Due chiacchiere con Ricky Ross

Che è il fondatore e leader dei Deacon Blue, la band scozzese che suonerà a Peccioli a luglio nell'unica data italiana, organizzata dal Post

di Luca Sofri

L'interno del caffè Gandolfi, a Glasgow (il Post)
L'interno del caffè Gandolfi, a Glasgow (il Post)
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È un pomeriggio di sole spettacolare a Glasgow, con le persone in maglietta sedute ai tavolini all’aperto e alcune persino con gli occhi chiusi rivolti all’insù a sperare di abbronzarsi un po’. E sono partito da Milano che pioveva. Non vi sembrerà l’attacco più inventivo di un articolo – ehi, sempre meglio che raccontare cosa mi ha detto il tassista – ma la circostanza fa una sua impressione, per quanto banale, se penso che sono qui per via di un disco di quasi quarant’anni fa dedicato a Glasgow, con una grigissima immagine della città in copertina e il titolo Raintown. È tutto cominciato uggiosamente da lì.

«I was on a holiday», mi dirà Ricky Ross nei primi minuti della nostra conversazione, per raccontarmi di quando lui e sua moglie Lorraine erano stati a Cattolica, al mare. E io sobbalzerò all’assonanza col verso “I’ll be on my holidays”, una delle prime cose che gli ho sentito dire, nel 1987. Era in una canzone, Dignity, che andò forte in mezzo mondo e che fece conoscere il primo disco dei Deacon Blue, uno dei “primi dischi” più amati della storia del pop-rock britannico.

La band è ancora in vivace circolazione, ancora guidata da lui e da Lorraine McIntosh. A luglio tornano a suonare in Italia – a Peccioli, in Toscana – dopo trent’anni, in un’unica data organizzata dal Post, per mostrare anche da noi com’è che ancora oggi i Deacon Blue riempiono concerti da migliaia di persone (14mila, a Glasgow) in tutto il Regno Unito. Così sono venuto a raccontargli dove li stiamo portando e a fare due chiacchiere per questo articolo, quello che è cominciato banalmente con le indicazioni meteorologiche.

Ross mi ha dato appuntamento in un caffè dal nome italiano, Gandolfi: che però fu fondato, leggo mentre aspetto, da uno scozzese innamorato della fotografia e di un ammirato costruttore di macchine fotografiche londinese ma di origini scozzesi e italiane, che si chiamava Louis Gandolfi. Insomma, non sono in un ristorante italiano – anzi, nel menu c’è il famigerato Haggis – ma negli isolati vicini ne ho visti almeno quattro, arrivando. C’è una intensa relazione di Glasgow con gli italiani, e anche con la fotografia (la copertina uggiosa di quel disco ha pure una gran storia di fotografia).

Il posto è affollato e rumoroso, ma quando Ross arriva non se lo fila nessuno. L’ultima volta che l’ho visto in città, sette mesi fa, lui era su un palco coi Deacon Blue e io ero in mezzo a quattordicimila persone che cantavano, ma mi spiega che poi per Glasgow gira tranquillamente, e tranquillamente ignorato dai suoi concittadini: «mi fermano un po’ di più a Edimburgo, dove ero ieri». Ha una t-shirt blu adeguata alla giornata e quel ciuffo che ha mantenuto anche ora che ha 66 anni e da un pezzo tiene i capelli tagliati assai corti. Comunque assai meno bianchi dei miei.

Raintown andò subito forte anche in Italia, nel 1987: «eravamo in vacanza vicino a Rimini, a Cattolica, avevamo bisogno di una vacanza subito dopo l’uscita del disco, e non so perché andammo lì, ma insomma, c’erano diversi negozi di dischi, e vidi il nostro disco – il nostro primo disco! – nella vetrina di un negozio di dischi, e avrei voluto entrare a dire “ehi, quello è il nostro disco!”, ma non trovavo il coraggio, e ogni giorno ci passavo di fronte dicendomi “ora glielo dico”, e non lo feci mai».

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Fuori dal Regno Unito – lo vedo quando racconto alle persone del concerto a Peccioli – i Deacon Blue sono rimasti quella storia là, quel gran primo disco e qualche altro successo negli anni seguenti. Io vado a Glasgow ai loro concerti annuali ormai da cinque anni e so quale coinvolgimento raccolgono tuttora. Cosa è successo, in mezzo? «In realtà il singolo che andò più forte, poi, fu Real gone kid, che era nel disco seguente. Quella è la canzone che nel Regno Unito ricordano tutti e che viene ancora usata in spot e contesti vari. E fummo una band di successo per alcuni dischi, e facemmo sempre meno la musica che io volevo fare, e decisi che volevo staccare. Non ci piaceva più come all’inizio: era diventato fare un disco, andare in tour, fare un disco, andare in tour. E staccai».

A quel punto lì i Deacon Blue avevano fatto quattro dischi, tra il 1987 e il 1993: l’ultimo, che aveva preso pieghe più rock, era ancora arrivato al quarto posto nelle classifiche britanniche, «ma non siamo mai stati una band da singoli di gran successo», spiega Ross nel trambusto di bicchieri e posate che anima un posto come il caffè Gandolfi a qualunque ora del pomeriggio. Sopra le nostre teste sono appese alle boiserie delle vecchie foto in bianco e nero, a confermare le passioni del fondatore.

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E poi? «E poi è successo che nel 1999 ci siamo ritrovati per un concerto benefico, e ci siamo detti che potevamo tornare a suonare e fare le cose che ci piacevano, ma su tutto un altro livello, come ci piacevano». E non c’è mai stato un momento in cui vi è mancato quel successo, in cui vi siete preoccupati di non recuperarlo più? «Eccome. In quegli anni con Lorraine ci dicevamo “e ora cosa facciamo?”. Anche quando riunimmo la band, c’erano i bambini, e non potevamo fare la vita discontinua e improvvisata degli artisti. Lorraine recitava, era in un programma televisivo, e questo ci ha salvato la vita per un po’. Io scrivevo canzoni per altri ma senza gran risultati, fino a che non ci fu James Blunt [con cui Ross scrisse High, nel primo disco di Blunt], che fu tipo il disco più venduto del mondo, e pure quello mi salvò». Con Lorraine si erano sposati nel 1990: non stavano insieme ai primi tempi della band.

«Suona stupido, ma non so bene perché poi successe quel che successe», spiega Ross, scusandosi perché la storia è noiosa. Per qualche anno la band ci fu e non ci fu: suonava dal vivo, pubblicò anche un disco recuperando vecchie canzoni ma con limitate attenzioni; intanto Ross ne fece per conto suo, e uno con McIntosh. Nel 2004 il chitarrista Graeme Kelling era morto di cancro, a 47 anni, e qualche anno dopo «andai a Londra, parlai con persone che conoscevo, e quando tornai mi ero convinto che dovevamo ricominciare, con un disco, con le canzoni che mi venivano dal cuore, come avevamo iniziato: e così venne la canzone che si chiamò The hipsters, il nuovo disco, un nuovo management, due musicisti che si erano aggiunti. Tornammo alle radici. Te l’ho detto che è una storia noiosa: ma è come se il pubblico se ne fosse accorto, allora, che era tutto più nostro». Era il 2012, erano passati undici anni dal disco precedente, ma The hipsters riuscì ad arrivare al 19mo posto nelle classifiche britanniche, dimostrando la fedeltà di un pezzo del pubblico che non si era persa e recuperandone di nuova. E da lì tutto si ricostruì, coi dischi successivi che arrivarono al 17mo, al 13mo, e nel 2020 al quarto posto; e al primo in Scozia. «Il pubblico crebbe e fummo i primi a esserne sorpresi, ma era andata esattamente così: che avevamo fatto le cose come le volevamo fare, senza aspettative, e aveva funzionato. Adesso mettono ancora le nostre canzoni alla radio, che una volta era il modo per giudicare se la tua musica era al centro della scena, ma è anche diventato tutto più difficile: si invecchia, servono più energie, e il mondo intorno è cambiato drammaticamente. Si lavora tanto coi social media e comunicando direttamente col pubblico: quello fa la differenza, la stampa musicale non esiste più».

La cosa che Ross mi spiega qui l’avevo sentita dire da poco anche in un video di Rick Beato, musicista americano diventato un popolarissimo youtuber e divulgatore sulla musica: Ross dice che «il cambiamento maggiore è che c’è in giro, accessibile, una quantità enorme e varia di musica: io credo di intendermene di musica americana di quella che chiamano “americana”, country, bluegrass… ho fatto un programma per BBC che si chiamava Another country su questa musica: insomma, ancora la seguo. Un giorno ero all’aeroporto e tra le riviste in vendita ce n’era una che si chiamava Country music, e l’ho comprata: beh, non conoscevo un solo nome! E ne ho parlato con Teddy Thompson [che è un cantautore londinese figlio di Richard Thompson dei Fairport Convention] e gli ho chiesto “tu riesci a seguire quello che succede?”, e lui mi ha detto “ma va’, mi sono arreso”». Nel video di Beato un suo ospite spiega che “c’è molta più musica, molto più pubblico, ma non c’è più una monocultura, una conoscenza condivisa da tutti, qualcosa che prenda tutta la scena, nemmeno Taylor Swift”. «Hai presente lo Hydro?», continua Ross, «il posto dove ci hai visto suonare, quello che contiene 14mila persone? Beh, ci suonano band che io non ho mai sentito nominare, e lo riempiono! Sono andato a vedere un cantautore americano, Tyler Childers, qui a Glasgow, al Barrowlands, un posto da duemila persone. È andato sold out in una mattina, ma alla radio qui non lo senti mai: la comunicazione l’ha scavalcata, la radio. E sono ragazzi e persone che vanno ai concerti, ma non spendono più soldi nei dischi. E questo vale anche per noi, che dovremmo cercare di parlare a mercati assai diversi».

Il caffè Gandolfi è diventato molto rumoroso, Ross tossisce – mi ha spiegato di avere un tardivo raffreddore –, e io ho un aereo tra due ore. «Ci metti poco, Glasgow è piccola, l’aeroporto vicino…». E che città è, vista da qui? «Per la musica e l’arte è speciale. Prendi Edimburgo: è una città stupenda, il castello, i vecchi palazzi, tanta storia, il festival: riescono a portare in città artisti, musicisti, da tutto il mondo. Ma a Glasgow sono già qui, gli artisti: è un posto dove le persone sono ispirate a creare cose». Glasgow è in effetti una città di 600 mila abitanti da cui vengono, solo nella musica, i Simple Minds, i Mogwai, i Belle and Sebastian, Craig Armstrong, i Blue Nile, Lewis Capaldi, i Franz Ferdinand, Donovan, i Primal Scream, i Travis, Midge Ure; ma ci sono nati pure Mark Knopfler e Jimmy Somerville, e Angus Young degli AC/DC, per maggiore varietà.

«Ma ci vediamo a luglio a Peccioli», dice Ross, chiedendomi esattamente dove mettere l’accento (Péccioli): «ho visto le foto del posto, stupendo, e non vediamo l’ora di venire in Toscana, io e Lorraine siamo stati per sette estati consecutive a Barga, con la famiglia: che è una specie di posto scozzese in Toscana, non abbiamo bisogno di sapere l’italiano, e dopo il concerto vogliamo tornarci». Contraccambio con le informazioni sul tragitto da Peccioli a Barga, e poi gli faccio la solita ultima domanda che facciamo noi giornalisti nelle interviste (anche se non gli dico esattamente “progetti per il futuro?”). «Sto scrivendo canzoni, credo che registreremo un disco a ottobre, ma voglio avere il tempo di scrivere e di scrivere bene. Forse da fuori non si percepisce, ma la cosa davvero bella è farli, i dischi: dopo li giudica chi li ascolta. Io sono felice che le persone siano ancora così affezionate e appassionate di Raintown, ma non saprei dirti se sia quello il miglior disco dei Deacon Blue, per noi. Bello è stato farlo, ed è bello ancora».

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