Il governo vuole vietare la cannabis light
Il divieto contenuto in un emendamento al disegno di legge sulla sicurezza rischia di bloccare centinaia di produttori e aziende agricole entrati nel mercato negli ultimi anni
Il governo ha presentato un emendamento al disegno di legge sulla sicurezza approvato lo scorso novembre, ora in discussione nella commissione Affari costituzionali e Giustizia della Camera, per vietare la coltivazione e il commercio della cosiddetta cannabis light. L’obiettivo dell’emendamento è dare un’interpretazione più chiara e restrittiva alla legge del 2016 che aveva consentito a centinaia di aziende agricole italiane di produrre e lavorare la cannabis che contiene un basso livello di THC, cioè il principio attivo psicotropo comunemente associato all’effetto stupefacente della marijuana.
Negli ultimi dieci anni in Italia il mercato della cannabis light si è sviluppato grazie a una sorta di vuoto legislativo lasciato dalla legge 242 del 2 dicembre 2016, che regolò la coltivazione della canapa per fini industriali. L’articolo 2 della legge del 2016 permette a chiunque di coltivare cannabis senza autorizzazione se i prodotti sono idonei alla produzione di alimenti e cosmetici, di materiale destinato alla bioedilizia, all’attività didattica o alla ricerca, alla bonifica di siti inquinati, al florovivaismo.
La legge non fa esplicito riferimento al consumo ludico ricreativo: la mancanza di un preciso divieto permise alle aziende di coltivare la cannabis light senza avere conseguenze legali.
Nel gennaio del 2019 intervenne anche la Cassazione chiamata a valutare il ricorso di un coltivatore di Porto Recanati, in provincia di Macerata, a cui la polizia aveva sequestrato piante e infiorescenze. I giudici stabilirono che la polizia avrebbe potuto sequestrare solo un campione di cannabis per verificare che la percentuale di THC non superasse lo 0,6%. Tutte le piante di cannabis che rispettano questo limite rientrano nei limiti della legge del 2016 e non dalla 309 del 1990, cioè la legge Vassalli che regola le sostanze stupefacenti dopo l’abolizione della legge Fini-Giovanardi.
Se, dopo un controllo, il contenuto di THC supera lo 0,6% la polizia può sequestrare o distruggere le piante, ma «anche in questo caso è esclusa la responsabilità dell’agricoltore». La Cassazione stabilì poi che, visto che la coltivazione della cannabis light è legale, lo è anche la sua vendita: la legge non lo specifica perché non ce n’è bisogno, in pratica.
Nel maggio del 2022 un decreto interministeriale per la regolamentazione delle piante officinali era intervenuto per limitare la commercializzazione della canapa ai soli semi e ai loro derivati. Nel febbraio del 2023 il tribunale amministrativo regionale del Lazio aveva infine annullato quel decreto confermando la commercializzazione di tutte le parti della pianta, comprese le infiorescenze e le foglie.
Il nuovo emendamento presentato dal governo, se approvato, modificherebbe in particolare la legge del 2016. L’emendamento vieta «l’importazione, la cessione, la lavorazione, la distribuzione, il commercio, il trasporto, l’invio, la spedizione e la consegna delle infiorescenze della canapa (Cannabis sativa L.) coltivata ai sensi del comma 1, anche in forma semilavorata, essiccata o triturata, nonché di prodotti contenenti tali infiorescenze, compresi gli estratti, le resine e gli oli da esse derivati».
Oltre a compromettere l’intero settore della coltivazione di cannabis light, il divieto di produzione di tutti i prodotti che contengono le infiorescenze limiterebbe molto le attività delle aziende che producono oli di cannabidiolo, o CBD, l’altro principale principio attivo contenuto nella marijuana che se assunto dà prevalentemente una sensazione di rilassatezza. «Questa modifica bloccherebbe un intero comparto di aziende che si è molto sviluppato negli ultimi anni», dice Beppe Croce, presidente di Federcanapa, un’associazione che rappresenta le aziende produttrici di cannabis light.
Secondo diverse stime in Italia sono circa 800 le aziende agricole che coltivano cannabis light oltre a 1.500 ditte specializzate nella trasformazione per un totale di circa 10mila lavoratori. «È un settore frammentato, che tuttavia negli ultimi anni è riuscito a sviluppare una filiera. C’è chi ha piccoli appezzamenti, chi le serre, senza dimenticare i negozi e i tabaccai», continua Croce. «Molte aziende che estraggono olio di CBD hanno fatto investimenti significativi negli ultimi anni, che sarebbero vanificati da questo divieto».
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