Cosa resta dei processi sulla strage di piazza della Loggia

I mandanti dell'attentato del 28 maggio 1974, in cui morirono 8 persone, sono stati condannati all'ergastolo; ora a processo ci sono due uomini accusati di essere stati gli esecutori materiali dell’attentato

di Laura Fasani

Piazza della Loggia dopo la strage (Pietro Gino Barbieri/Foto Spada/LaPresse)
Piazza della Loggia dopo la strage (Pietro Gino Barbieri/Foto Spada/LaPresse)
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La mattina del 28 maggio 1974 a Brescia pioveva. Nonostante la pioggia, centinaia di persone presero parte ai cortei in piazza Repubblica, Porta Trento, piazza Garibaldi e si radunarono poi in piazza della Loggia per una manifestazione antifascista. Era stata indetta dai sindacati e dal Comitato unitario permanente antifascista dopo la morte di Silvio Ferrari, un giovane fascista bresciano morto nove giorni prima mentre trasportava, sul pianale della sua Vespa, un’ingente quantità di esplosivo.

Alle 10, sul palco, il sindacalista della CISL (Confederazione Italiana Sindacati Lavoratori) Franco Castrezzati iniziò a parlare di Ferrari e del terrorismo di destra. I carabinieri che svolgevano il servizio d’ordine, e che normalmente si mettevano sotto i portici sul lato opposto rispetto a palazzo Loggia, la sede del comune, lasciarono posto ai manifestanti perché si potessero riparare dall’acqua. Molte persone si spostarono quindi sotto il porticato. Non sapevano che lì, in un cestino dei rifiuti collocato all’incirca sotto l’orologio sopra i portici, era nascosta una bomba formata da un chilo di esplosivo contenente dinamite, gelignite e probabilmente anche tritolo.

Castrezzati menzionò Giorgio Almirante, ex funzionario del regime fascista durante la Repubblica Sociale Italiana e segretario del Movimento Sociale Italiano, poi avrebbe dovuto continuare il discorso parlando dei neofascisti milanesi. Cominciò a dire: «A Milano…», ma non completò mai la frase. Alle 10:12 la bomba esplose, uccidendo otto persone e ferendone altre 102. I morti si chiamavano Giulietta Banzi, Livia Bottardi, Clementina Calzari, Euplo Natali, Luigi Pinto, Bartolomeo Talenti, Alberto Trebeschi e Vittorio Zambarda.

Una foto di Piazza della Loggia dopo la strage

Piazza della Loggia dopo la strage (Pietro Gino Barbieri/Foto Spada/LaPresse)

Sono passati cinquant’anni dalla strage di piazza della Loggia, una strage rimasta impressa nell’opinione pubblica italiana sia per la sua modalità sia per la lunga serie di inchieste giudiziarie e depistaggi che si trascinarono nei decenni successivi, fino a oggi. Dopo tre inchieste e due condanne definitive all’ergastolo, che individuarono il mandante della bomba del 28 maggio 1974, a processo ora ci sono due uomini accusati di essere stati gli esecutori materiali dell’attentato. Entrambi veronesi e all’epoca giovanissimi, sono imputati per concorso in devastazione e strage. Si chiamano Marco Toffaloni e Roberto Zorzi: per la procura sarebbero stati la manovalanza a servizio di Carlo Maria Maggi, il medico fascista referente in Veneto dell’organizzazione eversiva Ordine Nuovo, condannato all’ergastolo come ideatore della strage e morto nel dicembre del 2018. Con Maggi fu condannato anche Maurizio Tramonte, padovano di 71 anni, ex informatore dei servizi segreti e tuttora detenuto.

Una foto di Carlo Maria Maggi diffusa nel 1997

Carlo Maria Maggi in una foto senza data diffusa nel 1997 (ANSA)

Il 22 aprile del 2024, dopo ben tre udienze preliminari svolte per via di due vizi formali, Toffaloni è stato rinviato a giudizio dal giudice dell’udienza preliminare del tribunale per i minorenni di Brescia, competente per il suo caso perché nel 1974 Toffaloni non aveva ancora compiuto 17 anni: il dibattimento inizierà giovedì 30 maggio, due giorni dopo il cinquantesimo anniversario della strage. Per il processo gemello in cui è imputato Zorzi, rinviato a giudizio a novembre, la prossima udienza si terrà il 18 giugno davanti alla Corte d’assise di Brescia. La prima si era tenuta il 29 febbraio ma era stata subito rinviata perché, come spiegato dal presidente della Corte d’assise Roberto Spanò, non c’erano abbastanza giudici per formare un collegio dedicato.

La strage di Brescia fu una delle principali del periodo della cosiddetta “strategia della tensione”, che avviò gli anni di piombo e che fu portata avanti da vari settori dello Stato con modalità nascoste e ambigue e con un esteso ed eterogeneo insieme di iniziative e interventi. Semplificando, lo scopo era alimentare il clima di paura e incertezza attraverso le stragi, e in questo modo scongiurare una trasformazione del contesto politico in senso progressista, o addirittura sostituire l’assetto istituzionale esistente con uno più reazionario, in anni in cui il Partito comunista italiano era il più forte dell’occidente e in forte crescita. Secondo i processi, le stragi, da quella di piazza Fontana a Milano del 12 dicembre del 1969 a quella della stazione di Bologna del 2 agosto 1980, furono compiute da esponenti della destra eversiva con la complicità di apparati deviati dello Stato e di servizi segreti stranieri.

Angelo Ventrone, docente di storia contemporanea all’università di Macerata, spiega che ci sono due aspetti che rendono la strage di piazza della Loggia diversa dalle altre: «Il contesto in cui avvenne, cioè la manifestazione antifascista, rese subito chiara all’opinione pubblica la matrice di destra dell’attentato, a differenza di quanto accaduto per esempio con piazza Fontana [per la quale all’inizio fu indagato il movimento anarchico, ndr]. Inoltre, quella di Brescia fu l’unica strage nella prima fase della stagione stragista, dal 1969 al 1974, per cui la giustizia riuscì a individuare e a condannare i colpevoli appartenenti agli ambienti della destra eversiva».

In quegli ambienti, in particolare quello di Ordine Nuovo, gravitavano anche Toffaloni e Zorzi, allora 20enne. Secondo gli investigatori bresciani i due all’epoca «erano una cosa sola». Zorzi oggi vive nel Nordovest degli Stati Uniti, nello Stato di Washington, dove è titolare di un allevamento di cani dobermann chiamato “Del Littorio”. Fu fermato insieme ad altri il giorno dopo lo scoppio della bomba in piazza della Loggia: i carabinieri risalirono subito a Zorzi perché sapevano che il 21 maggio 1974 era stato a Brescia per partecipare ai funerali di Silvio Ferrari (per l’occasione Zorzi fece comporre un cuscino di fiori con l’ascia bipenne, simbolo di Ordine Nuovo). Venne però rilasciato 16 ore dopo il fermo. Come è emerso dall’udienza preliminare, fu decisiva la conferma del suo alibi da parte della figlia del titolare del bar della stazione dei bus di Verona: secondo la versione della ragazza, la mattina della strage Zorzi sarebbe stato seduto nel locale, al suo solito posto. Tuttavia, quando dieci anni fa venne risentita dagli investigatori, la donna non confermò quello che aveva detto all’epoca e non seppe riconoscere Zorzi. Nella nuova inchiesta ha inoltre assunto un grande peso la testimonianza di un’altra donna che all’epoca della strage frequentava gli ambienti di estrema destra: nel 2013 raccontò che nel maggio del 1974 aveva sentito Zorzi in una pizzeria di Brescia parlare di un attentato da compiere a breve.

Soprannominato «Tomaten» (pomodoro, in tedesco) tra gli amici per i riflessi di colore nei capelli, oggi Toffaloni vive invece in un paese di montagna in Svizzera, dove si fa chiamare Franco Maria Muller. Le accuse contro di lui sono sostanziate dalle dichiarazioni di un collaboratore di giustizia che raccontò di una confidenza che gli fece Toffaloni stesso, e da una fotografia celebre: mostra un uomo, Arnaldo Trebeschi, che si dispera accanto al corpo del fratello Alberto, una delle vittime. Dietro di lui, tra i presenti, stando a una perizia antropometrica (cioè una verifica delle identità attraverso l’analisi di immagini e filmati), si distinguerebbe il volto di Toffaloni.

Una foto di Arnaldo Trebeschi vicino al corpo del fratello coperto da uno striscione, dopo la strage di piazza della Loggia

Arnaldo Trebeschi vicino al corpo del fratello coperto da uno striscione, dopo la strage di piazza della Loggia. In questa foto non si vede il volto di Toffaloni (ANSA)

Alla notifica di chiusura delle indagini, a dicembre 2021, si è arrivati con quello che il procuratore capo di Brescia, Francesco Prete, definì «un articolato corpus probatorio, frutto di complesse attività investigative e del contributo conoscitivo fornito da protagonisti dell’epoca». Le informazioni provengono da persone che «hanno ritenuto di lasciarsi completamente alle spalle l’esperienza politica violenta di quegli anni». Se la tesi dell’accusa venisse confermata nel processo, spiegò Prete, «inserirebbe la posizione degli odierni indagati, senza fratture, nel quadro già tracciato dal precedente processo Brescia Ter concluso con la condanna all’ergastolo di Maurizio Tramonte e Carlo Maria Maggi».

Il processo del 2017, appunto il Brescia Ter, aveva delineato la catena di comando dell’organizzazione della strage. A ideare l’attentato e a scegliere come obiettivo la manifestazione antifascista che si doveva svolgere a Brescia il 28 maggio fu, secondo i giudici, il capo di Ordine Nuovo del Veneto Carlo Maria Maggi. Parte attiva nell’organizzazione della strage fu Maurizio Tramonte, membro di Ordine Nuovo ma anche informatore dei servizi segreti con il nome in codice di “Fonte Tritone”.

La bomba di piazza della Loggia fu confezionata nel retro del ristorante “Lo Scalinetto” alla Giudecca, a Venezia, una sorta di deposito del gruppo neofascista. Quindi fu portata fino a Verona da un altro ordinovista (come venivano chiamati gli appartenenti a Ordine Nuovo), Marcello Soffiati, e qui affidata a Carlo Digilio, detto “Zio Otto”, esperto di esplosivi, che la mise in sicurezza e pronta per essere attivata. Da Verona la bomba transitò a Milano e poi venne affidata agli esecutori materiali. I nomi degli autori materiali costituiscono l’anello mancante della catena processuale.

A Zorzi e Toffaloni si è arrivati soprattutto grazie alle rivelazioni di Gianpaolo Stimamiglio, padovano abitante a Verona, militante negli anni Settanta di Ordine Nuovo e dei Nuclei di Difesa dello Stato, altra organizzazione clandestina di estrema destra. Nel 2012 disse al Corriere della Sera di non essere un pentito ma di «voler smascherare chi ha organizzato certe cose approfittando dell’ingenuo fanatismo di alcuni ragazzini solo per denaro o per inseguire i propri interessi personali». Stimamiglio, collaboratore di giustizia e inserito nel programma di protezione dal 2012 al 2019, raccontò alla procura di avere incontrato Toffaloni alla fine degli anni Ottanta in un motel di un amico comune a Peschiera del Garda, in provincia di Verona. Disse di aver riconosciuto quel giovane che frequentava gli ordinovisti veronesi, in particolare il giro del generale Amos Spiazzi. E soprattutto riferì di aver ascoltato questa frase: «So’ sta mì, a Brescia gh’ero mì» (sono stato io, a Brescia c’ero io, in dialetto). L’avrebbe detta Toffaloni a Stimamiglio parlando della strage di piazza della Loggia.

In una recente intervista al Giornale di Brescia, Stimamiglio ha sostenuto di non avere riportato questa frase di Toffaloni, che si sarebbe limitato invece a dirgli: «Gh’ero anca mì» (c’ero anche io). «Non era in piazza Loggia per vedere l’effetto che avrebbe fatto lo scoppio. Se c’era, era perché, in quello scoppio, aveva avuto un ruolo», ha detto Stimamiglio al giornalista Pierpaolo Prati. Questo ruolo sarebbe dipeso, stando a quanto lasciato intendere da Toffaloni, da Roberto Besutti, ex parà a capo di Ordine Nuovo di Mantova con legami in ambienti veneti.

A suffragare comunque le affermazioni di Stimamiglio sulla presenza di Marco Toffaloni a Brescia il 28 maggio del 1974 c’è anche la perizia antropometrica commissionata dalla procura. La fotografia scattata in piazza Loggia negli istanti successivi allo scoppio della bomba in cui sarebbe ripreso anche Toffaloni è stata confrontata con un’altra fotografia di lui nello stesso periodo: secondo il consulente della procura, le due immagini sono sovrapponibili soprattutto grazie a due dettagli, un solco nel labbro inferiore e una fossetta sul mento. Se la tesi della procura e del tribunale per i minorenni fosse confermata, troverebbero posto gli ultimi tasselli di un percorso giudiziario che è stato fin qui lungo e tortuoso, cosa che del resto è vera anche per altri processi per strage in Italia.

Una foto di fiori lasciati in piazza Della Loggia a Brescia dopo la strage

Fiori in piazza della Loggia a Brescia dopo la strage (ANSA)

All’inizio le indagini puntarono sugli ambienti neofascisti bresciani. Dopo 178 udienze con sedici persone imputate, il primo processo si concluse il 2 luglio del 1979 con due condanne per strage: quelle di Ermanno Buzzi, ladro di opere d’arte noto negli ambienti di estrema destra, condannato all’ergastolo, e di Angelino Papa, condannato a dieci anni e sei mesi. Meno di tre anni dopo, il 2 marzo 1982, la Corte d’assise d’appello assolse tutti gli imputati. Tra di loro c’era anche Buzzi, che nel frattempo però era stato strangolato nel carcere di Novara da due personaggi importanti del fascismo italiano, Mario Tuti e Pierluigi Concutelli. Buzzi aveva detto, poco tempo prima di essere ucciso: «Avrò parecchio da dire su certi camerati», riferendosi al processo d’appello durante il quale sarebbe comparso in aula. Buzzi fu però stranamente trasferito dal carcere di Brescia a quello che lui definì «la fatal Novara», dato che sapeva che in quel carcere erano detenuti Tuti e Concutelli che ne avevano deciso l’omicidio. Nelle motivazioni della sentenza dell’82, il giudice definì Buzzi «un cadavere da assolvere».

Un altro filone di indagine cominciò nel 1984, dopo che il 30 novembre 1983 la Cassazione annullò tutte le assoluzioni e rinviò gli atti alla Corte d’assise d’appello di Venezia. Gli inquirenti seguirono la “pista milanese”, che vide come principali imputati Cesare Ferri e Alessandro Stepanoff. Anche in questo caso i processi si conclusero con assoluzioni. Emersero però, durante il dibattimento, alcuni elementi che i pubblici ministeri di allora giudicarono «inquietanti». Primo tra tutti il fatto che due ore dopo lo scoppio della bomba un vicequestore, Aniello Damare, diede ordine alle autopompe dei pompieri di ripulire con getti d’acqua piazza della Loggia. Le tracce dell’esplosivo vennero cancellate prima ancora che i tecnici della procura potessero fare i rilievi. Scomparvero anche i frammenti dell’ordigno estratti dai corpi dei feriti e delle persone morte in ospedale: li prelevò un sedicente funzionario del ministero dell’Interno.

Nel 2008 un nuovo filone di indagine portò al rinvio a giudizio di sei persone: Delfo Zorzi (solo omonimo di Roberto Zorzi), ex militante di Ordine Nuovo veneto e oggi cittadino giapponese con il nome di Hagen Roi, Carlo Maria Maggi, Maurizio Tramonte, Pino Rauti, Giovanni Maifredi e Francesco Delfino. Quest’ultimo, ex generale dei carabinieri morto nel 2014, personaggio molto discusso e al centro di importanti processi, era all’epoca comandante dei carabinieri a Brescia. In primo grado gli imputati furono tutti assolti con formula dubitativa; nel 2012 il processo d’appello confermò le assoluzioni, però indicò le responsabilità di tre militanti fascisti morti: Carlo Digilio, Ermanno Buzzi e Marcello Soffiati.

La Corte di Cassazione nel 2014 confermò le assoluzioni di Delfo Zorzi e Francesco Delfino (Rauti era morto nel frattempo), ma annullò quelle di Tramonte e Maggi. Il 22 luglio 2015 i due imputati furono condannati all’ergastolo, e la sentenza venne confermata dalla Corte di Cassazione il 20 giugno 2017. Secondo il giornalista bresciano Pierpaolo Prati, che da anni segue tutte le udienze, questa sentenza va considerata come «una pietra miliare» nell’iter giudiziario della strage di piazza della Loggia. Dice Prati: «Finché non c’è stata una sentenza passata in giudicato, anche la giustizia è stata costretta a procedere senza appigli certi. La condanna di Maggi e Tramonte ha messo un punto fermo: individuato il regista, a cascata si è potuto finalmente andare a cercare chi dipendeva da lui, da chi ha confezionato la bomba fino a chi l’ha messa nel cestino, ricostruendo altri pezzi di verità processuale dopo decenni di depistaggi». Se nel frattempo molte persone implicate nelle inchieste passate sono morte, per Prati il pregio del lunghissimo lavoro della magistratura è «avere aggiunto l’accertamento delle responsabilità alla verità storica, confermando quello che sappiamo fu, storicamente, la strage di piazza della Loggia, cioè una strage di matrice neofascista».

Per lo storico Angelo Ventrone le due sentenze del 2015 e del 2017, oltre a fissare una verità processuale, hanno anche dato un contributo importante agli studiosi di quel periodo per chiarire i legami tra i soggetti eversori e il ruolo dello Stato: «Negli anni Settanta si è abusato dell’idea che ci fosse un “grande vecchio” a manovrare le trame della strategia della tensione. Poi, progressivamente, gli storici hanno abbandonato quest’idea per abbracciarne una con tanti attori e tanti progetti diversi. Dalle sentenze di piazza della Loggia, e poi dai processi per le altre stragi, è emerso che non esisteva nessun grande vecchio, ma di sicuro c’è stata una regia unitaria che ha visti coinvolti i servizi segreti italiani e stranieri, a cominciare da quelli americani, la guardia di finanza, i carabinieri. E dunque in definitiva lo Stato, perché la destabilizzazione dell’ordine pubblico serviva, al contrario, a stabilizzare l’ordine politico e le forze moderate e centriste, allontanando l’estrema destra e l’estrema sinistra».

Attualmente Tramonte è l’unica persona in carcere per la strage di piazza della Loggia. Il 5 ottobre 2022 la Corte d’appello di Brescia respinse la richiesta di revisione presentata dai difensori di Tramonte contro il suo ergastolo. La revisione del processo è una possibilità straordinaria, e piuttosto rara, prevista dal codice di procedura italiano: permette di correggere un errore giudiziario che ha portato a una condanna definitiva. Di fatto è un nuovo processo, che viene istituito soltanto in presenza di argomenti e prove molto forti, valutati da una Corte d’appello, per sovvertire una sentenza passata in giudicato.

A sostegno della richiesta di un processo di revisione la difesa di Tramonte aveva portato quattro “nuove prove”: la Corte d’appello aveva ammesso la testimonianza della sorella e della moglie, secondo le quali nel maggio del 1974 Tramonte aveva la barba, a differenza della foto, oggetto di una consulenza antropometrica finita agli atti, che lo ritraeva invece senza barba in piazza della Loggia il giorno della strage. Il 26 settembre 2023 anche la Cassazione giudicò inammissibile il ricorso presentato dagli avvocati di Tramonte, confermando quanto già stabilito l’anno prima dalla Corte d’appello di Brescia.