per prevenire la vittimizzazione secondaria, che avviene quando la donna che ha subìto violenza (una violenza che si potrebbe definire “primaria”) rivive delle condizioni traumatiche o subisce altra violenza da parte di soggetti che non sono gli autori della violenza primaria. A questo proposito la direttiva prevede che, nei procedimenti penali, siano ammesse come prove atti relativi alle abitudini sessuali della persona che ha subìto violenza solo se sono pertinenti e necessari al procedimento penale stesso.

Le direttive europee però lasciano grande margine di interpretazione agli stati su come applicare il senso e lo spirito del testo: è quindi del tutto possibile che diversi paesi la ignorino anche per anni, dato che non c’è un vero meccanismo che li obblighi ad applicarla, oppure approvino misure di facciata per rispettare i paletti stabiliti dal testo.

– Leggi anche: I dubbi sull’accordo europeo sulla legge contro la violenza di genere