La psiche di chi arriva

«Abito a Trieste, la Città della Bora, della Barcolana, del caffè, della scienza. Ma anche la “città dei matti”, quella che lo psichiatra veneziano Franco Basaglia scelse per la sua rivoluzione. Più di recente Trieste è diventata uno degli snodi della cosiddetta “rotta balcanica”. Basaglia avrebbe compiuto cent’anni. Mi piace pensare che, se fosse ancora vivo, sarebbe felice di aver contribuito a quanto oggi si fa in questa città, perché anche ai tempi di Basaglia molti internati del manicomio erano migranti. Solo che allora si chiamavano esuli e arrivavano da Istria e Dalmazia»

Un giorno di “bora scura” a Trieste, 23 agosto 2021 (Ansa/Giovanni Montenero)
Un giorno di “bora scura” a Trieste, 23 agosto 2021 (Ansa/Giovanni Montenero)
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Uno psicologo sei ore alla settimana per cinquanta persone. Questo, secondo quanto indicato nel bando pubblico per i servizi di accoglienza, è il tempo che l’Italia attualmente offre alla salute mentale dei migranti: un minuto al giorno per ogni persona accolta.

Abito a Trieste, quella città che se guardi la cartina sembra quasi fuori dal territorio italiano, all’estremo di una lingua di terra – la sua provincia, la più piccola d’Italia – che si protende verso oriente e sembra un piccolo ponte. Trieste, la città della Bora, della Barcolana, la regata velica: molto pittoresca, del caffè, della scienza.

Trieste è anche, però, la “città dei matti”, quella che lo psichiatra veneziano Franco Basaglia mezzo secolo fa scelse per mettere in pratica quella rivoluzione, culturale ancor prima che psichiatrica, che decretò l’abolizione dell’istituto manicomiale nel nostro paese. Il primo manicomio a chiudere fra tutti fu proprio quello triestino di San Giovanni, qualcuno dice nel 1977, ma se cercate in rete trovate anche la data dell’11 luglio del 1980 – si sa, sono processi lunghi in cui è difficile porre un’asticella che dica «da qui non è più manicomio».

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Più di recente Trieste è diventata anche un’altra cosa, ovvero uno degli snodi obbligati della cosiddetta “rotta balcanica”, la via di terra percorsa ogni anno da migliaia di migranti provenienti dall’est e dal sud del mondo per arrivare in Europa. E qui torna di nuovo Basaglia, perché Trieste è anche una città dove si pratica un certo tipo di accoglienza, diffusa sul territorio, de-istituzionalizzata e centrata sulla persona, che è in molti modi figlia diretta proprio del suo approccio.

Quest’anno Basaglia avrebbe compiuto cent’anni. Mi piace pensare che, se fosse ancora vivo, sarebbe felice di aver contribuito a quanto oggi si fa in questa città. Gli psicologi di ICS, il Consorzio Italiano di Solidarietà – Ufficio Rifugiati Onlus, una delle principali realtà che a Trieste si occupano di accoglienza dei migranti, sono in sei: Giacomo Bonetti, impegnato sulle dipendenze; Enkeleida Saraci, che si occupa di donne; Noemi Maurizi, responsabile dell’assistenza ai minori; Gianni Barbera, che fa supporto psicologico agli accolti e armonizza i rapporti nei gruppi di lavoro; e Donatella Cociani, che lavora sul disagio psichiatrico e post traumatico e mantiene i rapporti coi Centri di Salute Mentale. Infine c’è Isabelle Sanchez, vice presidente di ICS, che è venuta a Trieste dalla Francia proprio per Basaglia, e non se n’è più andata.

Negli anni Novanta contribuì a creare i primissimi progetti di accoglienza organizzata di migranti nel nostro paese: «C’era appena stata la guerra in ex Jugoslavia e non c’era ancora assolutamente niente, nessun servizio per aiutare chi veniva dalla guerra». Da questo primo nucleo di attività nel 1998 nacque ufficialmente ICS. Fa quasi strano dirlo oggi ma allora le varie realtà anche istituzionali, Azienda Sanitaria Locale, Comune di Trieste e Regione Friuli Venezia Giulia incluse, si trovarono tutte a lavorare insieme in una direzione comune.

A Trieste migrazione e salute mentale non si incontrarono per la prima volta negli anni Novanta. Anche ai tempi di Basaglia (e prima ancora) molti degli internati del manicomio erano migranti. Allora si chiamavano esuli e arrivavano da Istria e Dalmazia per fuggire dal regime di Tito, nell’appena nata Jugoslavia. Ad accomunare i migranti di ieri e di oggi è spesso un carico di esperienze traumatiche, che nel paese di origine può causare la partenza e durante il viaggio contribuire al manifestarsi della malattia mentale.

Traumi, povertà e condizioni di vita violente, ostili e precarie sono patogeniche, soprattutto per la malattia mentale. Basaglia stesso ne scrisse spesso, per esempio nel suo libro L’istituzione negata, come pure fece un altro gigante, il sociologo Erving Goffman, nel suo libro Asylums. Ricerche più recenti confermano che quello dei migranti è un segmento della popolazione particolarmente vulnerabile da questo punto di vista. Per questo il WHO Mental Health Action Plan 2013–2020, il piano d’azione sulla salute mentale dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, invitava i paesi di destinazione a fornire servizi di questo tipo, non solo per una questione di umanità, ma perché occuparsi della salute mentale delle persone è vantaggioso per qualsiasi società. Per questo nel report più recente si denuncia che la gran parte di migranti e rifugiati non riceve questo tipo di assistenza.

A incidere sulla salute mentale dei migranti non è solo l’esperienza avuta prima di arrivare in Italia. I centri di accoglienza collettiva, come i CARA ma non solo, sono spesso veri e propri focolai di malessere e disagio sociale. Se una persona migrante non è già ammalata quando entra, insomma, il rischio che sviluppi qualche forma di sofferenza psichica durante la permanenza in Italia è concreto, e questo aumenta la probabilità che possa poi diventare un pericolo per sé stessa e per gli altri, come testimoniano fatti di cronaca che vengono cavalcati senza una vera comprensione del fenomeno. «Le persone che stanno bene, che riescono poi a mettere radici, creare legami affettivi, lavorare, sono parte attiva della società, anziché un costo», dice Isabelle Sanchez. Il problema è che, rispetto agli anni Novanta, le risorse per offrire aiuto psicologico sono notevolmente ridotte e l’atteggiamento delle istituzioni e della cittadinanza molto meno collaborativo.

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Grazie a Isabelle Sanchez e agli altri membri del Consorzio Italiano di Solidarietà ho avuto l’occasione di parlare con alcune delle persone seguite.

Matteo – non è il suo vero nome, ma quello che usa a Trieste – è un ragazzo alto, con occhi scuri e profondi e modi calmi. Parliamo in inglese senza intermediazioni. Riflette a lungo sulle parole e all’inizio sembra indeciso, ma poi la sua necessità di raccontare prevale, anche se non mi racconta le ragioni per cui ha lasciato il suo paese, che non vuole che io scriva: restano sullo sfondo, sono una presenza che non è semplice ignorare. Per esempio, benché a Trieste esista una nutrita comunità, si può ben dire storica, di persone del paese da cui Matteo proviene, lui preferisce evitare i contatti con i conterranei.

Matteo ripercorre un viaggio crudele attraverso la ragnatela di confini che attraversa i Balcani e la sua frontiera più dura e disumana, quella presidiata dalle forze dell’ordine croate. In quell’occasione, mi dice, è stato sicuro di morire quando la polizia croata lo ha indirizzato apposta – ne è convinto – in un accampamento di migranti afghani armati fino ai denti. «C’era odore di cadavere», aggiunge. «Ci hanno lasciati andare dopo essere stati solo derubati».

A Trieste Matteo arriva l’anno scorso, in un periodo di particolare congestione per il sistema dell’accoglienza triestina, dovuto anche a una riduzione dei ricollocamenti stabilita dal governo italiano. Si ritrova al Silos, un gigantesco ex magazzino del Porto Vecchio, in uso già quando Trieste era un porto importante dell’Impero asburgico, che si trova proprio accanto alla stazione dei treni. Qui in passato furono ammassati gli ebrei in attesa della deportazione e poi gli esuli in fuga dalla Jugoslavia, e qui oggi dormono i migranti “in transito”, «quelli», mi spiega Giacomo Bonetti di ICS, «che noi non conosciamo perché non vogliono fermarsi in Italia, quindi non si fanno identificare e non entrano nel sistema di accoglienza», ma anche quelli come Matteo che, pur avendo fatto richiesta, non hanno un posto dove stare.

Per Matteo è un’esperienza devastante. I migranti che sono già al Silos non lo tollerano, gli lanciano pietre. Matteo ha paura. Le sue crisi evidenziano un disagio psicologico profondo e, grazie ad alcune segnalazioni, viene preso in carico da ICS. La persona che ho davanti si comporta in maniera calma, intelligente, matura. «Ho 25 anni, ma sono più vecchio», scherza mostrandomi dei ciuffi di capelli bianchi. Accenna anche in maniera vaga alle crisi che ha avuto. Ha una ragazza ma non ancora un lavoro, spera di iniziare presto. Ha voglia di fare, di andare avanti, spera che gli italiani capiscano il potenziale che persone come lui possono avere, anche per questo nostro paese. Non sa ancora, quando arriverà l’esito della sua richiesta d’asilo, se resterà in Italia o si sposterà altrove in Europa.

Faith, invece, viene dal Kenya. È giovanissima anche lei. Il fatto di parlare inglese la aiuta. È andata in questura per fare richiesta di asilo appena arrivata a Trieste, spaesata. Mi spiega che sono sempre stati tutti molto gentili con lei, poliziotti compresi. Mi racconta di non essere mai stata lasciata sola dagli operatori di ICS (in particolare da Enkeleida Saraci, che l’ha accompagnata lungo tutto il percorso), e allo stesso tempo è sempre stata stimolata a cavarsela contando su sé stessa. «C’è un equilibrio fra non abbandonarti e però spingerti a prenderti le tue responsabilità, in modo che tu possa imparare e riuscire a essere indipendente nella tua nuova vita».

Al principio, racconta ancora Faith, non credeva di aver bisogno di supporto psicologico: «Pensavo che fosse sufficiente essermi allontanata da situazioni e pericoli oggettivi», «e che potevo iniziare una nuova vita». Ma poi attraverso gli incontri con gli operatori di ICS e le operatrici del GOAP, il Gruppo Operatrici Antiviolenza e Progetti di Trieste, ha capito che è importante prendersi cura anche della propria mente, per riuscire ad affrontare i traumi vissuti: «Questi incontri mi hanno fatto capire che certi problemi che ho affrontato io non sono unici del mio paese, che molte donne anche di qui soffrono situazioni molto simili».

Faith sembra contenta della sua vita. La richiesta di asilo solo qualche settimana fa ha avuto esito positivo. Presto si trasferirà in un’altra città. Spera di poter ricominciare a studiare (in Kenya ha studiato informatica applicata all’ambito sanitario) ma soprattutto di poter far venire in Italia i suoi due figli ancora piccoli.

La terza persona che ho incontrato è Maria, che come Faith preferisce non usare il suo vero nome. Arriva dalla Colombia, ma conversiamo in italiano, che ha imparato nell’ultimo anno e mezzo. È fuggita dal suo paese sicura che se non lo avesse fatto sarebbe stata vittima di femminicidio. «È un problema grave nel mio paese. C’era una mia conoscente con la quale mi identificavo per la situazione in cui si trovava. Quando è stata ammazzata da un uomo che la perseguitava, ho pensato che la stessa cosa sarebbe successa anche a me». Anche lei partecipa agli incontri con il GOAP e anche lei ha un rapporto stretto con Enkeleida Saraci, che la segue e la sostiene. Per lei entrare nel sistema dell’accoglienza è stata una sorpresa: «Mi ricordo che quando sono entrata per la prima volta in un appartamento di ICS, dove c’erano altre donne da tanti paesi, è stato bellissimo. Mi stupiva particolarmente il fatto che veniva un uomo, un operatore, che cucinava per tutte noi. Mi dicevo che posto meraviglioso è questo dove un uomo cucina per le donne?»

Prima di entrare nel sistema di accoglienza, Maria ha vissuto un lungo periodo di incertezza e instabilità economica e di vita, cadendo anche in una dipendenza da alcol, ora superata anche grazie al supporto psicologico. Maria oggi ha un lavoro part-time come badante, nel suo paese faceva la segretaria amministrativa, ma questo lavoro non sembra mancarle molto. Certo, vorrebbe un lavoro a tempo pieno per mantenersi completamente, ma è fiduciosa.

Il futuro del tipo di assistenza e accoglienza centrate sui bisogni della persona come quelle praticate da ICS è oggi più che mai incerto. Ad aprile è stato approvato il nuovo regolamento europeo sui richiedenti asilo, che molti ritengono sia il più restrittivo di sempre. Già prima dell’approvazione oltre 50 ong avevano pesantemente criticato il testo presentato e ora molti, come per esempio Amnesty International, denunciano che il provvedimento favorisce la detenzione delle persone migranti, rendendo la norma proprio quel modello di istituzione totalizzante e disumanizzante tanto combattuto da Basaglia 50 anni fa.

Federica Sgorbissa
Federica Sgorbissa

Vive e lavora a Trieste, la "città dei matti” ma anche della scienza, di cui ha raccontato la storia in un libro di cui è coautrice. È giornalista scientifica e scrive di psicologia, salute mentale e neuroscienze. Il suo podcast più recente, Paper, racconta come funziona la scienza e cosa vuol dire “pubblicarla”.

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