Sovrabbondante Alighieri
«La questione, in sé periferica, dice qualcosa di interessante sul modo in cui intendiamo l’istruzione scolastica. Le linee guida del ministero raccomandano almeno venticinque canti nel triennio del liceo; dieci canti al terzo anno dei tecnici, più addizioni a discrezione dell’insegnante nei due anni successivi. Come si traducono in pratica queste indicazioni ministeriali? Che cosa significa ‘fare la Commedia’? Non si potrebbe fare altro?»
Qualche anno fa ho scritto un breve saggio intitolato Dante nel pomeriggio in cui prendevo spunto da una delle tante dichiarazioni di uno dei tanti ministri: bisognerebbe – aveva detto il ministro – tenere aperte le scuole al pomeriggio e in queste ore in più fare dei «percorsi di approfondimento» su Dante, cioè leggere qualche altro canto della Commedia, o rileggere quelli letti in classe durante la mattinata. Osservavo che forse sarebbe stato meglio destinare quelle eventuali ore in più alle scienze, all’informatica, all’inglese, semmai anche al latino, che gli studenti che trovo a Lettere sanno sempre di meno; ma Dante? Di Dante erano e sono piene le librerie, la radio-TV, ora anche il cinema, e soprattutto di Dante è piena la scuola, dato che la Commedia si studia obbligatoriamente per tre anni al triennio delle superiori e facoltativamente (cioè dipende un po’ dall’arbitrio degli insegnanti) al biennio, alle medie, alle elementari, all’asilo (c’è tutto un fiorire di Commedie a fumetti a uso degli impuberi, anche belle, anche fatte benissimo). Quindi no, basta il Dante che c’è, senza addizioni pomeridiane; e anzi, osservavo, forse il Dante scolastico è già anche troppo.
Anni dopo, non ho cambiato idea, al contrario. E mi pare che la questione-Dante, in sé periferica, dica qualcosa di interessante sul modo in cui intendiamo l’istruzione scolastica, e perciò meriti di essere approfondita.
Intanto però è bene ricordare che la lettura di Dante a scuola non è libera, o meglio è libera entro i confini stabiliti dalle linee guida del ministero dell’Istruzione: che non esprimono un obbligo ma un auspicio, un’indicazione di massima circa ciò che in classe va fatto. Ebbene, quanto a Dante le linee guida per i licei raccomandano, a partire dal terzo anno, la lettura della Commedia «nella misura di almeno 25 canti complessivi». Invece, le linee guida per gli istituti tecnici dicono che al terzo anno si dedicherà alla Commedia, cito, «una corposa unità didattica» in cui si spiegherà chi è Dante, quali sono le altre sue opere, e si leggeranno alcuni canti: «orientativamente circa dieci». Nei due anni successivi, dicono sempre le linee guida, «brani della Commedia saranno inseriti in varie unità, in funzione di accostamento o contrasto tematico, o di documento di memoria letteraria, o ancora di comprensione della cultura di un’epoca attraverso la lettura che ha dato Dante».
Quindi: almeno venticinque canti nel triennio del liceo; dieci canti al terzo anno dei tecnici, più addizioni a discrezione dell’insegnante nei due anni successivi.
Come si traducono in pratica queste indicazioni ministeriali? Cioè, che cosa si fa in classe?
La casistica è ovviamente tanto varia quanto sono varie le esperienze: ci sarà sempre qualcuno che riesce a far leggere cento canti di Dante in tre anni, e ci sarà sempre chi liquida la pratica alla svelta per passare a scrittori a lui o a lei più congeniali o meno difficili o più adatti alla scolaresca che ha di fronte. Al terzo anno si legge l’Inferno, e l’impressione è che sia una lettura non ingrata per gli studenti. Più di un insegnante mi ha detto questo: «l’Inferno piace, l’Inferno funziona, potrei leggere l’Inferno tutto l’anno e gli studenti sarebbero contenti». Si capisce perché. L’Inferno è pieno di invenzioni meravigliose, di meravigliosa violenza e crudeltà, e può essere letto come una specie di racconto fantasy. L’anno dopo, il Purgatorio si legge molto meno dell’Inferno. Un po’ perché la sorpresa della Commedia, la sorpresa dell’universo creato da Dante c’è già stata, è già stata assimilata, un po’ perché il Purgatorio, a guardarlo dall’alto, è – dicono gli studenti – «uguale all’Inferno», cioè presenta le stesse pene e gli stessi incontri, salvo il fatto che tutto è meno tragico perché c’è prima o poi la prospettiva della salvezza, del paradiso. E quanto a quest’ultimo, il Paradiso quasi non si legge, per tante buone ragioni: che è troppo difficile; che l’ultimo anno di scuola superiore è più corto degli altri a causa delle gite e dell’esame di Stato; che leggere il Paradiso mentre in letteratura si studia Svevo e in storia la Seconda guerra mondiale è troppo straniante; che arrivati al Novecento ci si accorge che il Novecento è lungo, e tra leggere il canto XVII (o anche il canto XXXIII) del Paradiso oppure qualche pagina di Sciascia si sceglie di leggere qualche pagina di Sciascia.
Quindi, a essere ottimisti: bene l’Inferno, malino il Purgatorio, quasi per niente il Paradiso: con tanti saluti non solo alla famosa ‘unità dell’opera’ ma anche semplicemente alla trama, al filo di narrazione che porta Dante dalle porte dell’inferno all’empireo; e riduzione e semplificazione della prospettiva: la Commedia, cioè l’Inferno, come capolavoro fantasy.
Ma al di là di questo, che cosa significa ‘fare la Commedia’? Un tempo voleva dire soprattutto familiarizzarsi con il linguaggio di Dante, imparare un italiano diverso da quello che si parla in classe. Oggi nei manuali e nelle edizioni scolastiche il testo è quasi interamente parafrasato, perché il divario tra la lingua del poema e quella dell’uso è troppo grande, non solo per gli studenti ma anche per molti insegnanti; inoltre, è passata l’idea che la sostanza conta più della forma, sicché all’apprendistato linguistico si finisce per rinunciare: il testo magari lo si legge ad alta voce in classe, ma anziché indugiare sulle parole di Dante si corre alle note, alla ‘traduzione’, come mi dicono ogni tanto gli studenti. In cambio, si tentano letture trasversali, si valorizzano certi temi, certi personaggi; ho anzi l’impressione che per molti studenti che escono dalle scuole superiori la Commedia sia soprattutto, quando va bene, una galleria di storie e avventure personali: Paolo e Francesca, Ulisse, Virgilio, Farinata degli Uberti, Catone, Stazio, Cacciaguida. Viene in mente quello che qualcuno osservava a fine Ottocento quando I promessi sposi divennero un libro di testo in tutte le scuole superiori: «La favola è quasi la sola cosa che fino ad una certa età si capisca discretamente. Ma tutto il resto, in cui risiede la vera importanza del libro, tanto meno si capisce quant’è più semplice apparentemente e alla mano, appunto perché si crede di capirlo» (G. L. Patuzzi, Il Manzoni nelle scuole, in «Fanfulla della Domenica», 4 gennaio 1885). Nel caso della Commedia non è la favola, quella che si ritiene, dato che la si legge a pezzettini, ma qualcuna delle tante favole che Dante sollecita attraverso le domande che pone agli abitanti dell’aldilà.
Venendo meno la visione complessiva dell’opera, venendo meno la competenza intorno alla lingua di Dante e alla sua tecnica poetica, fissandosi l’attenzione degli insegnanti e degli studenti su isolati episodi o personaggi, la lettura della Commedia finisce per assomigliare alla lettura dell’Odissea o dell’Iliade, l’avventura di Dante e dei suoi personaggi per assimilarsi a quella degli eroi dell’epica.
È un peccato. Ma è pensabile che questa tendenza cambi? Le ore dedicate all’italiano non aumentano, semmai vengono erose dalle iniziative didattiche ministeriali che spuntano come funghi a ogni settembre: ieri le ore di educazione civica, oggi quelle di orientamento, domani chissà. La lingua antica è già, e sempre più sarà, uno scoglio insuperabile per italiani di prima o seconda generazione; lo sforzo di mediazione è già, e sempre più sarà, tanto oneroso da rendere la lettura del testo spesso impossibile, e quasi sempre ingrata: su ragazzi che non hanno mai letto un libro, e non smaniano dalla voglia di farlo, rischia di avere un effetto dissuasivo. Forse è tempo che la Commedia venga effettivamente trattata come si tratta l’epica: raccontandone per esteso la trama, isolando una serie di episodi interessanti scelti dalle tre cantiche, descrivendo nel modo più semplice possibile lo strano universo che ha prodotto un libro del genere (non sarebbe male adoperare Dante per trasmettere agli studenti qualche nozione sulla dottrina cristiana, dato che nel giro di pochi decenni quelle nozioni sono diventate patrimonio di pochissimi). Non venticinque canti, dunque; e nemmeno dieci. Non tre anni ma uno, anzi una frazione (cospicua) di un anno.
Sarebbe una perdita? Sì. Ma la mia impressione – che nasce dall’esperienza di più di vent’anni d’insegnamento all’università, dove il mio primo corso è dedicato appunto alla letteratura medievale – è che questa perdita ci sia già stata, e che quello che teniamo in vita sia un feticcio. E lo teniamo in vita un po’ per acquiescenza, perché così si è sempre fatto, in quel sistema tremendamente inerziale che è la scuola; un po’ perché specie in questi ultimi anni la figura di Dante Alighieri ha assunto la fisionomia del santino, come càpita quando l’autentica reverenza per le cose della cultura si degrada in retorica: crolli pure l’intero sistema dell’istruzione purché si faccia Dante. Come anche càpita, questo processo di santinizzazione ha generato entusiasmi poco meditati, indotti più che altro dal conformismo, cioè dalle implicite richieste dell’istituzione: mi pare che insegnanti e studenti («potrei leggere l’Inferno tutto l’anno e gli studenti sarebbero contenti») siano sempre un po’ troppo propensi a riconoscere l’incanto di versi che sono quasi sempre difficili, e molto spesso noiosi.
A un certo punto di Ferdydurke, Gombrowicz racconta di quell’insegnante che invita anzi impone agli scolari di ammirare il poeta Słowacki. «Perché lo amiamo? Perché era un grande poeta. Un grande poeta! Capito, fannulloni? Capito, ignoranti? Cacciatevelo bene in testa». Ma nella classe c’è un sovversivo: «E io invece non lo ammiro, non l’ammiro per niente! Non mi interessa! Faccio fatica a leggerne due strofe e anche quelle non mi dicono un accidente! Misericordia, come faccia ad ammirarlo se non l’ammiro?». L’insegnante non crede alle sue orecchie: «Ma come non l’ammira? Glielo avrò spiegato almeno mille volte, che l’ammira». Risposta: «E io non l’ammiro». Ogni tanto uno vorrebbe incontrare scolari del genere.
Infine, e soprattutto, teniamo in vita il feticcio-Commedia perché ‘fare Dante’ (o, al biennio, ‘fare Manzoni’) può essere per gli insegnanti un buon modo per non fare letteratura. Ci si familiarizza con questo testo arcano, ci si barrica in questo fortino di cui solo l’insegnante ha la chiave, s’interroga la classe dando un’importanza esagerata a nozioni inessenziali (la Commedia è così piena di stranezze da mandare inutilmente a memoria!) oppure, nella smania di attualizzare un’opera così remota dagli orizzonti degli studenti, proponendo connessioni strampalate (così, poniamo, il quinto dell’Inferno diventa il viatico per una discussione sul femminicidio).
Ma così facendo si schivano la fatica e il rischio di affrontare in classe – e quindi prima di leggere, di conoscere – libri che, meno grandi dei classici, molto più dei classici potrebbero interessare e coinvolgere gli studenti, cioè persuaderli a leggere anche al di fuori della scuola, soprattutto libri scritti negli ultimi due secoli. Si fa l’ora di Dante, la materia-Dante (e l’ora di Manzoni, la materia-Manzoni), come si è sempre fatto: ma, a parte forse al liceo classico, non credo sia questa la dieta letteraria di cui hanno bisogno gli studenti delle ultime generazioni.
(Ringrazio il collega Federico Premi, che mi ha dato lo spunto per questo articolo)