La dura vita di un governo che fa misure elettorali senza avere soldi

Quello attuale ci sta provando con “social card”, norme sulla sanità e bonus da 100 euro, mentre in passato altri puntarono su riforme più strutturali

Il ministro dell'Agricoltura Francesco Lollobrigida presenta in conferenza stampa la carta "Dedicata a te", il 6 giugno 2024 (Roberto Monaldo/LaPresse)
Il ministro dell'Agricoltura Francesco Lollobrigida presenta in conferenza stampa la carta "Dedicata a te", il 6 giugno 2024 (Roberto Monaldo/LaPresse)
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È ormai una tradizione che i governi approvino provvedimenti dal forte impatto mediatico a ridosso di un’elezione importante. L’obiettivo dei presidenti del Consiglio o dei ministri è proprio annunciarli poco prima del voto, nella convinzione che serva a procurarsi più consensi. Solo guardando alle europee, e senza tornare troppo indietro nel tempo, è successo nelle ultime due elezioni: nel 2014, con il famoso bonus da 80 euro del governo di Matteo Renzi, e nel 2019, con l’avvio del programma del reddito di cittadinanza voluto dal Movimento 5 Stelle, in quel momento al governo insieme alla Lega.

Giorgia Meloni ha rispettato questa consuetudine, cercando di approvare in tempi utili per le europee di sabato e domenica provvedimenti per il sostegno alle fasce meno ricche della popolazione. La cosa che è cambiata rispetto al passato è che stavolta lo stato piuttosto disastrato dei conti pubblici e l’esigenza di tenere sotto controllo la spesa hanno costretto il governo solo ad annunciarle, le norme, rimandando a un futuro più o meno prossimo la loro effettiva attuazione.

L’ultimo caso è la social card “Dedicata a te”, cioè la carta per acquistare beni di prima necessità. Era stata già introdotta lo scorso anno, e ora viene rinnovata. Il rinnovo è stato annunciato dal ministro dell’Agricoltura Francesco Lollobrigida, durante una conferenza stampa convocata a Palazzo Chigi giovedì alla quale hanno partecipato, seduti in platea nei posti tradizionalmente riservati ai giornalisti, anche vari parlamentari di Fratelli d’Italia, che hanno subito condiviso sui loro canali social l’iniziativa.

Rispetto a quella distribuita lo scorso anno, la dotazione della nuova carta per gli acquisti salirà da 459 euro a 500 euro, garantiti tutti in un’unica tranche, mentre nel 2023 erano stati messi a disposizione 382 euro a luglio, incrementati di ulteriori 77 euro a dicembre. La carta sarà destinata a un numero maggiore di famiglie: lo scorso anno erano 1,2 milioni i nuclei beneficiari, quest’anno saranno almeno 1,3 milioni, sempre però con gli stessi parametri: famiglie che abbiano almeno tre componenti residenti in Italia, con un ISEE (indicatore della situazione economica familiare) non superiore a 15.000 euro e che non usufruiscano già di altri sussidi contro la povertà. Di conseguenza aumenta anche la spesa complessiva: il fondo per finanziare la social card sale da 520 a circa 676 milioni di euro.

“Dedicata a te”, però, sarà disponibile solo a partire da settembre.

Non c’è quindi un vero motivo per annunciare questa misura adesso, poche ore prima delle elezioni, se non il fine elettorale. Infatti il decreto interministeriale che serve per dare attuazione al provvedimento dovrà essere pubblicato in Gazzetta Ufficiale; poi l’INPS, cioè l’Istituto nazionale di previdenza sociale, dovrà fare le liste con tutte le famiglie che rispondono ai parametri indicati e che dunque possono usufruire del sostegno, dopodiché i comuni avranno venti giorni per vagliare quegli elenchi e individuare eventuali errori, infine interverrà Poste, la società pubblica che si occuperà di produrre materialmente le carte.

Nel 2023 il decreto interministeriale era stato fatto il 18 aprile, sfruttando un fondo predisposto nella legge di bilancio del dicembre precedente. Poi l’annuncio di “Dedicata a te” era stato fatto l’11 luglio in previsione dell’avvio della distribuzione delle card a partire dal 24 luglio. Stavolta il decreto ancora non c’è, e per la messa in circolo delle card si dovranno attendere quasi tre mesi. Il ministro Lollobrigida ha detto che la decisione di anticipare l’annuncio è stata motivata dal fatto che sul quotidiano La Stampa il 30 maggio scorso era stato pubblicato un articolo che dava conto delle difficoltà e delle lungaggini connesse al rinnovo della carta, e questo stava generando dubbi e timori tra «l’utenza in difficoltà», cioè tra i potenziali beneficiari della carta.

È andata in modo simile con l’annuncio di un altro bonus, quello da 100 euro per i lavoratori con almeno un coniuge e un figlio a carico, e un reddito annuo registrato nel 2024 di non più di 28.000 euro. L’approvazione di questo provvedimento il 30 aprile scorso, inserito in un più generale decreto legislativo sulla politica fiscale, era stata accompagnata da un po’ di clamore. Nei giorni precedenti il governo aveva fatto circolare voci sul fatto che il bonus sarebbe stato effettivo subito, o al più tardi a partire da luglio; c’era stata poi anche un po’ d’incertezza sul fatto che sarebbe stato un bonus una tantum, cioè concesso una sola volta, oppure rinnovabile nel corso dell’anno. Il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti, sempre molto preoccupato per la tenuta dei conti pubblici, aveva a sua volta lasciato intendere la sua perplessità a proposito di interventi troppo sostanziosi che abbiano un costo non sostenibile per le finanze dello Stato.

Alla fine, il provvedimento finale è venuto fuori molto ridimensionato rispetto alle prime ipotesi. Il bonus sarà infatti una tantum, come le social card; sarà lordo, cioè sottoposto alle ritenute fiscali e dunque nella maggior parte dei casi di un importo effettivo non superiore ai 77 euro; e sarà erogato solo in rapporto ai mesi lavorati, pertanto un lavoratore che nel 2024 è stato occupato solo da settembre a fine anno otterrà per esempio un terzo del bonus, cioè una trentina di euro. Ma soprattutto, il bonus sarà erogato a partire da gennaio 2025, e questo perché nel bilancio dell’anno in corso non è stato possibile trovare i circa 100 milioni di euro necessari per finanziarlo.

E ancora, il percorso è stato simile anche per quanto riguarda il provvedimento sulle liste d’attesa negli ospedali.

Il ministro della Salute Orazio Schillaci ci stava lavorando da tempo, come chiesto da Meloni. Tutte le misure proposte che avessero un po’ di ambizione, però, sono state più o meno bruscamente respinte dal ministero dell’Economia, sempre per la stessa ragione: costavano troppo.

Per questa ragione Schillaci avrebbe voluto rimandare, ma la presidente del Consiglio ha preteso l’approvazione di una misura sulla sanità, uno dei temi su cui viene più insistentemente presa di mira dalle opposizioni. La soluzione un po’ strana a questo problema è stata che in uno stesso Consiglio dei ministri, martedì scorso, sono stati approvati due diversi provvedimenti: un decreto-legge, che dovrà dunque essere convertito dal parlamento entro sessanta giorni, in cui sono stati messi vari interventi per smaltire le file d’attesa resi piuttosto inconsistenti dalla mancanza di finanziamenti adeguati; e un disegno di legge nel quale sono state inserite altre misure che potranno avere maggiore copertura di spesa, ma che seguirà il percorso classico dei disegni di legge ordinari, perciò verrà discusso con tutta calma e senza scadenze dal parlamento.

Il risultato è che, a fronte degli annunci fatti dal ministro Schillaci, l’unica misura realmente sostenuta da un budget riguarda la detassazione degli straordinari: i medici che decideranno di lavorare oltre l’orario stabilito per fare visite e controlli si vedranno gli straordinari tassati solo al 15 per cento, anziché secondo l’aliquota fiscale corrispondente. L’intervento costerà al massimo 250 milioni.

– Leggi anche: Le lunghe liste di attesa negli ospedali, spiegate

Al di là dei giudizi di merito sui singoli provvedimenti, sia il primo governo di Giuseppe Conte nel 2019 sia quello di Renzi nel 2014 avevano approvato misure “elettorali” ben più solide.

Il presidente del Consiglio Matteo Renzi presenta l’introduzione del bonus degli 80 euro insieme al ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan, il 18 aprile 2014 (ANGELO CARCONI/ANSA)

Nel 2014 Renzi vinse le iniziali resistenze del ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan e fece in modo che il bonus da lui annunciato in campagna elettorale entrasse in vigore a partire da maggio, cioè proprio il mese in cui si sarebbero tenute le elezioni europee (il Partito Democratico ottenne poi il 40,8 per cento dei voti). Il bonus fu subito effettivo ed ebbe una portata notevole: era una detrazione fiscale sull’IRPEF (l’imposta sul reddito delle persone fisiche) di tutti i lavoratori dipendenti con un reddito annuo tra gli 8 e i 24mila euro, che dalla busta paga di quel maggio in poi ebbero ogni mese 80 euro in più accreditati. Il costo totale della misura fu di circa 7 miliardi, entrò a regime in maniera stabile nel sistema fiscale italiano, e ne hanno beneficiato negli anni oltre 12 milioni di lavoratori.

Il reddito di cittadinanza fu una misura ancora più imponente, per certi versi.

Era stato predisposto dalla legge di bilancio nel dicembre del 2018, e poi approvato il 17 gennaio del 2019 tramite il cosiddetto “decretone”, che stanziava anche i fondi per Quota 100, la misura per i pensionamenti anticipati voluta dalla Lega di Matteo Salvini. Per fare in modo che il sussidio arrivasse effettivamente ai beneficiari designati, restava però da rendere operativa una macchina burocratica e amministrativa molto complessa. Con difficoltà che avrebbero generato poi alcune storture, alla fine il governo riuscì comunque ad attivare le procedure per l’erogazione del reddito di cittadinanza nell’aprile di quell’anno, il mese prima delle elezioni europee nelle quali poi in realtà il M5S ottenne un risultato deludente (17 per cento). La misura costò quasi 6 miliardi nel 2018, e oltre 7,5 miliardi a regime negli anni seguenti fino alla sua soppressione definitiva, decisa dal governo Meloni a partire dal gennaio del 2024. Ne hanno beneficiato circa 3,5 milioni di persone all’anno in media.

Stavolta l’attuale governo ha dovuto fare i conti con la necessità di evitare quasi del tutto aumenti di spesa, visto che non ci sono soldi. Anche cinque o dieci anni fa non era raccomandabile fare nuovo debito, visto che l’Italia da decenni ha uno dei più cospicui debiti pubblici dell’Occidente. Ma i provvedimenti del 2014 e del 2019 corrispondevano bene o male a misure fondamentali su cui i governi avevano deciso di puntare, dunque allo scopo erano stati riservati finanziamenti decisi in anticipo e con un minimo di programmazione.

Stavolta il governo di Meloni ha cercato di mettere insieme diverse norme più o meno marginali e dall’impatto limitato, che non costituivano i fondamenti del programma di governo. Il tutto in un periodo complicato per le finanze italiane: il governo ha infatti ereditato l’enorme spesa degli incentivi per ristrutturare gli edifici, in particolare il Superbonus 110%, e inoltre dovrà trovare nei prossimi mesi circa 20 miliardi per rinnovare nel 2025 le agevolazioni fiscali introdotte per il solo 2024. Finora si è rifiutato di indicare come intende fare nei documenti ufficiali, rimandando questa decisione a dopo le elezioni europee.

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