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  • Mercoledì 29 maggio 2024

Lo sciopero della fame di un’attivista curdo-iraniana in un carcere calabrese

Maysoon Majidi era arrivata in Italia a dicembre su un'imbarcazione dopo essere fuggita dall'Iran, ed era stata arrestata perché indicata come scafista, ma sulle accuse ci sono diversi dubbi

Un'imbarcazione con a bordo alcuni migranti, in mare
(ANSA/US SEA WATCH)
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Nel carcere di Castrovillari, in Calabria, è iniziato lunedì uno sciopero della fame di un’attivista e regista curdo-iraniana, Maysoon Majidi, detenuta in Italia da circa cinque mesi con l’accusa di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Majidi, che ha 28 anni, era stata arrestata dopo essere sbarcata a Crotone, sempre in Calabria, lo scorso 31 dicembre, al termine di un viaggio iniziato anni prima con la sua fuga dall’Iran, dove la minoranza curda di cui fa parte è perseguitata dal regime.

Come già successo anche ad altri migranti in Italia, Majidi era stata accusata di essere una cosiddetta scafista, cioè di aver guidato l’imbarcazione su cui si trovava trasportando illegalmente in Italia decine di altre persone. Quella di scafista è una categoria contestata e problematica dal punto di vista giuridico: nella maggior parte dei casi chi guida le imbarcazioni sono semplici migranti, ma in Italia vengono perseguiti come se fossero trafficanti di esseri umani, cioè le persone che organizzano materialmente i viaggi. Nei confronti di questa categoria di persone inoltre il cosiddetto “decreto Cutro” del governo di Giorgia Meloni lo scorso anno ha introdotto pene assai più severe: prima si rischiavano fino a 5 anni di carcere, ora da 10 a 30 anni.

Nel caso specifico però i legali di Majidi sostengono che lei non sia nemmeno considerabile una scafista, che non guidasse affatto l’imbarcazione su cui si trovava e che le accuse che le sono state rivolte siano infondate e basate su poche testimonianze inattendibili. Nel frattempo, Majidi rischia fino a 16 anni di carcere, una multa da 15mila euro per ogni persona a bordo dell’imbarcazione su cui viaggiava (una settantina in tutto), e soprattutto il rimpatrio in Iran, cosa che secondo i suoi legali metterebbe a rischio la sua vita per via delle persecuzioni verso la minoranza curda.

– Leggi anche: Chi sono i cosiddetti “scafisti”

Majidi ha iniziato uno sciopero della fame al termine di mesi in cui la sua storia è stata più volte riferita da associazioni per i diritti umani, politici e giornali: contesta le accuse che le sono state rivolte e protesta contro il rigetto della sua richiesta di ottenere gli arresti domiciliari, chiedendo una nuova udienza al tribunale del Riesame di Catanzaro. Majidi è attualmente in custodia cautelare, quindi è detenuta in attesa che inizi il processo per il sospetto che possa fuggire o inquinare le prove. Nel frattempo, il suo avvocato Giancarlo Liberati sostiene che finora durante la detenzione abbia già perso 14 chili e che le sue condizioni di salute siano precarie.

Majidi se n’è andata dall’Iran nel 2019, dopo essere stata arrestata dal regime per via del suo attivismo e, secondo il suo avvocato, dopo aver subìto maltrattamenti e violenze in carcere. Insieme al fratello, come lei vittima di discriminazioni, Majidi si era rifugiata per qualche anno nel Kurdistan Iracheno, dove aveva continuato a fare attivismo soprattutto con l’associazione Hana, che si occupa di difesa dei diritti umani e che tra le altre cose ha avviato una campagna per chiedere la sua liberazione.

Sulle sue attività di quegli anni ha dato qualche dettaglio in più la deputata del Partito Democratico Laura Boldrini, che lo scorso marzo aveva visitato Majidi in carcere e raccontato il suo incontro al quotidiano Domani: Boldrini aveva citato un documento dell’UNHCR, Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (di cui Boldrini è stata a lungo portavoce per il Sud Europa), che provava la presenza di Majidi in Iraq e il lavoro di lei e del fratello per alcune televisioni locali.

Majidi sarebbe partita verso l’Europa dopo che le era stato rifiutato il rinnovo del suo permesso di soggiorno in Iraq e dopo essere rimpatriata brevemente in Iran. Si sarebbe imbarcata insieme al fratello in Turchia, con un viaggio costato migliaia di euro e pagato dal padre, professore in Iran, e dopo cinque giorni di navigazione avrebbe raggiunto Crotone, dove poi è sbarcata.

I legali di Majidi sostengono che sia stata arrestata sulla base delle testimonianze di due persone, delle oltre settanta a bordo dell’imbarcazione, che l’avrebbero indicata come la persona alla guida.

Succede spesso, dopo gli sbarchi, che uno dei migranti a bordo venga identificato dagli altri come la persona che conduceva il mezzo, e successivamente arrestato: spesso queste accuse si basano su testimonianze non opportunamente verificate, raccolte in modo sommario e frettoloso nelle procedure che seguono gli sbarchi. Tempo fa, per esempio, BBC raccontò il caso di un ragazzo senegalese 16enne, Moussa, che dopo essere arrivato via mare in Italia nel 2015 aveva passato più di un anno in carcere perché due persone che viaggiavano con lui l’avevano visto usare il timone dell’imbarcazione. Capita anche che ad essere indicati come conducenti dell’imbarcazione siano le persone che in quel momento vengono identificate dalle altre come le più fragili, meno in grado di difendersi.

Nel caso di Majidi, la procura di Crotone ritiene che fosse «l’aiutante del capitano» e che il suo compito fosse distribuire acqua e cibo sull’imbarcazione, mantenendo la calma a bordo. Ci sono dubbi su varie parti dell’accusa, per cui Boldrini ha parlato di «grossi deficit istruttori»: anzitutto, come detto, sull’attendibilità delle testimonianze su cui si basa.

Lo scorso 14 maggio era stata calendarizzata l’udienza per l’incidente probatorio (la procedura con cui, in un processo, viene acquisita una prova prima dell’inizio del dibattimento, perché per varie ragioni si ritiene che possa perdersi): l’udienza non si è svolta perché il tribunale di Crotone ha detto che i testimoni erano irreperibili. Un tentativo di rintracciarli sarebbe però stato fatto dalla trasmissione televisiva Le Iene, che li avrebbe trovati in Germania: sono un uomo iracheno e un uomo curdo, che intervistati dalla trasmissione hanno detto di non aver mai accusato Majidi di essere stata alla guida dell’imbarcazione, condotta invece da un uomo turco. L’intervista, però, non è ancora stata inserita tra gli atti del processo, e dunque al momento non ha alcun valore ai fini processuali.

La procura di Crotone ha basato le accuse anche su un video, trovato sul cellulare di Majidi, in cui la si vede sorridere e guardare nella telecamera, mentre dice al padre che è in salvo e ringrazia il comandante della nave. Liberati, il suo avvocato, sostiene che il video non sia sufficiente a incriminarla per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, e che fosse semplicemente un segnale chiesto dai trafficanti di esseri umani per sbloccare l’ultima rata del pagamento. L’avvocato ha detto inoltre alla Stampa che Majidi sarebbe in possesso della ricevuta di pagamento del viaggio, cosa che dimostrerebbe che era a bordo dell’imbarcazione come semplice migrante e non come trafficante di esseri umani e organizzatrice del viaggio.

Majidi, nel frattempo, rischia oltre al carcere anche il rimpatrio: il decreto Cutro ha reso più severi i requisiti per ottenere forme di protezione che permetterebbero a Majidi di restare in Italia. Secondo il suo avvocato, indipendentemente da come andrà il processo, il fatto di essere stata sottoposta a un procedimento penale potrebbe compromettere la possibilità per lei di ottenere una forma di protezione in Italia, rendendo concreto il rischio di un rimpatrio nel paese d’origine da cui è fuggita.