In Italia una persona su dieci è in condizione di povertà assoluta
Nel 2023 abbiamo raggiunto «livelli mai toccati in precedenza», dice il rapporto annuale dell'ISTAT
Se è vero che l’aumento generale dei prezzi degli ultimi tre anni ha comportato un abbassamento del tenore di vita di tutti, lo è particolarmente per quelle persone che l’inflazione ha addirittura spinto sotto la soglia di povertà. Secondo l’ultimo rapporto annuale dell’ISTAT, pubblicato mercoledì, nel 2023 quasi un decimo delle persone in Italia era in una condizione di povertà assoluta, che per definizione implica l’avere un livello di redditi o consumi inferiore a quanto considerato necessario per vivere in modo dignitoso, che viene calcolato ogni anno, distinguendo per regione e per tipologia del comune e per numero ed età dei componenti della famiglia.
Rispetto all’anno precedente è cresciuta di poco, ma la povertà nel 2023 ha comunque raggiunto «livelli mai toccati in precedenza», scrive l’ISTAT. È diventata più diffusa tra la popolazione a partire dal 2020, a causa prima della pandemia e della conseguente crisi economica e poi appunto della crisi energetica e dell’aumento del costo della vita, che hanno cambiato parecchio i consumi delle persone e anche la loro capacità di risparmiare.
Tanto che nel 2023 sono arrivate a vivere in condizioni di povertà assoluta 5,7 milioni di persone distribuite in 2,2 milioni di famiglie, il 9,8 per cento degli abitanti complessivi in Italia e l’8,5 per cento delle famiglie. Rispetto al 2014, anno in cui è cambiata la metodologia per il monitoraggio del fenomeno, le famiglie povere sono quasi 700mila in più, 1,6 milioni di individui.
L’aumento del costo della vita ha poi accentuato una tendenza che era già in atto da tempo, per cui il reddito da lavoro non ha più la capacità di un tempo di tenere fuori le persone dalla povertà. Negli ultimi nove anni sono assai aumentati i poveri anche tra chi ha un impiego: nel 2023 il 7,6 per cento degli occupati era in condizione di povertà, in aumento rispetto al 5,3 per cento del 2019 e al 4,9 del 2014.
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Le cose cambiano però a seconda del tipo di occupazione: l’inflazione ha peggiorato molto di più la situazione di chi ha un reddito fisso, come i lavoratori dipendenti, mentre gli autonomi sono riusciti ad adeguarsi meglio, aumentando per esempio le loro tariffe verso i clienti: col risultato che nel 2023 l’8,2 per cento dei lavoratori dipendenti era in condizione di povertà assoluta, contro il 5,1 degli autonomi.
A livello territoriale ci sono poi le stesse differenze di sempre: nelle regioni del Centro e del Nord Italia l’incidenza della povertà assoluta è inferiore alla media nazionale, mentre è superiore nelle regioni del Sud e delle isole. Tra il 2014 e il 2023 però la distanza tra Nord e Sud si è ridotta, e neanche di poco, come conseguenza di un aumento della povertà assai più marcato al Nord che al Sud.
Tra il 2014 e il 2023 la quota delle famiglie povere è quasi raddoppiata nel Nordovest, dal 4,6 all’8 per cento, ed è addirittura più che raddoppiata nel Nordest, dal 3,6 all’8,0 per cento. Dal centro in giù poi gli aumenti sono meno intensi: nelle regioni del Centro è cresciuta dal 5,5 al 6,8 per cento, e in quelle del Sud dal 9,1 al 10,2 per cento, mentre è rimasta praticamente stabile nelle isole maggiori, dove anzi si è leggermente ridotta dal 10,6 al 10,3 per cento. Se nel 2014 c’erano 7 punti percentuali tra le isole (10,6 per cento) e il Nordest (3,6 per cento), ora ce ne sono solo 3,5: ci sono più poveri, e più equamente distribuiti.
La riduzione del divario territoriale dell’incidenza della povertà segue lo stesso andamento dei consumi mensili di tutte le famiglie in Italia, che sono un primo e importante indicatore del benessere delle famiglie e uno dei parametri su cui si basano proprio le misurazioni della povertà assoluta: dal 2014 al 2023 la spesa media mensile è cresciuta di poco nel Nordovest e nel Nordest; le regioni del Centro hanno colmato il divario con il Nord e quelle del Sud hanno avuto una crescita dei consumi medi superiore a quella nazionale. Anche in questo caso la distanza tra le diverse aree si è ridotta: nel 2014, il divario maggiore era tra le isole e il Nordest, con 963 euro di differenza a scapito delle isole; nel 2023, il divario maggiore è tra le regioni del Nordovest e del Sud: è di 773 euro.
L’indicatore dei consumi medi però non indica un aumento del benessere, in modo marcato dal 2020 in poi: l’effetto è falsato dai risultati degli ultimi tre anni, in cui i prezzi sono aumentati, e quindi per forza di cose la spesa media si è adeguata. Non si sono comprate o fatte cose in più, ma si è speso di più per comprare o fare le stesse cose di prima.
E questo ha pesato molto di più sulle famiglie povere, peggiorandone la situazione. Lo si vede dall’andamento della spesa media equivalente, un dato statistico che serve per confrontare la spesa media mensile di famiglie di ampiezza diversa e con un reddito diverso, e per farlo soprattutto in termini reali, quindi in base a cosa si può effettivamente acquistare: tra il 2014 e il 2023 la spesa media equivalente di tutte le famiglie si è ridotta in media del 5,8 per cento, ma per le famiglie più povere si è ridotta dell’8,8. Questo perché la spesa di chi ha un reddito più basso se ne va quasi tutta per i beni e servizi essenziali, come cibo, bollette e affitto o mutuo, quindi per tutte quelle cose che negli ultimi tre anni sono diventate più costose.
Per sostenere lo stesso tenore di vita, per molte famiglie è diventato più difficile risparmiare: la parte del reddito che si riesce a risparmiare è scesa al 6,3 per cento dal 7,8 del 2022, ed è il valore più basso dall’inizio della serie storica, iniziata nel 1995. Nel 2020, anche per effetto delle restrizioni sociali che limitavano i consumi, era al 15,7.
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