Le grandi aspettative sul taglio dei tassi di interesse da parte della BCE
Sono fermi ai massimi da settembre, e gran parte degli analisti si aspetta che ne annuncerà una prima riduzione nella riunione di domani: è un segno che nell'Eurozona il problema dell'inflazione sembra risolto e la crescita economica normalizzata
Giovedì ci sarà la periodica riunione di politica monetaria della Banca Centrale Europea (BCE), in cui gran parte degli analisti si aspetta che verrà decisa la prima riduzione dei tassi di interesse da cinque anni. E che venga fatto prima ancora della FED, la Federal Reserve, la banca centrale statunitense che fa da riferimento per le banche centrali di tutto il mondo. Dopo anni di tassi a zero la BCE aveva iniziato ad aumentarli nell’estate del 2022, per contrastare il fortissimo aumento dei prezzi innescato dalla crisi energetica dopo l’inizio della guerra in Ucraina e da alcune conseguenze economiche della pandemia, quando l’economia cresceva a un ritmo troppo alto rispetto alla capacità produttiva: da allora li ha aumentati di 4 punti percentuali in pochissimo tempo e da settembre sono fermi al loro massimo storico.
Oggi nell’Eurozona il problema dell’inflazione sembra più o meno risolto, la crescita economica si è normalizzata e anzi dallo scorso anno è stata abbastanza modesta: insomma da tempo è praticamente certo che la BCE deciderà uno o più cali dei tassi entro la fine dell’anno. Quello che però era meno certo è che l’avrebbe eventualmente fatto prima della FED: gli Stati Uniti avevano iniziato ben prima il processo di aumento dei tassi di interesse e fino alla scorsa estate sembravano più avanti nella risoluzione del problema dell’aumento dei prezzi, ma da allora la discesa dell’inflazione è diventata incostante. Il che, unito a un’economia che va benissimo e macina record su record, da mesi sta spostando sempre più in avanti nel tempo il momento in cui ci saranno le condizioni per la FED di annunciare una riduzione dei tassi.
Ad aprile nell’Eurozona i prezzi sono aumentati del 2,4 per cento rispetto ad aprile dello scorso anno, un dato stabile rispetto al mese prima; negli Stati Uniti l’inflazione è stata del 3,4 per cento, in leggero calo rispetto al mese prima, quando però era risultata in aumento. Nell’Eurozona l’inflazione è vicina all’obiettivo della BCE, che da statuto cerca di mantenerla sempre intorno al 2 per cento. Anche gli Stati Uniti hanno lo stesso obiettivo, ma insieme alla tendenza generale dei prezzi seguono anche quella della disoccupazione. È evidente che l’Eurozona è più vicina all’obiettivo degli Stati Uniti, e non è così improbabile che la BCE effettivamente annunci un calo dei tassi di interesse già nella riunione di giovedì. Da tempo la presidente Christine Lagarde e altri esponenti della BCE dicono che erano previste una o più riduzioni entro la fine di quest’anno.
Esattamente come quando iniziò il problema dell’aumento dei prezzi, quando gli Stati Uniti e l’Eurozona presentavano due tipi di inflazione molto diversi, uno guidato da un’economia che andava troppo bene e l’altro dalla crescita del prezzo dell’energia, anche oggi le rispettive economie si trovano in momenti assai diversi. Negli Stati Uniti il Prodotto Interno Lordo (PIL), che misura quanto reddito produce un paese, sta crescendo a un ritmo molto sostenuto da tempo: nel primo trimestre di quest’anno il PIL è cresciuto del 3,4 per cento rispetto allo stesso trimestre dell’anno precedente e la disoccupazione è ai minimi storici, del 3,9 per cento.
Questo suggerisce che negli Stati Uniti l’economia non si è ancora normalizzata dalla pandemia, e che ci sono ancora probabilità che tutte quelle dinamiche che portano all’aumento dei prezzi non siano esaurite: semplificando, se l’economia cresce molto, le imprese assumono, aumentano gli stipendi, i lavoratori beneficiano di un reddito maggiore, aumentano i consumi, e da ultimo aumentano anche i prezzi.
Al contrario l’Eurozona ha sfiorato la recessione lo scorso anno, così come la Germania, la prima economia europea che un tempo era addirittura definita la “locomotiva d’Europa”. Nel primo trimestre dell’anno il PIL dell’Eurozona è cresciuto dello 0,3 per cento, dopo cinque trimestri di sostanziale stagnazione in cui si spostava da poco sopra a poco sotto lo zero, e il settore manifatturiero e l’industria sono in contrazione.
L’economia europea ha dunque molto risentito dell’aumento dei tassi di interesse, che per esempio hanno rallentato le compravendite immobiliari attraverso l’aumento del costo dei mutui, o che hanno fermato gli investimenti perché era più costoso indebitarsi. Ma ha risentito anche del generale clima di incertezza legato alla guerra in Ucraina, che comunque ha cambiato strutturalmente il mercato dell’energia rendendola di fatto più cara di un tempo, e alla guerra nella Striscia di Gaza, che ha complicato notevolmente tutti i rapporti con il Medio Oriente.
Il rischio di non abbassare i tassi di interesse è che le cose potrebbero peggiorare ulteriormente. Ma se anche fosse annunciata una riduzione i tassi resterebbero comunque alti: adesso i tre di riferimento sono in un intervallo tra il 4 e il 4,5 per cento, e la maggior parte degli analisti si aspetta che realisticamente entro l’anno si ridurranno di soli 0,5 punti percentuali. Rimarrebbero quindi a un livello che gli economisti giudicano ancora come “restrittivo”, cioè che non rappresenterebbero uno stimolo per far crescere l’economia.
I banchieri centrali non hanno solo lo strumento dei tassi di interesse per influenzare l’andamento dei prezzi, ma sempre più usano anche i loro discorsi, che con parole precise e calibrate possono indirizzare le aspettative degli operatori economici: per esempio il solo fatto che la presidente Lagarde dica da tempo che entro l’anno probabilmente sarà annunciata una riduzione dei tassi ha già fatto scendere per esempio i tassi sui mutui.
Molti analisti fanno comunque notare che potrebbe essere un azzardo per la BCE ridurre i tassi di interesse prima che lo faccia anche la FED. Creerebbe quello che in economia si chiama “decoupling”, disaccoppiamento, perché significherebbe che le due più grandi e influenti banche centrali al mondo stanno andando in direzioni diverse, un segnale contrastante per gli osservatori.
Una conseguenza potrebbe essere, per esempio, un eccessivo indebolimento dell’euro rispetto al dollaro: se la BCE inizia a ridurre i tassi rende più conveniente gli investimenti negli Stati Uniti, dove i tassi sono più alti; gli operatori finanziari dovrebbero comprare molti dollari per investire lì, facendo aumentare così il valore del dollaro a scapito di quello dell’euro. Un eccessivo apprezzamento del dollaro è un problema enorme per esempio per tutti i paesi emergenti, il cui funzionamento dell’economia si fonda sull’uso della valuta statunitense.
Non è comunque così inusuale che le due banche centrali seguano direzioni diverse: successe per esempio proprio all’inizio del 2022, quando negli Stati Uniti il problema dell’inflazione si stava già manifestando e la FED iniziò ad aumentare i tassi di interesse sei mesi prima rispetto a quando lo avrebbe poi deciso la BCE.
Questo però non significa che la BCE potrà totalmente ignorare cosa farà la FED nei prossimi mesi: se anche dovesse già decidere di impostare una riduzione dei tassi, non potrà farlo a lungo senza che segua anche la FED. Il rischio è che si creino alcune distorsioni che potrebbero addirittura essere controproducenti: come detto uno dei rischi è che l’euro perda valore rispetto al dollaro, e se questo persisterà per molto tempo potrebbero crearsi alcuni squilibri sui mercati finanziari e nel commercio internazionale.