C’era una volta “C’era una volta in America”

«Ecco cosa c’è di universale, in Noodles. Non rifiuta di vendicarsi, ma vuole farlo a modo suo. E il suo “modo di vedere le cose” sono il silenzio e l’assunzione di responsabilità. Mi sembra che non ci sia niente di più universale della conquista di una simile consapevolezza. Questo mi ha insegnato Noodles. Il suo desiderio di riscatto, pur con tutte le ferite autoinflitte e impossibili da rimarginare, è alla base del meccanismo di identificazione che tanto mi ha stravolto dopo la prima visione del film. La ricerca della salvezza, l’accettazione del proprio destino, malgrado la paura e il dolore. L’innocenza si perde una volta sola – Dominic è già morto, per sempre –, e l’immobilità non impedisce al destino di bussare».

L'invecchiamento di Robert De Niro in C'era una volta in America nella mostra C'era una volta Sergio Leone all'Ara Pacis di Roma, 16 dicembre 2019. (Ansa/Giuseppe Lami)
L'invecchiamento di Robert De Niro in C'era una volta in America nella mostra C'era una volta Sergio Leone all'Ara Pacis di Roma, 16 dicembre 2019. (Ansa/Giuseppe Lami)

La prima proiezione di C’era una volta in America, il 17 febbraio 1984, fu un fiasco colossale. La produzione si aspettava un film di non più di 160 minuti, ma Sergio Leone aveva in mente un altro film. Al montaggio finale la durata della pellicola era di quattro ore e mezza, 269 minuti. Nelle sale americane uscì la versione imposta dalla Warner e da Arnon Milchan di un’ora e trentaquattro, 94 minuti, montata in ordine cronologico. L’epopea che conosciamo oggi e che procede per analessi e prolessi, cioè avanti e indietro nel tempo, riproducendo i meccanismi della memoria, era stata ridotta a una gangster story qualsiasi, derubata del respiro universale che l’ha resa un simbolo della condizione umana. Alla luce di queste modifiche, Leone si rifiutò di firmare la versione americana.

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Al Festival di Cannes, il 20 maggio 1984, quarant’anni fa esatti, la durata di C’era una volta in America sarebbe salita a 229 minuti, meno di quelli del primo montaggio, ma molti di più di quelli immaginati dalla Warner. Tuttavia, nonostante l’intervento ricostruttivo di Sergio Leone, molte scene erano state comunque tagliate, interi raccordi narrativi svaniti insieme alle attrici e agli attori che vi recitavano. Una su tutte: Louise Fletcher, premio Oscar per Qualcuno volò sul nido del cuculo, nel ruolo della direttrice del cimitero dove erano sepolti Patrick Goldberg, Philip Stein e Maximilian Bercovicz.

Nel 2011, dopo aver acquistato i diritti del film per l’Italia, Andrea e Raffaella Leone avrebbero affidato il restauro alla Cineteca di Bologna, in collaborazione con The Film Foundation, New Regency e con il sostegno di Gucci. Nel film furono reinserite, complete dell’audio originale, alcune scene eliminate nel primo montaggio: la sequenza del cimitero, cui si accennava poc’anzi, e quella in cui Deborah recita a teatro nel ruolo di Cleopatra. L’attuale extended version-director’s cut dura 251 minuti, 22 in più della precedente.

Sergio Leone cominciò a pensare a C’era una volta in America tra la fine di C’era una volta il West e l’inizio delle riprese di Giù la testa, quindi alla fine degli anni Sessanta. Si era appassionato al romanzo The Hoods, Mano armata, scritto da Harry Grey, che parlava di un gruppo di gangster ebrei. Era una storia autobiografica. Il regista aveva anche incontrato l’autore, in carcere, che però si era mostrato sempre reticente a dare la propria versione dei fatti. Leone iniziò a girare la sua personale storia dell’umanità il 14 giugno 1982, undici anni dopo aver terminato le riprese di Giù la testa. In C’era una volta in America ci sono tutte le ossessioni e i temi ricorrenti in ogni film di Sergio Leone: l’amore, l’amicizia, il tradimento, la memoria, l’epica, la violenza. Il senso di colpa. La vendetta. All’inizio il regista lavorò su versioni orali della sceneggiatura, scartando, in un secondo momento, la prima sceneggiatura scritta da Norman Mailer, e affidandosi in seguito a Franco Arcalli, Enrico Medioli, Leonardo Benvenuti, Piero De Bernardi e Franco Ferrini, che lo avrebbero affiancato nella stesura definitiva del copione.

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Sergio Leone scelse Robert De Niro per il ruolo di Noodles (David Aaronson) il quale decise di partecipare al progetto, che lo aveva appassionato da subito, perché, testuali parole: «Lo avrebbero fatto comunque, con o senza di me». Sulle prime si pensava che Noodles sarebbe stato Joe Pesci ma, dopo aver visto alcuni provini, Leone decise che Pesci era perfetto per il ruolo secondario di Frankie Monaldi. Claudia Cardinale si era candidata per il ruolo di Carol, ma il regista le preferì la meno nota Tuesday Weld. Anche per il ruolo di Max, Leone puntò su un attore quasi sconosciuto: James Woods. Nessuno degli interpreti di Max, Patsy e Cockeye riuscì più a ripetere il successo avuto in C’era una volta in America. Dieci mesi di riprese, iniziate il 14 giugno 1982 e terminate il 22 aprile 1983: C’era una volta in America fu girato tra New York, il lago di Como, Miami, Montreal, Parigi, Venezia – la scena in cui Noodles porta a cena Deborah in un albergo che aveva riservato interamente per loro due è ambientata all’Excelsior al Lido – ma soprattutto a Cinecittà. Quando uscì nelle sale cinematografiche di tutto il mondo fu vietato ai minori di 15 o 18 anni in Brasile, Canada, Finlandia, Germania, Svezia, Irlanda, Norvegia, Nuova Zelanda, Paesi Bassi, Regno Unito, Spagna, Stati Uniti.

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C’era una volta in America contiene due film: quello delle immagini e quello della musica. Sergio Leone ed Ennio Morricone si conoscevano fin dai tempi della scuola e, mai come in questo film, Morricone riuscì a costruire una narrazione parallela che esaltasse e indagasse nel profondo i personaggi. Mai, come in questo film, la musica si infila tra le pieghe più nascoste di Max, di Noodles, di Deborah – e di conseguenza negli occhi di chi guarda – e porta alla luce ciò che nessuno di noi vorrebbe mai vivere, ma vive: la perdita dell’innocenza e la violenza del passaggio nell’età adulta. Un evento straziante a cui, tuttavia, assistiamo non in apertura bensì più di un’ora dopo l’inizio.

[Attenzione: valanga di spoiler in arrivo]

Dominic, il più piccolo della banda di malviventi composta da Patsy, Cockeye, Max e Noodles, cade a terra e viene ucciso con un colpo di pistola da Bugsy, lo spietato boss del quartiere. Noodles lo soccorre e, prima di morire, Dominic gli sussurra: «Noodles, sono inciampato». È da qui che inizia il “romanzo di formazione” di Noodles, che accoltella Bugsy e, subito dopo, anche un poliziotto che tentava di disarmarlo. La galera, gli anni che passano, gli amici ritrovati, tra cui il migliore, il fratello putativo, Max, che va a prenderlo quando esce dal carcere e che ha provveduto ai bisogni della sua famiglia mentre lui era in prigione. Da piccoli delinquenti di quartiere, Noodles, Max, Patsy e Cockeye sono diventati grandi, anche in potenza e crudeltà, ma sono cresciute anche le loro differenze e i conflitti.

«Noi siamo come il destino: chi va a star bene e chi va a prenderselo in culo», dice Max. Ed è proprio il destino uno dei temi più forti del film, quello almeno che mi fece innamorare. Quando lo vidi per la prima volta ero già adulta e avevo la sensazione che tutto stesse per cambiare da un momento all’altro, ma volevo restare sospesa, mantenendo un equilibrio illusorio e, auspicabilmente, eterno. Ero in una fase in cui non volevo capire, né agire, né scegliere. Non volevo, in alcun modo, perdere l’innocenza eppure sentivo arrivare il momento delle ferite che non si rimarginano. C’era una volta in America, mi resi conto, parlava della mia paura di crescere e di soffrire. Ho passato mesi, forse anni, a chiedermi in che modo un personaggio come Noodles mi rappresentasse, eppure non ho mai avuto dubbi: lui ero io. Ma non è accettabile, mi dicevo, sentire così affine un gangster, un uomo che uccide per soldi, per potere, perché ne ha voglia, un uomo che stupra. Questa consapevolezza, più di ogni altra, mi ha frastornato. Com’è possibile che un’adulta poco meno che trentenne trovi normale che Noodles si accanisca contro le donne, contro gli uomini e i bambini: in definitiva contro chiunque si metta sulla sua strada di ladro e assassino?

Alla fine mi è stato chiaro che mi identificavo in lui perché Noodles perde tutto, non sa cosa fare e crede che fuggire equivalga a evitare il proprio destino. Noodles è l’Amleto di Sergio Leone tanto quanto Max è Jago, il paradigma del traditore. Deborah è Gertrude, la madre di Amleto, perché decide lucidamente di precludersi la salvezza, giorno dopo giorno, diventando l’amante del traditore, sposandone la causa e dandogli un figlio. Sia Max che Deborah sono dannati perché hanno scelto di esserlo. Noodles, invece, ha percorso la sua strada fino in fondo e, a differenza di Amleto, riscatterà la sua colpa, sopravvivendo. Trentacinque anni dopo la presunta morte di Max, Noodles torna a New York perché ha ricevuto una lettera. Quando Fat Moe gli chiede cosa significhi quel messaggio, lui gli risponde: «Caro Noodles, anche se t’eri nascosto nel buco del culo del mondo, eccoci, ti abbiamo trovato. Significa: preparati». Fat Moe chiede: «A che?». E Noodles risponde: «Questo non l’hanno scritto». Il Destino lo ha trovato e ha bussato alla sua porta.

La storia salta dal 1933 al 1918 e poi ancora dal 1930 al 1968. E dal 1932 al 1968 e, per finire, al 1933, in un cerchio immaginario che non potrà mai chiudersi, in una resa dei conti che non torneranno mai. C’era una volta in America è il più letterario dei film di Sergio Leone e non solo perché, a differenza degli altri suoi film, è stato tratto da un romanzo. Quando Fat Moe gli chiede cosa avesse fatto in tutti quegli anni, la famosa risposta di Noodles – «Sono andato a letto presto» – ripete l’inizio della Ricerca del tempo perduto di Marcel Proust («Per molto tempo, mi sono coricato presto la sera»), ma lo ribalta perché il tempo è perduto per sempre, non c’è più niente da cercare, figurarsi da recuperare.

L’impossibilità di recuperare il passato, lo struggimento per un’età ormai perduta, la paura, l’urgenza di capire appartengono non solo alla recherche proustiana ma a chiunque si affanni a saldare ogni giorno quello che è stato con quello che sarà, tendendo il tempo come un elastico. Quando, da ragazzo, Noodles si rifugia nel bagno fatiscente del palazzo in cui abita, inizia a leggere Martin Eden di Jack London, la storia di un personaggio con cui Noodles condivide il destino: l’inizio dal basso, il diventare ricchi e potenti, in modi e ambiti diversi, la fine.

Poi c’è l’amore. Quello disperato, violento e incompreso di Noodles per Deborah: «Nessuno t’amerà mai come t’ho amato io», le dice poco prima di violentarla in macchina dopo la cena. Il giorno seguente Deborah partirà per Hollywood e lui la rivedrà solo dopo trentacinque anni. Noodles non riesce a trattenerla, perché Deborah è ambiziosa e consapevole: «Tu mi terresti chiusa a chiave in una stanza e butteresti via la chiave, non è vero? Il guaio è che io ci starei anche volentieri». Un amore che non risparmia nessuno, né chi subisce la violenza, né chi la agisce. Forse, soprattutto, non risparmia Noodles che, quanto più si sente fragile davanti a Deborah, tanto più ricorre alla crudeltà. Ma non cerca assoluzione, pur sperando nel perdono di Deborah.

Noodles è l’antieroe tragico e colpevole che non ha mai posseduto la grammatica dell’amore: perde tutto e deve ricominciare da capo «nel buco del culo del mondo», senza amici – crede che siano morti per colpa sua – e senza l’unica donna che abbia mai amato. C’è, nel legame tra Deborah e Noodles, un’intimità mistica, quasi religiosa. Quando Noodles esce dal carcere e prenota per Deborah e per sé un intero ristorante, le dice: «Sai che leggevo la Bibbia tutte le sere? E tutte le sere io pensavo a te. “Il tuo ombelico è una coppa rotonda | dove non manca mai il vino. | Il tuo ventre un mucchio di grano circondato da gigli. | Le tue mammelle sono grappoli d’uva. | Il tuo respiro ha il profumo delicato delle mele”. C’erano momenti disperati che non ne potevo più e allora pensavo a te e mi dicevo: “Deborah esiste, è la fuori, esiste!” e con quello superavo tutto. Capisci ora cosa sei per me?».

È Noodles, tra i due, quello che ama di più. È lui l’innamorato tradito e saprà davvero fino a che punto soltanto dopo essere andato a teatro a vedere Deborah recitare nei panni di Cleopatra. Solo allora sceglierà di accettare l’invito a una festa, senza sapere che quella festa è un sabba in cui il Diavolo, invece di celebrare la propria vita, si prepara a morire. E il Diavolo è il senatore Bailey. Ma è proprio il rifiuto di riconoscere la vera identità dell’altro a costituire la vendetta di Noodles. «Vede, signor senatore, anch’io ho una mia storia, un po’ più semplice della sua. Molti anni fa avevo un amico, un caro amico. Lo denunciai per salvargli la vita… e invece fu ucciso. Volle farsi uccidere. Era una grande amicizia. Andò male a lui e andò male anche a me. Buonanotte signor Bailey».

Ecco cosa c’è di universale, in Noodles. Non rifiuta di vendicarsi, ma vuole farlo a modo suo. E il suo “modo di vedere le cose” sono il silenzio e l’assunzione di responsabilità. Mi sembra che non ci sia niente di più universale della conquista di una simile consapevolezza. Questo mi ha insegnato Noodles. Il suo desiderio di riscatto, pur con tutte le ferite impossibili da rimarginare, è alla base del meccanismo di identificazione che tanto mi ha stravolto dopo la prima visione del film. La ricerca della salvezza, l’accettazione del proprio destino, malgrado la paura e il dolore. L’innocenza si perde una volta sola – Dominic è già morto, per sempre –, e l’immobilità non impedisce al destino di bussare.

L’ultima inquadratura, con la smorfia sorridente di De Niro dietro un velo, nella fumeria d’oppio, giganteggia nella storia del cinema. Che cos’è C’era una volta in America? È davvero, come aveva dichiarato anche Sergio Leone durante un’intervista, il sogno di Noodles? O forse è la rappresentazione cinematografica della memoria, della psiche umana. È uno squillo di telefono che arriva dal passato e si infila in una scena dopo l’altra, svegliandoci. È la storia di una vendetta. È un romanzo di formazione senza speranza. Non esiste provvidenza, in questo film che non ha vinto l’Oscar, non ha vinto il Golden Globe e nemmeno il David di Donatello. Non esiste lieto fine. È una storia che cammina dritta sul crinale che separa realtà e fantasia. Come disse Sergio Leone, citando Joseph Conrad, durante un’intervista in cui si parlava dell’immensa quantità di tempo impiegata per la lavorazione: «Credevo fosse un’avventura. Invece era la vita».

Gaja Cenciarelli
Gaja Cenciarelli

Vive e lavora a Roma. È specializzata in scritture femminili, in letteratura anglo-irlandese e dei paesi di lingua inglese. Sta ritraducendo tutta l'opera di Flannery O'Connor. Tiene corsi di traduzione e insegna lingua e letteratura inglese. Il suo ultimo romanzo è Domani interrogo (Marsilio).

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