Le nuove regole sul “redditometro” che hanno agitato il governo
Il ministero dell’Economia ha approvato un decreto atteso da anni per regolare un vecchio strumento di controllo fiscale: Lega e Forza Italia si sono dette contrarie, e Meloni ha bloccato tutto
Lo scorso 7 maggio il viceministro dell’Economia Maurizio Leo ha firmato un decreto ministeriale per introdurre nuove regole per il cosiddetto “redditometro”, un vecchio strumento che usava l’Agenzia delle Entrate per comparare le spese di un contribuente con il suo reddito dichiarato, e utilizzarlo come spunto per individuare eventuali somme evase nel caso i due valori non fossero coerenti (peraltro visto che i controlli sono sulle spese, il termine più corretto sarebbe “spesometro” e non redditometro).
È uno strumento che una parte della destra ha sempre contestato e che in generale non è mai stato particolarmente popolare, perché ritenuto lesivo della privacy dei cittadini e delle cittadine. Per questo il decreto è stato criticato da Lega e Forza Italia, tanto che mercoledì sera la presidente del Consiglio Giorgia Meloni ne ha annunciato la sospensione.
Il decreto era stato pubblicato lunedì in Gazzetta Ufficiale ma era atteso da anni, perché il redditometro era stato sospeso nel 2018 con il “decreto Dignità” del primo governo guidato da Giuseppe Conte, di cui la Lega faceva parte. Venne sospeso perché si attendeva un decreto ministeriale che indicasse criteri più precisi per effettuare i controlli sulle spese, e nel frattempo più volte la Corte dei Conti aveva osservato come l’Agenzia avesse poteri limitati senza questo strumento, che infatti aveva avuto risultati assai limitati.
Con il nuovo decreto il governo aveva introdotto nuove regole per far tornare operativo il redditometro: questo ha creato qualche problema politico ai partiti della maggioranza, presi dalla campagna elettorale per le elezioni europee di giugno. Lega e Forza Italia hanno fatto capire che il decreto è arrivato un po’ a sorpresa, e di essere contrari.
Il redditometro rientra tra gli strumenti che in gergo si chiamano di “accertamento sintetico”, perché permettono all’Agenzia delle Entrate di presumere il reddito reale di un contribuente a partire da alcuni indicatori a sua disposizione, tra cui appunto le spese che vengono rilevate dalle banche dati a cui può accedere legalmente: per esempio acquisti di immobili e di automobili, pagamento di rette scolastiche, oppure tutte le altre spese dichiarate, cioè presenti nella dichiarazione dei redditi.
È uno strumento ritenuto molto utile dagli esperti per combattere l’evasione fiscale, ma che da sempre si scontra con evidenti limiti imposti dalle norme sulla privacy: ai fini della lotta all’evasione l’ideale sarebbe poter tracciare tutte le spese dei contribuenti, ma nei fatti l’Agenzia si limita a usare le informazioni di cui si ritrova in possesso per legge, come le dichiarazioni dei redditi, o di cui potrebbe venire a conoscenza incidentalmente nel corso di altri controlli laterali.
Il nuovo decreto ministeriale introduceva 56 voci specifiche di spesa che l’Agenzia può tracciare, tra cui quelle per l’abbigliamento, i generi alimentari, il costo del mutuo o dell’affitto, le bollette, le spese per i mezzi di trasporto di proprietà (rate della macchina o costo dell’assicurazione), ma anche quelle per l’acquisto di borse e valigie, o il pagamento di alberghi e ristoranti. Avrebbe previsto il controllo anche di alcune spese per il tempo libero (videogiochi e abbonamenti alle piattaforme di streaming), e alcune più inusuali come quelle per mantenere un cavallo di proprietà. Menzionava inoltre 9 voci di investimento che l’Agenzia avrebbe potuto controllare, tra cui l’acquisto di immobili e terreni, di titoli finanziari, e anche quelle legate alle manutenzioni straordinarie degli immobili, che l’Agenzia ha a disposizione se per esempio si è fatto domanda per ricevere i bonus edilizi.
In assenza di questi dati nella banche dati il decreto prevedeva l’uso delle spese medie per famiglia stimate dall’ISTAT come riferimento. Con questi dati, l’Agenzia delle Entrate avrebbe elaborato poi il totale delle spese effettuate presumibilmente dal nucleo familiare. Se grazie al redditometro fosse stato individuato uno scostamento superiore al 20 per cento tra il reddito dichiarato e le spese rilevate l’Agenzia delle Entrate avrebbe potuto procedere con ulteriori accertamenti. Sempre secondo il decreto, il meccanismo avrebbe potuto essere applicato ai redditi dichiarati dal 2018 in poi (il decreto diceva dal 2016, ma la legge stabilisce che gli avvisi di accertamenti fiscali possono essere notificati solo «entro il 31 dicembre del quinto anno successivo a quello in cui è stata presentata la dichiarazione»).
Anche se il decreto era atteso da tempo, all’interno del governo le nuove regole hanno creato una certa agitazione in vista del voto europeo dell’8 e del 9 giugno prossimi, e già dal pomeriggio di lunedì l’argomento era su tutti i siti di informazione. Forza Italia ha subito fatto sapere alla stampa di essere «sempre stata contro il redditometro». Anche la Lega ne ha preso le distanze e il suo capogruppo al Senato, Massimiliano Romeo, avrebbe detto di trovare la proposta «un po’ strana» visto che «noi del centrodestra siamo sempre stati critici su questi strumenti». All’agenzia Ansa la Lega ha poi detto che «l’inquisizione è finita da tempo» e «controllare la spesa degli italiani, in modalità grande fratello, non è sicuramente il metodo migliore per combattere l’evasione».
La presidente del Consiglio Giorgia Meloni, che è anche leader di Fratelli d’Italia di cui il viceministro Leo fa parte, aveva inizialmente risposto mercoledì mattina, dicendo che «mai nessun “grande fratello fiscale” sarà introdotto da questo governo» e di essere sempre stata contraria al redditometro, prendendo così le distanze dalla misura. Aveva poi aggiunto di aver chiesto un confronto con Leo. Lo ha poi incontrato nel corso della giornata, e successivamente ha annunciato la sospensione del decreto. Martedì alcuni esponenti di Fratelli d’Italia avevano invece difeso la decisione di Leo, anche se avevano ammesso che non era stata comunicata al meglio.
Non è la prima volta che una decisione del ministero dell’Economia, e in particolare di Leo che ha la delega sul fisco, genera polemiche e costringe Meloni a un intervento per bloccare o correggere iniziative in materia fiscale. Ci sono almeno altri due casi, entrambi peraltro molto simili nel modo in cui sono avvenuti.
Nell’ottobre scorso, durante la travagliata discussione sulla legge di bilancio, erano circolate bozze che includevano anche una sorta di prelievo forzoso, cioè che riconoscevano all’Agenzia delle Entrate la facoltà di pignorare automaticamente una parte dei conti correnti dei contribuenti che avevano un debito di almeno 1.000 euro con lo Stato. La norma venne assai criticata non solo dalle opposizioni ma anche da alcuni esponenti della maggioranza: e alla fine Meloni intervenne con un post su Facebook per escludere l’ipotesi, liquidando le bozze come «documenti non ufficiali».
Una cosa simile era successa un anno prima, sempre con la legge di bilancio. Anche allora erano circolate alcune bozze quasi definitive in cui veniva fortemente limitato l’utilizzo dei pagamenti elettronici con il POS. Il governo intendeva rimuovere l’obbligo per i commercianti di accettare il pagamento elettronico per le cifre inferiori a 30 euro. La norma era però in palese contrasto con uno degli obiettivi inseriti nel Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR), il grande piano di riforme e investimenti finanziato coi fondi europei del Next generation EU di cui l’Italia beneficia per quasi 200 miliardi. Si rischiava dunque di compromettere l’attuazione del piano e di perdere di conseguenza i finanziamenti connessi, e la norma quindi venne cancellata.
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