C’è sempre più arte in movimento
Le mostre temporanee sono sempre più popolari, e questo comporta un ricorso maggiore a protocolli ben regolamentati e applicati da figure professionali specifiche
di Valerio Clari
Dopo le chiusure forzate dei periodi della pandemia, musei e spazi espositivi italiani negli ultimi anni hanno registrato numeri in crescita. Oltre alle grandi destinazioni turistiche come gli Uffizi o il parco archeologico del Colosseo, alcuni dei risultati migliori appartengono a mostre temporanee: è una tendenza piuttosto consolidata, che negli ultimi anni ha fatto aumentare il numero delle mostre che le varie istituzioni culturali organizzano, anche con qualche polemica sulla loro qualità media.
Nel campo dell’arte, organizzare una mostra temporanea significa quasi sempre chiedere delle opere in prestito ad altri musei o, più raramente, a privati. Concedere o ottenere un prestito comporta trasferire fisicamente il quadro, la scultura, il vaso e ogni altro tipo di opera d’arte: e spostare oggetti preziosi e fragili, spesso con centinaia di anni di storia, implica assicurarli. Per assumersi il rischio di coprire un eventuale danno economico, le assicurazioni pretendono che i trasferimenti siano realizzati da professionisti con competenze specifiche, con tutte le precauzioni possibili. Queste necessità hanno portato alla codifica di procedure standard, che sono uguali più o meno in tutto il mondo. Esistono quindi regole e cure condivise per proteggere opere che spesso vengono definite come “patrimonio dell’umanità”.
Negli ultimi vent’anni ci sono sempre più opere d’arte in movimento, proprio per il maggior successo delle mostre temporanee. Chi lavora nei musei spiega che il pubblico le trova più semplici e immediate rispetto a una collezione permanente. Inoltre essendo eventi con un inizio e una fine, gli appassionati sono più motivati a non perdere l’occasione di vederle.
Federica Manoli è la collection manager, ossia la responsabile della conservazione della collezione, del Museo Poldi Pezzoli di Milano, dove è in corso la mostra che riunisce dopo oltre 500 anni gli otto pannelli restanti del “Polittico agostiniano”, una grande pala d’altare che il pittore rinascimentale Piero della Francesca realizzò tra il 1454 e il 1469. Uno dei pannelli è del Museo Poldi Pezzoli, quattro arrivano dalla Frick Collection di New York, uno dal Museo Nazionale di Arte Antica di Lisbona, uno dalla National Gallery di Londra e uno dalla National Gallery of Art di Washington. Per alcuni mesi sette pannelli hanno lasciato i loro musei e sono stati portati a Milano. «Movimentare un’opera presuppone sempre sottoporla a un rischio di danneggiamento. Deve esserci una buona ragione per farlo», dice Manoli.
I musei possono avere vari motivi per prestare le proprie opere. Xavier Salomon, vicedirettore della Frick Collection di New York, dice che «il principale dovrebbe sempre essere la scientificità del progetto espositivo: chiunque presenti un progetto importante, come quello del Polittico, otterrà il nostro prestito. Ma le richieste per mostre “inutili” sono frequenti. Diciamo che il 50 per cento delle richieste ottiene una risposta positiva». Per “progetto scientifico” della mostra si intende l’obiettivo di studio, teorico o divulgativo che l’esposizione si propone di raggiungere. Non sempre è così chiaro o rigoroso, dato che molte mostre sono ispirate da un motivo puramente commerciale.
Le opere possono essere prestate anche per motivi di studio (studi comparativi, analisi con particolari macchinari) o per far conoscere il museo e il suo patrimonio in zone lontane del mondo. Inoltre musei pubblici e privati collaborano, e spesso ci si basa sull’idea di reciprocità: se oggi concedo questa mia opera a te, domani potrò chiedertene una delle tue. Dice Salomon: «Le opere non dovrebbero essere usate come pedine di scambio, ma succede. Ed è una pratica comunque preferibile a quella che presuppone delle loan fee, dei pagamenti: prestare per fare soldi può essere pericoloso ed eticamente non giusto».
Non succede spesso, nella maggior parte dei casi le opere sono prestate gratuitamente, ma ci sono eccezioni: i prestiti verso spazi espositivi che non hanno una collezione propria e per mostre particolari o per paesi ricchi come quelli del Golfo Persico. Alcuni musei hanno invece previsto un tariffario per concedere le opere (il più noto è il Victoria and Albert Museum di Londra), altri non prestano mai, per statuto o per scelta (Fondation Condé, Wallace Collection, Isabella Stewart Gardner Museum, fra gli altri).
Manoli dice che invece «è assolutamente normale chiedere a chi ha organizzato la mostra di pagare il restauro dell’opera, o di pagare un intervento conservativo per metterla in sicurezza e permetterle di viaggiare, o di pulirla per renderla più adeguata all’esposizione». Per concedere i prestiti altre volte musei con disponibilità economiche limitate chiedono a istituzioni che ritengono più ricche aiuti per rinnovare sale o effettuare restauri anche di altre opere. Salomon dice che le richieste economiche ai musei statunitensi, che spesso sono più ricchi, sono sempre più frequenti e impegnative, anche per il consolidarsi di volontà politiche che vogliono rafforzare il valore del patrimonio artistico italiano, rendendolo più esclusivo.
Anche quando non è richiesto nulla in cambio, i costi per chi riceve l’opera sono alti. Sono a suo carico tutte le spese, a partire dalle più consistenti, quelle per assicurazione e trasporti. Il museo prestatore riceve una richiesta accompagnata dal progetto scientifico e dallo standard facilities report, una scheda tecnica molto approfondita dello spazio espositivo e dell’edificio. È una descrizione degli spazi espositivi: quanti piani, quante scale, dimensioni delle porte, impianti di climatizzazione, sistemi antincendio e antintrusione, ultimi lavori di ammodernamento e così via.
In base a queste informazioni e garanzie, direttori, curatori e registrar dei musei (chi si occupa nello specifico di prestiti ed eventi) valutano l’opportunità del prestito, considerando anche se l’opera è disponibile, se è stata prestata recentemente o se è particolarmente fragile: tavole in legno e pastelli su carta sono fra le più sensibili ai cambi di temperatura e di umidità. La valutazione resta comunque a discrezione del museo, e un responsabile o un restauratore particolarmente pignolo o prudente può fare la differenza.
In caso di parere positivo, il prestito deve essere autorizzato anche dalla Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio, organo territoriale del ministero della Cultura, che valuta in base agli stessi fattori. Per le opere di maggiore valore interviene un terzo giudizio, quello del ministero stesso. Tutto il procedimento prevede vari passaggi burocratici e non è scontato, l’autorizzazione può essere negata: quasi sempre per organizzare una mostra le richieste partono due o tre anni prima. Il passaggio attraverso Soprintendenza e ministero è una peculiarità italiana, non c’è nella maggior parte degli altri paesi occidentali.
La fase successiva è quella dell’assicurazione e dell’organizzazione dei trasporti: della prima si occupano dei broker che valutano per conto dei musei quali siano le compagnie assicurative più vantaggiose. Le coperture assicurative in questo campo vengono definite “da chiodo a chiodo”, cioè coprono tutto il periodo da quando l’opera lascia la sua posizione originaria fino a quando vi fa ritorno. Sono “all risks”, cioè coprono tutto quanto non è espressamente escluso (eventi come “guerra batteriologica, atto di terrorismo, terremoto”) e possono essere anche molto onerose, in base a valore e fragilità dell’opera: per periodi di alcuni mesi possono costare decine di migliaia di euro.
Dei trasporti si occupano società specializzate, i cui dipendenti fanno corsi specialistici: le ditte forniscono casse apposite, doppie e con un alto livello di coibentazione, per limitare gli sbalzi di temperatura e umidità; procedono all’imballaggio e al disimballaggio; si occupano delle licenze di esportazione temporanea per superare le dogane. I trasferimenti avvengono per via aerea o preferibilmente su strada (furgoni, camion): i voli sono considerati più rischiosi perché un eventuale incidente lascerebbe poche speranze di recuperare l’opera.
Le casse vengono composte nelle sale dove l’opera è esposta in modo stabile, e verranno aperte solo nella sala in cui saranno esposte temporaneamente. Spesso sono dotate di rilevatori che segnalano se sono state impropriamente ribaltate o se hanno subito urti. Nelle stive degli aerei vengono imballate con altri pacchi: l’impresa di trasporti deve controllare che non siano materiali potenzialmente dannosi, come liquidi, sostanze infiammabili o simili.
Con l’opera viaggia sempre un dipendente esperto del museo, che svolge la funzione definita di “corriere”: spesso è un curatore o una curatrice, nei casi in cui l’opera sia particolarmente fragile è un restauratore o una restauratrice. Assiste all’apertura della cassa e rimane lì finché l’opera non è nella sua nuova posizione definitiva, dentro la vetrina o appesa nello spazio espositivo. Prima che ciò avvenga deve passare la fase della cosiddetta “acclimatazione”: quando arriva dopo un lungo trasferimento prima di essere aperta la cassa viene lasciata nella sala dove l’opera sarà esposta per alcune ore o una giornata, perché si abitui alle nuove condizioni di temperatura e umidità.
A volte l’assicurazione può richiedere che il corriere viaggi sullo stesso mezzo dell’opera. Manoli racconta che le è successo di trovarsi su un volo per New York e di dover viaggiare con un tappeto molto grande, che poteva stare nella stiva solo se entrava per primo. In fase di carico qualcosa andò storto, e quando cercarono di caricare il tappeto, la cassa non ci stava più e restò a terra: «Mi avvertirono che non era stata caricata quando i portelloni dell’aereo erano già chiusi, dovetti parlare con il capitano per convincerlo a farmi scendere. Altrimenti il tappeto, viaggiando senza di me su un altro volo, non sarebbe stato coperto dall’assicurazione».
Sempre l’assicuratore può richiedere che il trasferimento sia accompagnato da una scorta armata: non è frequente, ma nemmeno così inusuale.
Un corriere del museo segue poi le operazioni di imballaggio, viaggio e disimballaggio di ritorno. Un iter identico è previsto anche per le opere di proprietà dei privati, che spesso hanno interesse a vederle esposte in un museo anche perché questo passaggio ne aumenta tendenzialmente il valore.
Seguendo queste procedure rigorose e piuttosto dispendiose da un punto di vista economico gli incidenti e i danneggiamenti sono molto molto rari e comunque rimediabili con piccole opere di restauro. I costi sono però significativi, soprattutto per le mostre che prevedono di ottenere decine di opere in prestito: i corrieri viaggiano, hanno una diaria, alloggiano e si fermano per uno, due o anche tre giorni a seconda del tipo di viaggio, secondo regole codificate.
Dice Salomon della Frick: «In tempi recenti, dopo la pandemia, alcuni musei e istituzioni stanno cercando di eliminare la figura del corriere, per tagliare i costi». Propongono quindi strumenti elettronici di monitoraggio online, attaccati alle casse, l’apertura di queste in videoconferenza, la redazione a distanza del documento di “condition report”, che definisce lo stato dell’opera. La Frick rifiuta queste soluzioni, dice Salomon: «Quello che serve se qualcosa va storto è un essere umano con il cervello che prenda decisioni in quel determinato momento». Sottolinea invece che c’è anche un tema ambientale, visto che i molti viaggi, soprattutto aerei, hanno un impatto «non molto sostenibile in un mondo che sta cambiando». Per questo ultimamente istituzioni che si fidano l’una dell’altra e devono mandare opere verso la stessa destinazione si mettono insieme e le fanno accompagnare da un solo corriere.
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