Il senso dell’orientamento non è tanto una qualità innata
Ne parliamo spesso come di qualcosa che si ha o non si ha, ma è soprattutto una questione di ambiente ed esperienza, e si può migliorare
L’esperienza di perdersi e di non riuscire a tornare sui propri passi è piuttosto comune, soprattutto quando ci si muove in spazi privi di punti di riferimento facilmente riconoscibili o in luoghi mai visitati prima. Ma per alcune persone è un’esperienza più comune che per altre. E di quelle a cui proprio capita di frequente, di perdersi o di non saper indicare il punto da cui provengono, diciamo che non hanno il senso dell’orientamento, descrivendolo di solito in termini assoluti: come una qualità innata, che c’è o non c’è.
Diverse ricerche scientifiche, perlopiù nel campo della psicologia dello sviluppo e delle scienze cognitive, hanno cercato di misurare la variabilità individuale della capacità di orientamento nello spazio. Uno dei metodi utilizzati è chiedere alle persone di indicare in che direzione si trovi un certo luogo nascosto alla loro vista, e poi misurare il livello di precisione della risposta in termini di distanza angolare tra il punto indicato e quello esatto del luogo rispetto alla posizione della persona. Un altro metodo prevede un compito ancora più difficile: immaginare di essere in un certo luogo e, da quella prospettiva, rispondere alla richiesta di indicarne un terzo.
Le informazioni ricavate nel tempo attraverso questi metodi sperimentali mostrano che effettivamente ci sono persone che se la cavano molto meglio di altre, ma individuare le ragioni della disparità è un’operazione più complessa. Diversi studi sull’evoluzione individuale della capacità di orientamento nello spazio suggeriscono tuttavia che sia fortemente influenzata da fattori ambientali, abitudini e comportamenti, più che da particolari predisposizioni genetiche. È un’ipotesi che è stato possibile formulare in tempi relativamente recenti anche sulla base di migliaia e in alcuni casi milioni di dati raccolti tramite tecnologie come la realtà virtuale e il tracciamento GPS.
L’influenza della genetica è stata in particolare oggetto di uno studio pubblicato nel 2020 sulla rivista npj Science of Learning e condotto da un gruppo di ricerca guidato dalle psicologhe dello sviluppo Margherita Malanchini e Kaili Rimfeld, ricercatrici della Queen Mary University e del King’s College a Londra. Il gruppo confrontò la capacità di orientamento in uno spazio virtuale mostrata da 2.660 gemelli monozigoti e dizigoti, di età compresa tra 19 e 22 anni, e scoprì che l’appartenenza alla stessa famiglia era un fattore presente ma trascurabile. La variabilità della capacità dipendeva molto di più dai «fattori ambientali non condivisi», cioè dalle esperienze uniche accumulate da ciascuna persona nel corso della vita, e che quindi non contribuiscono alle somiglianze tra gemelli.
Risultati in parte simili furono ottenuti attraverso un esperimento su larga scala che coinvolse 3,9 milioni di persone nel mondo, descritto in un articolo pubblicato nel 2021 sulla rivista Topics in Cognitive Science. Il campione fu reclutato tra gli utenti di un videogioco per dispositivi mobili, Sea Hero Quest, sviluppato per motivi di ricerca scientifica nel 2016 dalla società inglese Glitchers in collaborazione con l’University College London, la University of East Anglia, il centro di ricerca nazionale sull’Alzheimer e la società di telecomunicazioni T-Mobile.
Ai partecipanti dell’esperimento fu richiesto di fornire una serie di dati anagrafici e demografici, e alla fine il campione risultò composto da persone provenienti da 63 paesi diversi e di età compresa tra 18 e 99 anni. Il videogioco, che non è più disponibile, consisteva nel navigare a bordo di una barca per raggiungere una serie di checkpoint attraverso un ambiente virtuale. I ricercatori misurarono la capacità di orientamento nello spazio sulla base della distanza totale percorsa da ogni giocatore prima di raggiungere i checkpoint, e anche sulla base della precisione della traiettoria di un razzo che ogni giocatore doveva lanciare dopo alcuni livelli in direzione di quello che riteneva essere il proprio punto di partenza.
I dati raccolti nell’esperimento mostrarono che in generale il senso dell’orientamento peggiorava un po’ dappertutto dai vent’anni in poi. Ma soprattutto mostrarono correlazioni significative tra i punteggi ottenuti dai giocatori e il loro paese e luogo di provenienza, suggerendo che la capacità di orientamento nello spazio sia anche una questione culturale. I partecipanti provenienti da paesi nordici tendevano a ottenere punteggi migliori: un dato spiegato dai ricercatori ipotizzando un’influenza rilevante della familiarità dei paesi scandinavi con esercizi di educazione fisica incentrati sul senso dell’orientamento fin dagli anni della scuola.
La spiegazione appare ulteriormente plausibile se si considerano i risultati sportivi ottenuti dai paesi scandinavi nei campionati mondiali di orienteering, una disciplina nata proprio in quei paesi all’inizio del Novecento. Prevede diversi tipi di gara, anche in mountain bike, ma in generale è una specie di corsa campestre in cui bisogna raggiungere dei checkpoint disseminati in luoghi da percorrere soltanto con l’aiuto di una bussola e di una cartina topografica molto dettagliata.
Dai risultati dell’esperimento emerse anche che le persone che avevano detto di essere cresciute fuori città ottenevano in media risultati migliori rispetto a quelle che erano invece cresciute in città. E c’erano differenze anche all’interno del gruppo “urbano”, spiegabili in termini di ciò che nella scienza delle reti è nota come entropia della rete stradale: gli abitanti di città dalle reti stradali caotiche e irregolari, come molti centri storici in Europa, se la cavavano meglio degli abitanti di città le cui vie formano griglie regolari, come molte grandi città degli Stati Uniti.
Un’altra correlazione nei risultati dell’esperimento sembrò in parte confermare un luogo comune diffuso a proposito del senso dell’orientamento: che gli uomini ne siano dotati più delle donne. I risultati della popolazione maschile erano migliori in tutti i paesi, in linea con altre ricerche, ma il vantaggio era notevolmente variabile da paese a paese, e almeno in parte spiegabile secondo i ricercatori in termini di disuguaglianza di genere. Era infatti quasi inesistente nei paesi nordici, per esempio, mentre era molto ampio in Medio Oriente e nei paesi in cui l’esplorazione autonoma dell’ambiente è per le donne fortemente limitata da restrizioni culturali. I ricercatori riscontrarono una correlazione positiva tra la dimensione dell’effetto del genere nei punteggi e il Gender Gap Index (GGI), un indice delle disuguaglianze di genere nei paesi del mondo fornito dal World Economic Forum.
La maggiore influenza dell’esperienza rispetto ad altri fattori sul senso dell’orientamento emerse anche dalle conclusioni di uno studio del 2022 condotto da un gruppo di antropologi e biologi statunitensi sugli Tsimane, una comunità indigena di agricoltori-raccoglitori dei bassipiani dell’Amazzonia boliviana. Il gruppo applicò a 305 adulti un dispositivo GPS per misurare i loro spostamenti quotidiani per tre giorni consecutivi, e scoprì che le differenze d’età e di genere non erano rilevanti, come invece lo sono in media per molte popolazioni occidentali. La mobilità quotidiana tra gli Tsimane era simile per gli uomini e per le donne, e rimaneva pressoché invariata dai 40 ai 70 anni. In un precedente studio parte dello stesso gruppo aveva scoperto che anche uomini e donne Tsimane tra 6 e 18 anni avevano un ottimo senso dell’orientamento, favorito dall’essere cresciuti in una cultura che li incoraggiava a esplorare la foresta.
In molti paesi industrializzati, cioè contesti profondamente diversi dall’ambiente degli Tsimane, donne e ragazze tendono a essere più caute e attente nell’esplorazione rispetto a uomini e ragazzi, per ragioni perlopiù culturali. E questo non solo riduce la loro esperienza spaziale individuale, ma accresce nervosismo e insicurezza, che interferiscono con la formazione del senso dell’orientamento. Chi si preoccupa per la propria sicurezza personale si orienta male, perché «per essere bravo a orientarti devi essere disposto a esplorare», ha detto a Knowable Magazine David Uttal, uno psicologo della Northwestern University a Evanston, Illinois, che si occupa di ricerca sul senso dell’orientamento.
Secondo Uttal sapersi orientare nello spazio è anche una questione di carattere individuale e di inclinazioni personali verso attività che permettono, durante la crescita e anche dopo, di sviluppare questa capacità. Le persone che invece non sono attratte dall’esplorazione, per carattere o per brutte esperienze passate, finiscono per avere meno opportunità di vagare e di conseguenza un minore senso dell’orientamento. Sono invece considerate pratiche utili a migliorarlo sia l’escursionismo, il ciclismo e le attività all’aria aperta in generale, sia i videogiochi che implicano l’esplorazione di spazi virtuali.
Le attività che migliorano il senso dell’orientamento lo fanno di solito influenzando lo sviluppo di due abilità specifiche in particolare, che distinguono i «bravi navigatori» dai «navigatori imprecisi», secondo uno studio di revisione degli psicologi cognitivi statunitensi Steven Weisberg e Nora Newcombe. Una, più semplice da acquisire, è la capacità di memorizzare punti di riferimento in sequenza lungo un certo percorso. L’altra è la capacità di creare e consultare all’occorrenza mappe mentali dei luoghi visitati: capacità che implica quella di collegare mentalmente punti di riferimento diversi.
Dallo studio di Newcombe e Weisberg emerse che le persone dotate di entrambe le capacità sono in generale più brave anche in alcuni test cognitivi specifici, come quello che richiede di ruotare solo mentalmente e non manualmente due oggetti simili, per indicare se siano uguali o diversi. Sono anche persone che nei test di alcuni fattori della personalità ottengono punteggi tendenzialmente più alti rispetto a tre dimensioni: l’apertura, l’estroversione e la coscienziosità. L’apertura indica la curiosità e l’atteggiamento positivo verso le nuove esperienze. La coscienziosità indica la diligenza e la determinazione nel portare a termine le cose. E l’estroversione indica la tendenza a dirigere più risorse psichiche verso gli oggetti e le circostanze del mondo esterno che verso le considerazioni soggettive e intuitive.
Alcuni esperimenti condotti su persone a cui era richiesto di muoversi in ambienti virtuali suggeriscono che la capacità di orientamento nello spazio sia migliorabile, anche notevolmente, attraverso la pratica. Non è tuttavia chiaro se i miglioramenti mostrati in ambito sperimentale implichino che anche il senso dell’orientamento nel mondo reale sia migliorabile negli stessi termini. Un’idea sostenuta in uno studio pubblicato nel 2020 su Scientific Reports e condotto dalle neuroscienziate Louisa Dahmani e Véronique Bohbot è che l’utilizzo abituale del GPS possa avere un impatto negativo sulle capacità di orientamento.
Dahmani e Bohbot reclutarono 50 giovani adulti con diversi livelli di familiarità con l’utilizzo del GPS alla guida, e chiesero loro di muoversi in spazi virtuali senza poterlo usare. Scoprirono che i partecipanti più abituati a utilizzare il GPS nella guida quotidiana ottenevano punteggi peggiori. Un successivo studio di follow-up condotto tre anni dopo su 13 volontari confermò che le persone che avevano utilizzato di più il GPS nel periodo intermedio avevano peggiorato più degli altri le loro capacità di guida senza GPS in ambiente virtuale.
Secondo Uttal il GPS potrebbe tuttavia fornire indicazioni utili alle persone desiderose di migliorare il senso dell’orientamento. Un modo utile di utilizzarlo con questo obiettivo è prestare attenzione ai punti cardinali indicati sulle mappe, e partire da quelli per provare a costruire delle proprie mappe mentali. Ma esistono comunque differenze individuali molto significative nel modo in cui le persone riescono a creare e utilizzare mappe mentali.
Come scritto dallo psicologo statunitense David Ludden, professore al Georgia Gwinnett College, chi se la cava molto bene a orientarsi nello spazio non dovrebbe pensare che sia facile per chiunque. E allo stesso modo chi si perde con una certa facilità non dovrebbe scoraggiarsi, perché è una cosa che succede a moltissime persone. E se queste persone «riuscissero a smettere di preoccuparsi di perdersi, potrebbero anche scoprire di essere più brave di quanto pensano».