Un tempo i quadri pullulavano di mosche
Una mostra in provincia di Parma raccoglie decine di esempi di una consuetudine della pittura europea tra Quattrocento e Seicento, che aveva più funzioni
Al Labirinto della Masone di Fontanellato, in provincia di Parma, fino al 30 giugno si può visitare “Musca depicta. C’è una mosca sul quadro”, una mostra dedicata ai dipinti che contengono mosche, o per meglio dire alle mosche che si trovano nei dipinti. La mosca è generalmente un insetto considerato molesto e fastidioso, eppure tra la fine del Quattrocento e l’inizio del Seicento fu una presenza ricorrente in decine di opere fiamminghe, tedesche e italiane: è un dettaglio curioso, inatteso e stravagante, che a volte era un semplice virtuosismo, a volte aveva una simbologia precisa, e a volte un po’ e un po’.
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È piuttosto nota la burla che coinvolge i celebri pittori di fine Duecento Giotto e Cimabue, raccontata circa due secoli dopo dal pittore e storico dell’arte Giorgio Vasari: Giotto, l’allievo, disegnò su un dipinto del maestro una mosca talmente realistica che Cimabue cercò di scacciarla più volte, prima di rendersi conto che era stata dipinta. Come ha notato lo storico dell’arte André Chastel, autore nel 1984 di un volume dedicato al tema, con il Rinascimento le mosche dipinte in maniera così verosimile da sembrare vere divennero una specie di simbolo di avanguardia artistica: davano al pubblico l’illusione che si fossero davvero posate sul quadro, con un effetto in stile trompe-l’œil (una tecnica usata per creare l’illusione del tridimensionale su una superficie bidimensionale), e al tempo stesso permettevano ai pittori di affermare la propria abilità tecnica.
Elisa Rizzardi, una delle curatrici della mostra e responsabile della collezione d’arte dell’editore Franco Maria Ricci al Labirinto, da lui voluto, spiega che il cosiddetto inganno della mosca nell’arte italiana è legato in particolare alla scuola del pittore veneto Francesco Squarcione, che visse a inizio Quattrocento e fu maestro tra gli altri di Andrea Mantegna. Secondo le ricerche di Chastel una delle prime opere in cui ne comparve una però fu il Ritratto di un certosino dipinto verso la metà del secolo da Petrus Christus: qui la mosca compare sulla parte inferiore della cornice, come se fosse appoggiata su un davanzale e la persona ritratta stesse dietro a una finestra.
Durante il Rinascimento si trovano mosche molto realistiche in soggetti sacri e profani, tra cui almeno due versioni di Madonna con Bambino del veneziano Carlo Crivelli, databili attorno al 1480, e il Ritratto di Luca Pacioli, attribuito a Jacopo de’ Barbari e risalente a circa 15 anni dopo. Ce ne sono poi una nel Ritratto di una donna della famiglia Hofer di un pittore anonimo tedesco del 1470 e una nella Natura morta della pittrice fiamminga Clara Peeters (1607). Inizialmente furono interpretate perlopiù come semplici esercizi di stile in cui la mosca, a volte di dimensioni sproporzionate rispetto ai soggetti, è un elemento che attira l’attenzione e crea un po’ di disturbo ma anche meraviglia. In altri invece sembrano avere un significato più profondo.
La mosca è un soggetto descritto fin dall’antichità in letteratura perché, come molti insetti, sembra piuttosto insignificante: dal momento che si trova spesso ronzare attorno a frutti marcescenti o sui corpi di animali morti simboleggia anche il decadimento della vita e della natura, nonché la morte. In un capitolo del grosso volume Encyclopedia of Insects dedicato agli aspetti culturali dell’entomologia, cioè lo studio degli insetti, il professore di Biologia dell’Università della California di Northridge James N. Hogue spiega che tra Quattrocento e Seicento si dipingevano mosche non solo come scherzo, per imitazione o per indicare il valore di ciascun piccolo essere del pianeta, ma anche per rappresentare la precarietà della vita terrena.
Come hanno notato anche altri studiosi, Rizzardi ha ricordato che nel Nuovo Testamento il diavolo (o Belzebù) era descritto come “il signore delle mosche”, e che pertanto la presenza della mosca in un quadro poteva indicare un peccato o un commento negativo associato al soggetto dipinto, oppure ancora che era morto. È il caso di un ritratto dell’arciduca Sigismund der Münzreiche, della casa d’Asburgo, dipinto attorno al 1480 da un pittore tirolese anonimo, che ha una mosca sulla giubba: il fatto che le sue dimensioni siano proporzionate suggerisce che non sia semplicemente un virtuosismo, ma piuttosto un commento sulla sua vita piena di vizi e stravaganze. Una mosca dipinta nel ritratto di una donna poteva indicare promiscuità o comportamenti inopportuni, mentre su figure legate al clero corruzione o disonestà.
Ci sono poi le mosche posate sui teschi dipinti dal pittore Barthel Bruyn il Vecchio nel 1524 o in Et in Arcadia ego, dipinto dal Guercino attorno al 1618: un chiaro presagio dello scorrere del tempo e dell’inevitabilità della morte, e quelle tra vasi di fiori o ceste di frutti, dove sempre secondo Rizzardi «sembrano dare movimento in qualcosa che sembra rimanere fisso: le uniche cose vive nella natura morta».
Nel tempo sulla funzione delle mosche dipinte nei quadri sono state fatte altre ipotesi, come quella secondo cui avevano lo scopo di secolarizzare un’opera, cioè di indicare che non era un oggetto da venerare, o quella che dava loro una funzione apotropaica, ovvero il presunto potere di allontanare in qualche modo presunte influenze negative. A ogni modo Rizzardi spiega che le letture più condivise sulla presenza delle mosche – quella dell’inganno artistico e del rimando alla fragilità dell’esistenza – non si escludono per forza.
A partire dal Settecento la presenza della mosca nei dipinti viene attestata sempre meno, anche se poi ricompare nell’arte contemporanea, per esempio in alcuni autoritratti di Antonio Ligabue, uno dei maggiori artisti italiani del Novecento, e in alcune delle opere più famose del surrealista spagnolo Salvador Dalí, che peraltro con le mosche aveva tutto un suo rapporto.
La mostra al Labirinto della Masone, che tra l’altro è considerato il più grande labirinto del mondo, raccoglie oltre 40 opere tra tele, sculture, volumi e disegni realizzati dal Quattrocento a oggi, tutti con la caratteristica di avere da qualche parte una o più mosche. Oltre a quelle dipinte sapientemente nel trompe-l’œil del pittore olandese Martinus Nellius del 1697 o sul frutto dipinto da Giovanna Garzoni sempre nel Seicento, ci sono quelle inserite in un dipinto dell’artista contemporaneo Maurizio Bottoni, quelle che camminano sulla pelle nuda del corpo femminile ripreso nel film di Yoko Ono Fly (1970), o quelle utilizzate nella scultura piuttosto impressionante dell’inglese Damien Hirst.
Quelle nell’opera di Hirst sono centinaia di mosche vere, trattate sotto resina e incollate su un teschio, spiega Rizzardi. Hirst sperimenta con mosche e insetti fin dalla fine degli anni Ottanta, creando opere che hanno «un impatto fortissimo» e suscitano «un certo scalpore» tra il pubblico: l’obiettivo è di metterlo «davanti alla morte senza filtri», osserva Rizzardi, e ricordare che «l’arte non deve per forza essere bella».
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