Il più importante funzionario del Senato

Cosa fa il segretario generale, cambiato di recente dopo 13 anni: è un ruolo poco appariscente, ma sopravvive a governi e legislature e indirizza spesso le scelte del presidente

La storica segretaria generale del Senato, Elisabetta Serafin, con Federico Toniato nel 2014. Toniato le è succeduto giovedì scorso. (AUGUSTO CASASOLI/CONTRASTO)
La storica segretaria generale del Senato, Elisabetta Serafin, con Federico Toniato nel 2014. Toniato le è succeduto giovedì scorso. (AUGUSTO CASASOLI/CONTRASTO)
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Giovedì scorso Federico Toniato è stato nominato nuovo segretario generale del Senato: lo ha annunciato il presidente Ignazio La Russa nell’apertura della seduta mattutina dell’aula. Toniato, stimato giurista padovano che dal 2000 lavora negli uffici del Senato dove ha svolto importanti ruoli amministrativi, è succeduto a Elisabetta Serafin, che aveva quell’incarico dal 10 febbraio del 2011. Serafin dal 14 maggio scorso è stata nominata presidente di Saipem, la società a partecipazione statale che fa parte del gruppo Eni e che si occupa della costruzione di infrastrutture energetiche in Italia e nel mondo.

Il ruolo di segretario generale è molto importante. È poco appariscente, ma è decisivo nel garantire una buona funzionalità dell’aula, delle commissioni, e di tutti gli uffici del Senato, che proprio dal segretario generale dipendono. È di fatto il più alto in grado dell’amministrazione di Palazzo Madama, essendo all’apice dell’organigramma, e risponde solo al presidente. Spesso in realtà è proprio il presidente del Senato a fare affidamento sul segretario generale, sia nella scrittura di atti e circolari, sia nelle decisioni che servono a dirimere questioni legate al bilancio, al personale o alla sicurezza, ma anche nell’organizzazione di eventi. Il segretario generale accompagna infatti il presidente nelle sue visite al Quirinale dal capo dello Stato, e lo assiste durante le visite istituzionali. Ma il suo ruolo è determinante anche nella gestione dell’aula.

Il segretario generale è infatti l’unico a cui sia assegnato un posto fisso tra i banchi della presidenza in aula: siede sempre alla sinistra di chi presiede la seduta, verso cui spesso svolge una funzione di suggeritore. Capita di frequente che, durante il dibattito, vengano poste delle questioni relative al regolamento, con proteste o richieste particolari da parte di questo o di quel gruppo parlamentare, e il presidente – o uno dei vicepresidenti che lo sostituisce – devono prendere decisioni delicate in pochi secondi. Quasi sempre, in questi casi, è al segretario generale che fanno riferimento: lui o lei conosce nel dettaglio i regolamenti e tiene a mente precedenti, sulla base dei quali indirizza le scelte del presidente. Analogamente, anche sulla definizione del calendario e sulla convocazione delle commissioni, il segretario generale esercita una certa influenza sul presidente.

La segretaria generale del Senato Serafin discute con la presidente Casellati e il leader della Lega Matteo Salvini, il 2 dicembre 2021 (GIUSEPPE LAMI/ANSA)

Tutto ciò attribuisce ai segretari generali di Camera e Senato un’autorevolezza che di solito li tiene fuori dalle polemiche politiche. Per via delle funzioni che svolgono, i segretari generali vengono nominati quasi sempre all’unanimità, su proposta dei presidenti dai massimi organi amministrativi delle camere: l’Ufficio di presidenza alla Camera e il Consiglio di presidenza al Senato, composti in entrambi i casi dai vicepresidenti, dai questori e dai segretari d’aula, cioè i parlamentari che hanno i ruoli più importanti nel garantire il buon funzionamento delle camere.

In questo senso, ha un certo peso la durata dei loro mandati, più lunga di quella di una semplice legislatura che dura al massimo cinque anni. Su questo, però, i regolamenti delle due camere differiscono. Se al Senato la funzione non ha una durata stabilita, alla Camera il mandato del segretario generale è stato fissato in sette anni, a seguito di una modifica del regolamento approvata nel 2013, durante la presidenza di Laura Boldrini. In quel momento da oltre 15 anni era segretario generale a Montecitorio Ugo Zampetti, influentissimo giurista romano che dal 2015 è segretario generale della presidenza della Repubblica, uno dei consiglieri più fidati di Sergio Mattarella.

Al Senato, invece, la mancanza di un termine chiaro circa la durata del mandato fa sì che i segretari generali restino in carica molto più a lungo. Solo per stare ai casi più recenti: Damiano Nocilla fu segretario generale dal 1992 al 2002; Antonio Malaschini fino al 2011; e poi, appunto, Serafin, che fu la prima donna ad avere l’incarico. Negli ultimi tredici anni, Serafin ha saputo guadagnarsi una stima trasversale, cosa che non era scontata viste le modalità burrascose con cui venne nominata.

All’epoca il presidente del Senato era Renato Schifani, di Forza Italia. Il 28 gennaio del 2011, il Consiglio dei ministri presieduto da Silvio Berlusconi nominò Malaschini consigliere di Stato, nel più alto organo della giustizia amministrativa, mentre era ancora formalmente in carica come segretario generale del Senato. Le opposizioni di centrosinistra presero lo spunto per criticare la scelta del governo, e queste tensioni si scaricarono anche sulla scelta di chi avrebbe dovuto succedergli.

Serafin, giurista di origine trevigiana e figlia di un commesso che da molti anni lavorava al Senato, aveva iniziato la sua carriera di consigliere parlamentare nel maggio del 1985, ma veniva considerata vicina alla Lega Nord: in particolare, la sua nomina era sostenuta dalla vicepresidente del Senato, Rosi Mauro, storica collaboratrice di Umberto Bossi. Secondo le opposizioni, inoltre, la sua designazione avrebbe violato il rispetto delle graduatorie interne, secondo le quali avrebbe dovuto essere scelto uno dei tre vicepresidenti di Malaschini (uno di loro, Giuseppe Castiglia, era ritenuto vicino al Partito Democratico). Per questo, in maniera piuttosto irrituale, gli esponenti del PD e di Italia dei Valori disertarono la seduta del Consiglio di presidenza in cui Serafin venne nominata. Con l’eccezione di Emanuela Baio Dossi, senatrice lombarda del PD che proprio a seguito di quell’episodio abbandonò il partito con cui era da tempo in conflitto, inviando una lettera al segretario Pier Luigi Bersani in cui tra l’altro scrisse: «In un momento in cui la dignità delle donne è offesa, non si è stati capaci di cogliere l’occasione che si presentava per dimostrare una scelta politica».

Il presidente del Senato Pietro Grasso con Serafin durante l’esame del bilancio di Palazzo Madama, il 24 settembre 2014 (GIUSEPPE LAMI/ANSA)

Se la sua elezione fu politicamente complicata, nel corso del suo mandato Serafin ha però saputo guadagnarsi un’alta considerazione da parte di tutti i partiti politici. Stimata dal PD e anche dal Movimento 5 Stelle, oltre che dai gruppi di destra e centrodestra, le sono state più volte riconosciute grande preparazione tecnica e imparzialità. Ha collaborato con quattro presidenti: tre di centrodestra (Schifani, Maria Elisabetta Alberti Casellati, Ignazio La Russa) e uno di centrosinistra (Pietro Grasso). Ha avuto con tutti un ottimo rapporto, anche se con Casellati non sono mancati i momenti di conflitto su alcune singole decisioni, e si è distinta tra le altre cose per una gestione oculata dei bilanci del Senato, il cui costo per la finanza pubblica si è ridotto in media di circa 33 milioni di euro all’anno dal 2012 a oggi.

Anche La Russa, attuale presidente del Senato, ha fatto spesso affidamento sui suoi consigli in questo anno e mezzo. Quando veniva interpellato dai cronisti su importanti questioni procedurali, La Russa dava spesso risposte come «è la Serafin che comanda», oppure «chiedete alla Serafin». L’ultima volta è stata a dicembre, durante l’approvazione della legge di bilancio, il provvedimento con cui si definisce la politica economica del governo per l’anno seguente. La maggioranza era in affanno nell’esame della legge, e le opposizioni cercavano di complicare le procedure di voto, tirandola per le lunghe. In quelle ore piuttosto concitate in cui il governo cercava di concludere i lavori il prima possibile, sia il ministro per i Rapporti col parlamento Luca Ciriani, sia i capigruppo dei partiti di maggioranza, sono andati più volte nell’ufficio di Serafin per confrontarsi con lei sulle procedure da seguire.

Della sua sostituzione si parlava da tempo. La nomina come presidente di Saipem è stata, come spesso succede in questi casi, una forma di garanzia per il suo futuro: una sorta di buonuscita, insomma. La designazione di Toniato è stata la scelta più prevedibile. Era uno dei vice di Serafin, con deleghe importanti nella gestione delle attività parlamentari e nella comunicazione. Durante il governo tecnico di Mario Monti, tra il 2011 e il 2013, Toniato fu vicesegretario generale della presidenza del Consiglio. La sua nomina è avvenuta all’unanimità, in realtà con un’acclamazione, come ha raccontato La Russa giovedì scorso.