Perché la separazione delle carriere dei magistrati è considerata di destra
Della distinzione formale tra magistrati inquirenti e giudicanti si parla da decenni, e all'inizio era una proposta con consensi abbastanza trasversali: poi è arrivato Silvio Berlusconi
Mercoledì il Consiglio dei ministri ha approvato un disegno di legge di riforma della Costituzione su temi che riguardano la giustizia. Il testo, promosso in particolare dal ministro Carlo Nordio ma richiesto da mesi da Forza Italia, è fatto di 8 articoli che modificano a loro volta 7 articoli (riscrivendone due in maniera completa) del titolo IV della seconda parte della Costituzione, quello che disciplina il funzionamento della magistratura. Il provvedimento passerà ora all’esame del parlamento. Essendo un disegno di legge costituzionale, il suo iter sarà molto lungo: ciascuna delle due camere dovrà esaminarlo e approvarlo due volte, con votazioni che devono avvenire ad almeno tre mesi di distanza l’una dall’altra. Se nelle ultime due votazioni non ci dovesse essere una maggioranza dei due terzi a favore della riforma, questa potrebbe poi essere sottoposta all’ulteriore verifica del referendum confermativo. Insomma, non è qualcosa di imminente, ma se ne sta già parlando molto anche perché il provvedimento interviene su questioni discusse da molto tempo.
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La principale novità prevista dalla riforma è l’introduzione della cosiddetta separazione delle carriere, cioè l’istituzione di carriere nettamente distinte per i magistrati inquirenti (o requirenti), cioè i pubblici ministeri che conducono le indagini, e quelli giudicanti, cioè i giudici che emettono le sentenze. Attualmente si entra in magistratura con un concorso pubblico che è unico per tutte le funzioni: chi lo supera e diventa magistrato, dunque, può decidere poi se fare il pubblico ministero (pm) o il giudice, ed eventualmente passare a un certo punto della sua vita dall’una all’altra funzione. Ogni anno, i magistrati che fanno questo passaggio sono nell’ordine di poche decine, con una media di circa venti all’anno su un organico complessivo di circa 10.000 persone. Nella stragrande maggioranza, si tratta di pm che decidono di fare i giudici; i casi inversi sono più rari.
La riforma, inoltre, introduce un nuovo organo costituzionale, cioè un secondo Consiglio superiore della magistratura (CSM). Il CSM è l’organo di autogoverno della magistratura, quello che tra l’altro dispone i trasferimenti, le promozioni e le sanzioni dei magistrati, e oggi è unico: con la separazione delle carriere diventerebbero due, uno per la magistratura requirente e l’altro per la magistratura giudicante, ciascuno operativo per i “suoi” magistrati e ed entrambi presieduti dal presidente della Repubblica, che oggi è il capo del CSM. Verrebbe poi istituita una Alta Corte disciplinare, chiamata a emettere sentenze disciplinari nei confronti dei magistrati di entrambe le funzioni, punendo dunque illeciti disciplinari e stabilendo le relative sanzioni.
Della opportunità di prevedere carriere separate per pm e giudici si discute in Italia da decenni. Il dibattito era stato già affrontato, in effetti, all’interno dell’assemblea costituente che tra il 1946 e il 1947 scrisse la Costituzione repubblicana. Ma è soprattutto a partire dagli anni Novanta che il confronto s’è fatto più acceso. In particolare scaturirono diverse polemiche dalla riforma del Codice di procedura penale, promossa nel 1988 dal ministro della Giustizia Giuliano Vassalli. Giurista di grande fama, con alle spalle una carriera di partigiano antifascista, con la sua riforma Vassalli introdusse in Italia un processo penale d’impianto accusatorio e non più inquisitorio, com’era quello previsto dal Codice Rocco, introdotto dal regime mussoliniano nel 1930 e rimasto fino ad allora in vigore. Secondo il vecchio codice, spettava al giudice istruttore ricercare le prove nel corso delle indagini e sulla base delle evidenze raccolte emettere una prima sentenza di colpevolezza o di rinvio a giudizio (modello inquisitorio); il nuovo codice prevedeva invece una divisione netta di ruolo e di funzioni tra il magistrato che coordinava le indagini, cioè il pubblico ministero, e il giudice per le indagini preliminari, cioè il magistrato chiamato a giudicare sulla base delle prove che venivano raccolte al termine delle indagini.
La riforma dunque rafforzava in maniera netta la distinzione di funzioni tra magistratura inquirente e magistratura giudicante. E di conseguenza trovarono maggiore legittimazione le tesi di chi proponeva di separare in maniera chiara anche le carriere, introducendo percorsi di selezione e di promozione differenziati. Significativamente, tra chi suggeriva questo approccio c’erano anche alcuni degli ispiratori della riforma del codice elaborata da Vassalli, come per esempio il magistrato Giovanni Falcone.
La convinzione che stava, e tuttora sta, alla base di questa tesi è che separando le carriere si evitano i passaggi dalla funzione di pm a quella di giudice, e si scongiura il rischio che quest’ultimo sia in qualche modo condizionato dalla sua attività precedente nell’emettere la sentenza, finendo così con l’aderire all’impostazione seguita dal pm. La separazione delle carriere servirebbe inoltre, secondo chi la invoca, a promuovere attitudini e professionalità diverse per i pm e per i giudici, oltre a evitare la possibilità che chi abbia in passato condotto indagini come pm su certe faccende o su alcune persone si ritrovi anni dopo a giudicare questioni analoghe, o magari che riguardano gli stessi soggetti e le stesse questioni.
Fu però dalla metà degli anni Novanta che il tema alimentò la polemica politica in modo più aspro. La separazione delle carriere comparì nel programma elettorale di Forza Italia con cui Silvio Berlusconi vinse le elezioni nel 1994, ma anche molti esponenti di partiti di centrosinistra in quegli anni espressero posizioni non ostili all’ipotesi. La commissione bicamerale promossa e presieduta da Massimo D’Alema, segretario del Partito dei democratici di sinistra (PDS), un organismo politico composto da deputati e senatori chiamati a elaborare riforme della costituzione condivise tra il 1997 e il 1998, discusse in maniera favorevole dell’introduzione in Costituzione della separazione delle carriere. Uno dei promotori della separazione delle carriere fu Marco Boato, senatore dei Verdi che poi aderì all’Ulivo di Romano Prodi, secondo il quale «il ruolo del pubblico ministero, anche in relazione all’esercizio dell’azione penale, è stato ridisegnato con l’introduzione del processo accusatorio, sicché dovrebbe (tendenzialmente) presentarsi come organo di ricerca (non di istruzione), di richiesta (non di decisione), di azione (e non di giudizio)». Insomma, pur essendo un punto qualificante del programma di Forza Italia, l’ipotesi raccolse inizialmente un certo favore anche nel centrosinistra.
Le cose cambiarono un po’ negli anni seguenti. La richiesta d’introdurre la separazione delle carriere, nella retorica di Berlusconi e dei suoi seguaci, si accompagnò sempre più a una critica feroce e spesso sguaiata nei confronti dei magistrati, con tanto di insulti e di ingiurie. Tutto ciò, unito alle polemiche sui procedimenti giudiziari in cui Berlusconi era coinvolto e alle leggi ad personam che il centrodestra approvò in suo favore, finì col polarizzare notevolmente qualsiasi possibile aspetto della riforma della giustizia, compreso quello della separazione delle carriere. E si affermò il timore, peraltro avvalorato da varie dichiarazioni di Berlusconi e di parlamentari a lui vicini, che la separazione delle carriere fosse una parte di una riforma più generale che avrebbe poi ricondotto l’azione del pm a un controllo più o meno diretto, ma comunque condizionante, da parte del governo. È così che la separazione delle carriere divenne un’idea di destra, per così dire, e sostanzialmente irricevibile da parte di chi si opponeva a Berlusconi, quindi perlopiù l’opposizione di sinistra e centrosinistra.
A partire dal 2001, quando Berlusconi tornò al governo e vi rimase per cinque anni dopo la breve esperienza del 1994, la maggioranza di centrodestra tentò in più occasioni di introdurre la separazione delle carriere, inserita di nuovo come obiettivo dichiarato nel programma di governo. Lo fece con due proposte di legge presentate dalla senatrice Maria Elisabetta Alberti Casellati (attuale ministra per le Riforme) e dal deputato Luigi Vitali, che vennero poi assorbiti da un più organico progetto di riforma della giustizia promosso dal ministro leghista della Giustizia Roberto Castelli, che però dopo varie riformulazioni escluse l’ipotesi di una separazione netta e rigida delle carriere, anche perché al riguardo si era espresso in modo contrario il presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi.
Ciampi nel dicembre 2004 arrivò a rinviare alle Camere il disegno di legge che gli era stato sottoposto: un atto piuttosto significativo dal punto di vista politico e istituzionale, col quale il capo dello Stato segnala al parlamento che una legge appena approvata presenta concreti rischi di incostituzionalità. Ciampi riteneva infatti che le norme contenute nel provvedimento limitassero in maniera eccessiva il potere del CSM in merito alle decisioni sulle carriere di tutti i magistrati, e che dunque si dovesse intervenire, nel caso, con una riforma costituzionale e non con una legge ordinaria. La riforma di Castelli introdusse una separazione attenuata, per così dire: obbligava tutti i magistrati in servizio a decidere, entro il 2006, a quale delle due magistrature aderire, inquirente o giudicante. Per il futuro, invece, stabiliva che fosse consentito un solo passaggio di funzioni da pm a giudice e viceversa, e che potesse avvenire solo nei primi cinque anni di carriera del nuovo magistrato.
Nel 2007, nel secondo governo guidato da Prodi, il ministro della Giustizia Clemente Mastella modificò la norma, abrogandola in massima parte ma introducendo dei nuovi limiti per i passaggi dalla funzione inquirente a quella giudicante e viceversa. La nuova legge stabiliva che fossero consentiti fino a quattro passaggi di funzioni nel corso della carriera di un magistrato, ma solo a distanza di cinque anni uno dall’altro. Tornato di nuovo al governo nel 2008, Berlusconi promosse una nuova riforma in tal senso: stavolta una riforma costituzionale, con una separazione netta delle carriere fin dall’inizio e senza alcuna possibilità di passaggio da una funzione all’altra. La riforma, approvata dal Consiglio dei ministri nel marzo del 2011, non fu però mai votata dal parlamento, anche a causa dell’inizio della crisi finanziaria che portò alla turbolenta caduta del governo di Berlusconi e alla nascita di quello di Mario Monti.
Dal 2013 fino ad oggi sono state quattordici le proposte di legge presentate in parlamento per introdurre la separazione delle carriere. Altre iniziative in tal senso sono state fatte attraverso mobilitazioni popolari e referendum: l’ultimo, nel giugno del 2022, promosso dalla Lega di Matteo Salvini insieme al Partito Radicale Transnazionale, era finalizzato a rimuovere le norme che consentivano il passaggio di funzione per i magistrati, dunque a introdurre una forma di separazione delle carriere nei fatti, seppur in modo meno dichiarato. Non raggiunse però il quorum, e dunque risultò inefficace, dal momento che i referendum abrogativi sono validi solo se più della metà degli elettori vanno a votare.
In quello stesso giugno del 2022 entrò in vigore una legge promossa dalla ministra della Giustizia Marta Cartabia che, dopo un’elaborazione piuttosto tribolata, introdusse vincoli più stringenti, consentendo un solo passaggio di funzione e solo entro i primi nove anni dall’entrata in servizio.
La riforma costituzionale approvata mercoledì dal Consiglio dei ministri è certamente più incisiva, dato che introdurrebbe una separazione delle carriere e non solo delle funzioni. Fin dall’inizio, dunque, l’aspirante magistrato dovrà decidere se fare il pm o il giudice, e sulla base di quella scelta partecipare a un concorso pubblico o all’altro, sottostando alle norme e al controllo di un CSM o dell’altro. Il tutto ovviamente a patto che la riforma entri davvero in vigore, completando il lungo e complesso iter di approvazione parlamentare e una discussione decennale.