Monfalcone ha scelto lo scontro tra culture
In Friuli Venezia Giulia la città italiana con la maggiore concentrazione di stranieri – tutti regolari – è governata dalla leghista Anna Maria Cisint, che promuove politiche contro le loro abitudini e si è candidata alle europee
di Riccardo Congiu
Ogni giorno alle 5 di mattina in piazzale Dante Fornasir a Monfalcone, in Friuli Venezia Giulia, cominciano ad arrivare centinaia e centinaia di lavoratori che entrano nell’enorme sede di Fincantieri, la grande azienda pubblica italiana specializzata in cantieri navali. Alcuni arrivano a piedi, moltissimi invece in bicicletta, parcheggiano frettolosamente nei numerosi stalli a disposizione sulla piazza e poi vanno verso i tornelli all’ingresso. Sulla strada che va verso la piazza ci sono almeno quattro bar nel giro di poche decine di metri, tutti già frequentati dalle 5 in poi.
Il flusso di persone è costante e va avanti per qualche ora, ma la piazza non si riempie mai del tutto, nonostante non sia enorme e i lavoratori della sede monfalconese di Fincantieri siano tra gli 8 e i 9mila. Il motivo è che circa 7mila di questi non sono dipendenti diretti dell’azienda, ma lavoratori delle diverse centinaia di società che svolgono per Fincantieri mansioni specifiche in appalto. A Monfalcone Fincantieri fa navi da crociera, e ha bisogno che ogni piccola parte del lavoro venga affidata a società specializzate. Ciascuna di queste società ha esigenze, regole e anche orari diversi.
Dal punto di vista dello sviluppo urbano Monfalcone è una cittadina, ma economicamente la sua importanza supera quella di molte città più grandi. Ha oltre 30mila abitanti, circa 3.000 in meno del suo capoluogo di provincia, Gorizia. Si trova al limitare del golfo di Trieste, sul mare Adriatico, e ha un porto molto ampio un po’ per via delle caratteristiche del territorio e un po’ perché negli anni si è sviluppato in modo da poter ospitare la costruzione delle navi da crociera più grandi al mondo. Il confine con la Slovenia è a pochi chilometri.
A Monfalcone tutto gira intorno alla presenza di Fincantieri. Sono in molti a pensare che senza quest’ultima la città non esisterebbe o quasi. Prima che nel 1907 venisse fondato il Cantiere Navale Triestino, la società antenata di Fincantieri, Monfalcone aveva qualche migliaio di abitanti; un anno dopo la fondazione della società ne aveva già 8mila, per via dell’immigrazione suscitata dai nuovi posti di lavoro disponibili. La popolazione di Monfalcone è cresciuta così fino a oggi, proporzionalmente al lavoro offerto da Fincantieri.
Se l’esistenza di Monfalcone si basa su Fincantieri, quella di Fincantieri si basa da molti anni su un gran numero di persone provenienti dall’estero per lavoro, per la maggior parte dal Bangladesh. È così che Monfalcone è diventato il comune in Italia, tra quelli con almeno 15mila abitanti, con la maggiore concentrazione di persone straniere regolari: sono circa un terzo della popolazione, e oltre 5mila di queste vengono dal Bangladesh (le altre vengono quasi tutte dall’Est Europa). Dal 2016 a oggi i bengalesi sono più che raddoppiati, sempre per via di un grosso aumento della domanda di manodopera in Fincantieri, ma nel frattempo molti di loro hanno avviato in città anche attività diverse dalla cantieristica navale. Molti hanno negozi e locali.
Gli stessi bengalesi però lamentano che nel frattempo la loro vita quotidiana in città è gravemente peggiorata: secondo loro soprattutto perché proprio dal 2016 la città è guidata dalla sindaca Anna Maria Cisint, della Lega, che da quando è in carica ha avviato uno scontro permanente con la comunità bengalese di religione musulmana.
I primi bengalesi cominciarono ad arrivare a Monfalcone alla fine degli anni Novanta, nessuno sa bene il perché. Tutti – sindaca, rappresentanti della comunità bengalese e di Fincantieri, persone che erano in città all’epoca – parlano genericamente di un primo bengalese arrivato in quel periodo, attorno al quale si sarebbe poi sviluppata via via una comunità sempre più ampia proveniente da una stessa zona, come succede spesso nelle migrazioni (il nome di “bengalesi”, più diffuso, indica per la verità la provenienza da una zona un po’ più ampia del solo Bangladesh, per cui sarebbe più corretto “bangladesi”, ma è anche quello con cui loro stessi si definiscono, a Monfalcone).
Cisint dice che è stata Fincantieri a scegliere deliberatamente di «importare manodopera povera» a discapito di quella italiana; l’azienda invece ha più volte sostenuto che per molti pezzi del lavoro necessari per i cantieri navali gli italiani disponibili non basterebbero affatto a soddisfare la necessità di manodopera. Rejaul Haq, uno dei rappresentanti più in vista della comunità bengalese, dice più semplicemente che si va a Monfalcone «perché c’è lavoro, come le api vanno dove c’è il miele».
In questi sette anni e mezzo Cisint ha criticato con insistenza e severità le abitudini della cultura musulmana, cercando il più possibile di ostacolarle, e sostenendo che una buona integrazione passi soprattutto dal fatto che chi arriva debba omologarsi alla società che trova. Nell’attuazione delle sue idee, Cisint ha adottato provvedimenti politici spregiudicati, oltre a una retorica anti-islamica coerente con le posizioni più radicali del suo partito, la Lega.
«Ma perché se vieni in Italia non pensi che un minimo la tua vita debba essere compatibile con la vita della città?», chiede retoricamente Cisint.
La comunità bengalese ritiene invece di essersi adattata eccome alla vita di Monfalcone. La sindaca in effetti chiede ben più di «un minimo», di fatto vorrebbe che alcune convinzioni culturali e religiose venissero sradicate: come l’abitudine di indossare il velo, di osservare il Ramadan o di studiare e tramandare l’arabo (una lingua che i bengalesi non parlano, ma che studiano per ragioni culturali e religiose un po’ come si fa da noi col latino, anche perché i musulmani leggono e recitano il Corano solo in arabo).
«Io non do mica la responsabilità a loro», dice Cisint, spiegando di rendersi conto del fatto che i bengalesi vengano in Italia semplicemente in cerca di condizioni di vita migliori. La responsabilità secondo lei sarebbe invece proprio di Fincantieri, che avrebbe «eliminato i lavoratori del territorio», cioè gli italiani, per assumere persone che accettassero di essere pagate poco. «Fincantieri, mi hai violentato un territorio», dice Cisint con enfasi. In realtà ci sono ancora molti italiani che lavorano in Fincantieri, nel frattempo però la produzione di navi da crociera a Monfalcone è aumentata, e il tipo di occupazione richiesta è sempre meno attrattivo per i lavoratori europei.
Nelle accuse così dirette di Cisint a Fincantieri c’è anche un cortocircuito politico: l’azienda è controllata dal ministero dell’Economia attraverso la società finanziaria Cassa Depositi e Prestiti, il ministero è guidato da un leghista, Giancarlo Giorgetti, e il governo è sostenuto dalla stessa maggioranza di destra che sostiene Cisint.
Nell’ultimo anno le battaglie della sindaca contro la comunità bengalese hanno attirato sempre più attenzioni, Cisint è finita con sempre maggiore frequenza sui giornali nazionali e ha cominciato a essere ospitata in televisione con una certa regolarità, soprattutto nei programmi di orientamento conservatore, dove viene abitualmente lodata come amministratrice che resiste a una “islamizzazione” della società. Il picco della sua notorietà è stato a novembre del 2023, quando con un’ordinanza comunale ha vietato la preghiera nei due centri culturali islamici della città frequentati da bengalesi (Baitus Salat e Darus Salaam): a quel punto hanno cominciato a scrivere di Monfalcone anche diversi giornali internazionali, descrivendola come la città italiana in cui i musulmani non hanno un posto per pregare.
Cisint dice che i due centri culturali non possono essere usati per la preghiera collettiva perché nel piano urbanistico non sono considerati luoghi di culto. La comunità bengalese però li usava per pregare già da molti anni e molti si chiedono perché il divieto sia stato deciso solo adesso. Cisint dice che è stato necessario perché le persone che li frequentano sono aumentate, e secondo lei ci sarebbero rischi per la sicurezza della città legati al fondamentalismo islamico. Al momento però non ci sono, o almeno non sono state diffuse pubblicamente, prove a questo proposito. Dopo le ordinanze Cisint ha ricevuto messaggi di minaccia e le hanno assegnato la scorta.
A marzo il Consiglio di Stato ha confermato la validità dell’ordinanza di Cisint, ma ha sollecitato l’amministrazione comunale a trovare un posto dove i musulmani possano pregare nel rispetto del principio della libertà di culto sancito dalla Costituzione italiana. Da lì è cominciato un confronto poco conciliante tra l’amministrazione e i rappresentanti della comunità bengalese per trovare un posto adatto alla preghiera: Cisint ne ha proposti tre, ma tutti per qualche ragione sono ritenuti non adatti. In uno di questi per esempio si poteva pregare una sola volta al giorno, mentre ai musulmani serve la disponibilità per cinque preghiere giornaliere. I proprietari dei centri islamici inoltre hanno investito grosse somme per acquistare gli immobili dei centri, e vorrebbero semplicemente poter continuare a usarli. La situazione non è ancora stata risolta, e comunque Cisint dice di non essere lei a doversene occupare: «Il sindaco non trova al parroco dove andare a pregare», dice.
Sempre a marzo poi il TAR del Friuli Venezia Giulia ha annullato l’ordinanza di Cisint che impediva di pregare nel cortile esterno del centro culturale islamico Baitus Salat. Da allora sono riprese le preghiere nel centro almeno all’aperto, anche quando piove. Il centro Baitus Salat è un po’ un cantiere aperto, perché erano stati avviati lavori di ristrutturazione che al momento il suo presidente e proprietario, Rejaul Haq, non sa se abbia senso proseguire.
In questo stesso periodo la Lega ha annunciato la candidatura di Cisint alle elezioni europee, che si terranno in Italia l’8 e il 9 giugno, nelle liste del Nordest (una delle cinque circoscrizioni territoriali in cui è divisa l’Italia per le europee). Di recente poi è uscito un suo libro, una lunga intervista scritta dal giornalista Lucio Gregoretti, intitolato Ora basta. Immigrazione, islamizzazione, sottomissione, con prefazione del leader del partito Matteo Salvini. In copertina c’è un folto gruppo di donne vestite con un niqab nero, il velo islamico che copre tutto tranne che gli occhi. Lo slogan dei manifesti di Cisint per le europee dice: «Ora basta. Anche in Europa».
I riferimenti di Cisint alla presunta islamizzazione della società occidentale, che secondo lei andrebbe difesa da un tentativo di modificarla secondo i dettami della religione musulmana, sono collegati di volta in volta più o meno esplicitamente alla teoria della cosiddetta “sostituzione etnica”, una tesi complottista e razzista secondo cui esisterebbe una cospirazione globale per sostituire i bianchi con persone di altre etnie. È una teoria senza alcun fondamento, ma particolarmente inadatta nel contesto di Monfalcone, una cittadina che ha bisogno degli stranieri per far funzionare l’azienda attorno alla quale si è sviluppata la città, e che senza di loro subirebbe un grave spopolamento – lo dicono i dati sulle nascite e sulle morti – come molti altri posti simili in Italia.
La popolazione di origine italiana di Monfalcone è fatta perlopiù di anziani: secondo le ultime rilevazioni ufficiali disponibili, all’inizio del 2023 in città gli stranieri con più di 70 anni erano 91, gli italiani 5.400. Nel 2022 erano nati 106 bambini italiani e quasi il doppio di origine straniera, 197, ed erano morti 379 italiani e 6 stranieri. È per questo che in città gli italiani si incontrano soprattutto la mattina e dopo pranzo, mentre dal tardo pomeriggio fino a sera in giro c’è quasi solo la popolazione bengalese, più giovane e attiva. Si radunano in piccoli gruppi lungo le vie del centro per chiacchierare e stare insieme, i bambini giocano per strada, e i negozi che gestiscono restano aperti fino a tardi, come succede anche per i negozi bengalesi nelle grandi città.
Il posto più frequentato è la piazza principale di Monfalcone, piazza della Repubblica, dove c’è anche la sede del municipio. Subito dopo la sua elezione, nel 2017, Cisint fece togliere le panchine dalla piazza, una misura che molti interpretarono come un tentativo di ridurre i ritrovi delle persone bengalesi nelle zone del centro. Oggi i bengalesi sono molti di più e si ritrovano lo stesso la sera per chiacchierare in piazza della Repubblica, ma stanno in piedi (la piazza è stata recentemente riqualificata dalla giunta).
Prima di Cisint Monfalcone era stata governata in gran parte dal centrosinistra fin dalla metà degli anni Settanta, e dal 2001 per quindici anni dai partiti antenati del Partito Democratico e poi dal Partito Democratico stesso. Il passaggio alla Lega nel 2016 fu brusco ma deciso: Cisint fu eletta con quasi il 50 per cento dei voti e 16 punti in più della candidata del PD e sindaca uscente, Silvia Altran. L’opinione più diffusa è che questo netto cambiamento fu provocato dalla decisione di Altran, nel 2015, di ritirare la costituzione di parte civile del comune nel processo contro Fincantieri per i morti causati dall’amianto nei cantieri navali (la costituzione di parte civile significava chiedere un risarcimento nel caso l’azienda fosse stata ritenuta colpevole). Quella decisione faceva parte di un accordo in cui Fincantieri si impegnava a fare investimenti sulla città: dal punto di vista economico al comune cambiò poco, ma sul piano politico e simbolico fu una decisione inaccettabile per una popolazione in cui moltissime famiglie avevano avuto morti dovuti all’amianto.
Da lì in poi Cisint costruì il suo consenso politico sull’immigrazione e sull’ostilità ai costumi della religione musulmana, e funzionò: nel 2022 venne riconfermata addirittura con il 72 per cento (circa 7.500 voti), quasi 50 punti in più della candidata del PD e del M5S, Cristiana Morsolin.
Le sue battaglie riguardano aspetti della vita dei residenti anche minuti: dal 2017 è stato impedito più volte ai ragazzini di giocare nei parchi pubblici a cricket, uno sport molto diffuso tra i bengalesi, adducendo motivazioni legate alla sicurezza e allo stesso tempo evitando di mettere a disposizione strutture consone per praticarlo. Ad aprile del 2023 due minorenni furono multati dopo essere stati ripresi a giocare a cricket in un parco. Un’altra volta la sindaca cercò (senza successo) di impedire che le donne musulmane potessero farsi il bagno vestite nella spiaggia di Marina Julia, che rientra nel territorio di Monfalcone. Cisint ne fa un problema di trasporti e «decoro», nel senso che trova inaccettabile che le donne musulmane possano poi salire sugli autobus coi vestiti bagnati.
Se le politiche così mirate di Cisint hanno l’obiettivo di contenere gli arrivi di nuove persone bengalesi e musulmane, si può dire che abbiano fallito, perché a Monfalcone continuano ad aumentare. Oggi pochi di loro hanno la cittadinanza e possono votare alle elezioni (un migliaio, stima la sindaca), ma è evidente che questo numero sia destinato a crescere. In città diverse persone scherzano e scommettono su quando sarà eletto il primo sindaco bengalese.
Sull’immigrazione a Monfalcone in ogni caso si fa spesso confusione. I media conservatori, ma anche diversi politici di destra, associano la presenza di stranieri a Monfalcone a quella che descrivono come un’immigrazione incontrollata, con riferimenti ai migranti che arrivano dalla Slovenia attraverso la cosiddetta “rotta Balcanica” e che poi risiedono irregolarmente in Italia. Ma come conferma la stessa Cisint, le persone di origine straniera che abitano a Monfalcone sono tutte in Italia regolarmente. Gli uomini quasi sempre hanno un contratto di lavoro già prima di arrivare, mentre donne e bambini arrivano solitamente attraverso i ricongiungimenti familiari, lo strumento legale con cui l’Italia permette agli stranieri regolari di far arrivare la propria famiglia nel posto in cui risiedono. Secondo Cisint la legge sui ricongiungimenti familiari sarebbe troppo permissiva.
Nonostante la loro retorica contro l’immigrazione, Salvini e altri leader di destra hanno sempre sostenuto di non avere problemi con le persone straniere che arrivano in Italia per lavorare e che vi risiedono regolarmente. Da quando è in carica, per esempio, il governo di Giorgia Meloni ha spesso promosso con enfasi l’immigrazione legale attraverso il “decreto flussi”, quello che permette di far arrivare in Italia regolarmente alcune categorie di lavoratori stranieri. La grandissima parte degli stranieri che vivono a Monfalcone non è arrivata né a piedi dai Balcani, né in barca dal mar Mediterraneo, ma in aereo.
Date queste premesse, Monfalcone avrebbe tutte le caratteristiche per essere presentata dalla destra come un proprio successo: una città che non ha problemi di sicurezza, in cui abitano molte persone straniere, tutte arrivate regolarmente in Italia per lavorare e migliorare le proprie condizioni di vita. Eppure nella propaganda politica di destra è diventata un simbolo dello scontro tra comunità e della resistenza a culture diverse, quella di religione musulmana in particolare, le cui abitudini danneggerebbero quelle degli italiani. È per questo che a Monfalcone l’opposizione di centrosinistra e la comunità bengalese accusano la sindaca di adottare provvedimenti che hanno come unico obiettivo la discriminazione. Lei nega queste accuse e dice di agire semplicemente per la sicurezza e il decoro della città, oltre che per proteggere la cultura e le tradizioni italiane.
Cisint dice che non tutti i bengalesi di Monfalcone lavorano, soprattutto le donne, e sostiene che queste siano sottomesse, che siano costrette a indossare il velo islamico fin da bambine e che i mariti impediscano loro di lavorare. D’altra parte l’amministrazione di Cisint ha negato l’organizzazione da parte del comune di corsi di italiano per le donne bengalesi, senza i quali è più difficile che si integrino e trovino un lavoro.
Cisint sostiene di non poter organizzare corsi di italiano per le donne bengalesi perché i mariti imporrebbero loro di frequentarli solo se le insegnanti sono donne. Non è tanto una questione pratica – nel senso che volendo le insegnanti donne si troverebbero – quanto di principio, perché secondo lei questo atteggiamento mostrerebbe l’indisponibilità della comunità bengalese a integrarsi. In realtà però a Monfalcone dei corsi di italiano vengono organizzati ugualmente, ma su iniziativa privata, dall’associazione AMI (Associazione Monfalcone Interetnica).
AMI esiste dal 2018 ed è gestita soprattutto da Arturo Bertoli, 77enne nato a Bergamo ma che ha lavorato e vissuto a Monfalcone per decenni, ora in pensione. Bertoli racconta che l’associazione nacque con l’obiettivo di aiutare l’integrazione fra comunità diverse a Monfalcone con iniziative di vario genere: fin da subito però fu chiaro a lui e agli altri volontari che qualsiasi integrazione non poteva prescindere dall’insegnamento dell’italiano, e così i corsi divennero l’attività principale dell’associazione.
Oggi AMI ha una trentina di insegnanti e si regge economicamente soprattutto sulle quote che versano gli insegnanti stessi e gli altri volontari. Ha insegnanti donne e uomini, che tengono una quindicina di corsi per alcune centinaia di donne e uomini, separati per genere e divisi per livello di conoscenza dell’italiano. Le donne adulte partecipano spesso ai corsi portando con sé i figli più piccoli, e quasi tutte indossano l’hijab, il velo islamico più comune, che lascia scoperto il viso ed è annodato al collo per coprire i capelli. Nei corsi di donne più giovani, che generalmente sono anche i più avanzati, ce ne sono invece molte che il velo non lo indossano affatto.
A questi corsi, che si tengono in un ex bar nel centro di Monfalcone, si aggiungono quelli organizzati direttamente nelle scuole per alunni e alunne delle scuole medie da poco arrivati in Italia. Le richieste sono centinaia e necessariamente molte persone restano fuori. Sul lavoro di AMI Cisint dice che «va benissimo», ma la definisce anche una «associazione molto ideologica».
Bertoli è tra le persone che erano a Monfalcone prima che arrivassero i bengalesi, e ricorda che discriminazioni e ostilità verso gli immigrati che arrivavano in città per lavorare in Fincantieri ci sono sempre state: nel Novecento arrivarono moltissimi istriani, gallipolini dalla Puglia e campani da Castellammare di Stabia. Ancora oggi in città si sentono molte persone parlare con uno spiccato accento del Sud.
I bengalesi sono arrivati negli ultimi vent’anni, più della metà negli ultimi 6 o 7, quelli dell’amministrazione di Cisint. «Sono arrivate tante persone, ci vuole tempo per adeguarsi», dice Rejaul Haq del centro Baitus Salat. «L’obiettivo a lungo termine dei bengalesi è stabilizzarsi, mandare i bambini a scuola. Se però mi dici che non sono integrato perché ho la barba e il vestito lungo, allora dobbiamo capire cosa vuol dire integrazione».
Lo scorso 23 dicembre la comunità bengalese ha organizzato una grande manifestazione a Monfalcone, contro il divieto di preghiera nei centri culturali e per chiedere maggiore riconoscimento. Secondo la questura hanno partecipato circa 8mila persone, in gran parte bengalesi ma anche italiane e di altre nazionalità. Il corteo esponeva solo bandiere italiane e dell’Unione Europea e il coro più cantato diceva «siamo tutti monfalconesi e tutti italiani». Ancora oggi in città si vedono molti bengalesi andare in giro con piccole bandiere italiane sulle auto o esposte da qualche parte.