Le casette colorate di Singapore diventate un investimento per miliardari
Sono vecchie botteghe coloniali che fino a poco tempo fa erano viste come un residuo della storia della città-stato, mentre oggi costano più di certi posti a Manhattan
Il settore immobiliare di Singapore attrae ogni anno l’attenzione di moltissimi investitori, soprattutto di quelli che desiderano investire in Asia senza le complicazioni politiche che potrebbero sorgere investendo in Cina o, da un po’ di tempo a questa parte, a Hong Kong. Vista la mole di investimenti, il settore immobiliare di Singapore è in continuo sviluppo, ma è anche facile da saturare: il paese è un’isola piccola, da 734 chilometri quadrati (la metà della provincia di Milano, per avere una dimensione). Si sono create dunque nicchie di investimento nel settore e una di queste riguarda la compravendita di vecchie botteghe (shophouse, in inglese) tipici edifici singaporiani stretti e bassi di epoca coloniale, che un tempo ospitavano le botteghe storiche al piano terra e poi la casa della famiglia proprietaria ai piani superiori. Oggi sono oggetto di ingenti investimenti, che hanno portato il loro valore a quasi triplicare nell’arco di qualche anno. Allo stesso tempo, hanno anche un po’ snaturato i quartieri più storici della città.
Le shophouse di Singapore sono circa 6.700. Sono raggruppate in blocchi che formano interi quartieri, e collegate l’un l’altra da portici che in origine servivano per camminare riparandosi o dal sole, che nelle stagioni calde è molto forte, o dalle piogge, che possono essere abbondanti e improvvise. Vennero costruite tra il 1840 e il 1960, periodo in cui l’isola è stata per la maggior parte del tempo una colonia britannica, tranne che per un breve periodo in cui è stata sotto il controllo del Giappone, tra il 1942 e la fine della Seconda guerra mondiale. Nel 1963 divenne poi uno stato federato della Repubblica della Malesia, appena nata, da cui si separò nel 1965. Fu allora che iniziò la storia di successo dell’economia della città-stato, che si trasformò da zona arretrata del sud-est asiatico in una delle economie più ricche al mondo.
Sotto la guida di Lee Kuan Yew – il fondatore della moderna Singapore che morì nel 2015 – il paese beneficiò di un periodo di rapida industrializzazione e della successiva globalizzazione: la sua posizione strategica lo rese uno snodo ideale per il commercio e per essere un primo punto di approdo per chi voleva investire in Asia.
Ma la differenza la fecero soprattutto le politiche pubbliche. Lee capì che incoraggiare gli investimenti stranieri, l’immigrazione di lavoratori qualificati e l’adozione di nuove tecnologie avrebbe consentito il rapido sviluppo del paese. In un’epoca in cui molti stati orientali erano sospettosi nei confronti delle multinazionali, Lee le accolse con basse tasse e poca burocrazia. E soprattutto con una straordinaria stabilità politica, favorevole per gli affari.
La stabilità fu però mantenuta tramite una gestione autoritaria dello stato, in cui c’erano poco spazio per il dissenso e pene tra le più dure al mondo contro la corruzione e il possesso di armi e droga, per cui c’era anche la pena di morte. Allo stesso tempo fu creato un potente stato sociale a tutela dei cittadini, che forniva alloggi, assistenza medica e istruzione. Allo sviluppo economico, dunque, corrispose uno sviluppo sociale del paese, che riuscì a creare un’identità singaporiana grazie alle politiche di integrazione tra stranieri e popolazione locale: oggi Singapore ha 5,4 milioni di abitanti, di cui poco più del 40 per cento è straniero. Ancora oggi, però, Singapore non è democratica e l’apparato repressivo è fortissimo.
Il tutto è stato poi accompagnato da grandi progetti immobiliari. L’isola era tutta da costruire, e interi blocchi residenziali furono demoliti per fare spazio a grattacieli modernissimi ed edifici prestigiosi. Molte shophouse furono così distrutte per far spazio: fu solo alla fine degli anni Ottanta che il governo cambiò atteggiamento nei confronti dei vecchi edifici, finendo per approvare un piano di conservazione dei quartieri centrali e storici, classificati come aree protette.
La storia piuttosto recente dell’isola fa sì che tutto sia relativamente nuovo, dai grattacieli alle piazze, ai centri commerciali agli alberghi: le shophouse sono rimaste uno dei pochi elementi di legame con la vecchia Singapore, e fino a vent’anni fa erano considerate edifici vecchi e superati, dal valore più che altro culturale e turistico. Solo recentemente sono diventate attrattive soprattutto per quelle attività commerciali, quei locali e quegli alberghi che volevano differenziarsi dal gusto lussuoso ma standardizzato della città nuova: con le loro facciate colorate, i muri decorati e i porticati hanno cominciato a essere apprezzati e ricercati sempre di più, e sono diventate anche un’attrazione turistica.
I nuovi proprietari che le acquistano vogliono poi affittare le shophouse ad attività lussuose, come ristoranti stellati o negozi di alta moda, per mantenere il prestigio degli immobili e soprattutto per garantirsi un canone di affitto congruo all’investimento. Investimento che deve tenere conto anche di tutti costi e le complicazioni legate al rimetterle a posto: sono edifici vecchi, talvolta con problemi strutturali, e che però non possono essere stravolti proprio perché tutelati come patrimonio culturale della città.
Negli ultimi anni sono state comprate in larga parte da miliardari, fondi di investimento e family office, quelle società che gestiscono i patrimoni dei privati. L’interesse per questo tipo di immobili ne ha fatto aumentare il prezzo, che è salito da circa 20mila dollari singaporiani al metro quadro nel 2018 a 53mila dollari nel 2023 (da 14mila a 36mila euro circa): nel 2022 le quotazioni hanno addirittura superato quelle della Fifth Avenue a Manhattan, New York, forse la strada più famosa al mondo.
Secondo la società di consulenza Knight Frank il momento di più alta richiesta per le shophouse fu nel 2021, quando furono concluse quasi 250 compravendite per un totale di 1,9 miliardi di dollari di Singapore (circa 1,3 miliardi di euro). Poi l’aumento dei tassi di interesse ha fatto rallentare il mercato, avendo reso per i grossi investitori più costoso l’indebitamento e allo stesso tempo più allettanti altre opportunità di investimento: nel 2022 il mercato delle shophouse si è ridimensionato, con 191 compravendite per un valore di 1,6 miliardi di dollari di Singapore (1,1 miliardi di euro), e nel 2023 è sceso ancora a 132 transazioni per un totale di 1,2 miliardi di dollari di Singapore, circa 820 milioni di euro.
Ad aver contribuito al rallentamento è stato anche un grosso scandalo di riciclaggio di denaro scoperto nell’estate dello scorso anno, che ha scombussolato parecchio il mondo degli affari nel paese: sono stati rintracciati 1,8 miliardi di dollari di Singapore (poco più di 1,2 miliardi di euro) provenienti da attività illecite principalmente svolte in Cina, dall’usura al gioco d’azzardo, e spostati a Singapore sotto forma di investimenti finanziari e immobiliari, di macchine di lusso, lingotti d’oro e anche alcune shophouse.
– Leggi anche: Un grosso episodio di riciclaggio di denaro sta mettendo in crisi Singapore
Lo scandalo ha riportato l’attenzione sul fatto che Singapore si presta talvolta a essere un rifugio anche per capitali provenienti da attività illecite, un tema comunque noto da tempo negli ambienti finanziari, benché Singapore si sia sempre posta come paese sicuro e tranquillo per la collocazione di grossi investimenti. In ogni caso i capitali stranieri hanno continuato ad arrivare, e infatti Singapore sta diventando sempre di più una valida alternativa a Hong Kong, altra capitale finanziaria dell’Asia che però ha risentito dell’instabilità politica causata dalle crescenti intromissioni della Cina nella politica locale.
Singapore fa concorrenza anche alla Cina stessa, dove per gli stranieri è diventato molto difficile investire in modo sicuro senza intromissioni del governo: molti parlano per esempio di “Singapore-washing”, ossia di un fenomeno per cui le aziende spostano la propria sede legale dalla Cina a Singapore per mettersi al riparo dal rischio politico di restare in Cina, che ha rapporti economici e commerciali sempre più problematici con il mondo occidentale. Singapore è diventato estremamente attrattivo soprattutto per i milionari cinesi in cerca di stabilità: tasse basse, buone scuole, ottimi gestori di grandi patrimoni e forti legami culturali con la Cina (molti parlano mandarino) sono tutte caratteristiche che negli ultimi anni hanno attratto famiglie milionarie cinesi.
In risposta al grosso scandalo di riciclaggio, e a difesa della reputazione del paese, sono dunque aumentati i controlli sui capitali in entrata, che hanno reso più difficile per uno straniero investire a Singapore, sia fondi leciti che illeciti: con il risultato che gli investimenti, in generale nell’immobiliare ma anche nelle shophouse, si sono leggermente ridotti nel secondo semestre dello scorso anno.
Ciononostante il mercato resta allettante per gli investitori, anche per un motivo legale. Le shophouse non rientrano nelle rigide regolamentazioni statali sulle compravendite immobiliari, pensate per fermare la speculazione e il rialzo dei prezzi degli immobili che hanno contribuito a rendere Singapore la città con il più alto costo della vita. Le regole, diventate più restrittive di recente proprio per tentare di “raffreddare” il mercato, impongono tasse aggiuntive per i residenti che acquistano una seconda casa e per gli stranieri per qualsiasi casa, anche la prima. Le shophouse non rientrano in questi vincoli, perché la maggior parte è classificata come immobile commerciale.
Resta quindi per gli investitori la possibilità di fare transazioni molto sostanziose: per esempio la compravendita più grossa del 2023 ha coinvolto un investitore cinese che ha pagato 80 milioni di dollari di Singapore (55 milioni di euro) per una fila di sei shophouse a Boat Quay, un quartiere famoso per la vita notturna.