Due chiacchiere con Neil Hannon
Che a luglio suona in Italia con la sua band dei Divine Comedy, in un concerto organizzato dal Post
di Luca Sofri
«Questa cosa della volpe e l’uva me la scrivo, è la cosa migliore che ho imparato da settimane», dice divertito Neil Hannon dopo che ho cercato di spiegargli (improvvisando un “the fox and the grape”) il modo di dire proveniente dalla favola di Esopo: scopriremo poi entrambi che ce n’è un uso simile anche in inglese, con l’espressione “sour grape”.
Ci siamo visti per preparare il concerto organizzato dal Post a Peccioli il 12 luglio, e lui stesso mi stava raccontando di quando il successo di classifica della sua canzone National Express, nel 1998, lo tenne per qualche tempo in ansia di riuscire a ripeterlo, prima di dirsi che preferiva fare quello che gli piaceva e amen. Più che tenermi il malevolo pensiero sulla volpe e l’uva, glielo dico. Tanto mi ero già fatto riconoscere una volta alla fine di un concerto bresciano dei Divine Comedy (il nome che Hannon si dà da trent’anni come band), dove qualcuno ci aveva presentato e io mi ero goffamente esibito nella recitazione dei primi nove versi del Quinto Canto (quelli che so).
«Ah, sì, mi ricordo quel concerto: ci venne la brillante idea di fare una cover di Under Pressure ma cantando “Brescia” invece di “presciàr”. E nessuno se ne accorse!».
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Non ce ne accorgemmo, in effetti, ma fummo entusiasti lo stesso, nel bel teatro di Brescia affollato. «Il nostro pubblico in Italia è di circa cinquanta persone!», scherza, esagerando: «Le canzoni dei Divine Comedy dovrebbero andare molto più forte, da voi: siete un paese romantico, non avete timore degli intellettuali…». Mi viene da interromperlo, ma rinuncio: non è il caso di spiegare cosa stiamo facendo da noi, con gli intellettuali e con la cultura, e rovinare questa sopravvalutazione.
«Ed è per questo che voglio venire a Peccioli: perché non riusciamo mai a progettare tante date, e se veniamo vogliamo andare in posti speciali come questo. Scherzi a parte sui numeri, i nostri fan italiani sono molto appassionati e cerchiamo di accontentarli. Ci sono i nostri fan americani altrettanto affezionati, Dio li benedica, che non ci vedono da quasi vent’anni. È troppo costoso».
Da quando col Post abbiamo iniziato a “progettare concerti” abbiamo capito quanto sia ovviamente decisivo il rapporto costi/ricavi per le band che decidono di andare in tour, e Hannon ha molta voglia di parlarne e di condividere il suo cruccio: «Se andassimo negli Stati Uniti perderemmo dei soldi, e anche l’ultima volta che siamo venuti in Italia l’abbiamo fatto con una band ridotta: devo dar da mangiare ai cani, riparare il tetto, e pagare l’università di mia figlia. È una cosa orribile, lo so, ma se andiamo in tour con i fiati, coi violini, torniamo a casa e siamo più poveri di quando eravamo partiti. Per questo sono molto contento che a Peccioli siate riusciti a investire anche sul quartetto d’archi».
Quando devo spiegare i Divine Comedy a chi non li conosce, la prima cosa che dico – la più riconoscibile – è questa, in effetti: le orchestrazioni, gli arrangiamenti, una cosa piuttosto unica e inimitata nel pop. E poi ci sono i testi, e le loro invenzioni: «Non solo i testi, ma proprio la scrittura delle canzoni: e per me questo viene prima degli arrangiamenti», mi interrompe Hannon, per evitare che la mia sottovalutazione vada oltre.
«Scrivo di cose di cui gli altri non scrivono, perché credo si possa scrivere di qualsiasi cosa, e mi annoio terribilmente quando le canzoni sono ancora soltanto sulle solite relazioni sentimentali. E nel mettere insieme gli accordi prendo dalla tradizione del pop britannico degli anni Sessanta e Settanta – gran patrimonio! – ma poi allargo a tanto altro, l’american songbook, le canzoni francesi, il cabaret berlinese e naturalmente un sacco di musica classica, anche. Quando avevo un programma sulla BBC mettevo un sacco di Paolo Conte, che adoro: a volte lo chiamano un cantante jazz, ma è un musicista incredibile, che mette insieme di tutto in un patchwork di influenze. È una libertà che adoro».
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Ci sono altri italiani che ti piacciono? «Raffaella Càrra! She’s amazing». Lo dice così, senza accento in fondo: penso di rendermi prezioso provando a spiegargli dove metterlo, ma niente da fare: sostiene che gli sia impossibile, e che con le lingue sia un disastro, «I can’t say that! Per via di questa cosa di noi anglofoni, che pensiamo che tutti debbano parlare la nostra, di lingua: è il nostro maggiore deficit educativo».
Dove vivi adesso? «In Irlanda, contea di Kildare. Io sono nato a Derry, in Irlanda del Nord, ma ci sono radici familiari qui. Ma io non so come sentirmi: sono nato di fatto nel Regno Unito e sono cresciuto nella cultura della BBC e di Top of the Pops: la mia famiglia era establishment anglo-irlandese, “nemici del popolo”. Mio padre era un parroco, poi vescovo, la famiglia di mia madre, i Butler, era una famiglia anglicana, rifugiati in Irlanda del Nord dopo la guerra civile: irlandesi dalla parte sbagliata, quella protestante, che nel Nord possedeva e comandava. Cacciavano, sparavano, cose che mi fanno orrore, e a cui cerco di rimediare. Mio nonno raccontava cose molto razziste, ma io allora non lo sapevo, e mi sembravano molto esotiche».
Ma torniamo alla volpe e l’uva, e a come si è modificata la presenza dei Divine Comedy nel “contesto culturale” britannico. Hannon dice: «C’è una porzione di pubblico che ci conosce e a cui piace l’idea di una musica più intelligente e più interessante di una qualunque “musica pop”. Anche negli anni Novanta quando ebbi la mia “carriera pop”, non era proprio pop, era una musica un po’ stramba. Ma ci sono anche molte persone che mi conoscono per via di Father Ted [una sitcom assai popolare per cui Hannon scrisse una apprezzatissima parodia di canzone per l’Eurovision, ndr] o di Wonka, cose così. Magari sono alla periferia delle loro conoscenze musicali, ma se chiedi ti dicono “ah, mi piace quella dell’autobus” [la canzone National Express, ndr]. Ma va bene così, non è che io abbia mai voluto…».
Ci siamo, Hannon si ferma e realizza che sta rimuovendo qualcosa: «Ok, non è vero, c’è stato un periodo negli anni Novanta in cui davvero volevo diventare una popstar, e andare in tv a Top of the Pops, e fare le cose che avevano fatto i miei eroi musicali nei decenni precedenti. Ma poi all’inizio di questo secolo mi sono ritarato, e ho deciso che sì, volevo fare questo lavoro ma senza preoccuparmi di andare in classifica: che è stata una fortuna, in effetti, perché le classifiche di fatto non esistono più! E più fai le cose che vuoi fare tu, più i tuoi fan lo apprezzano. Non vuol dire che ne guadagnerai di nuovi, ma quelli che hai ti adorano».
Che buffa cosa, penso: sta facendo la riflessione più attuale nel mondo in cui ci aggiriamo noi col Post, quello dei giornali online e della loro sostenibilità. Quello di cui si parla di più oggi è che sia promettente costruire maggiori e intensi coinvolgimenti con una quota più limitata di lettori che non andare a cercare enormi numeri di “visitatori unici” che magari leggono un articolo solo. Bastava chiedere ai Divine Comedy.
«E quindi è stata una cosa improvvisa, dall’oggi al domani. Un giorno volevo entrare nei primi venti, e il giorno dopo mi sono detto chissenefrega: anche perché, sai cosa?, non ci sarei probabilmente entrato nei primi venti». I dati in realtà dicevano altro: ci era entrato sei volte in quattro anni, fino al 1999: con National Express che fu persino ottava, la settimana che al primo posto c’era un dimenticato pezzo house che si chiamava You don’t know me.
«E le soddisfazioni sono arrivate dalla libertà di fare cose meno ortodosse, le colonne sonore, il teatro, le incursioni nella musica classica. I dischi sono il mio lavoro quotidiano, ma poi ci sono i concerti che mi motivano: anzi sono un po’ preoccupato di invecchiare e di non essere più in grado di tenere il palco fisicamente come un tempo. Andare in tour coi tuoi amici è la cosa migliore del mondo: se dovesse finire ci tocca ricominciare a vederci al pub! E domandarci “dove andiamo a cena stasera?”. Invece suoniamo di fronte a persone adoranti, è davvero la cosa migliore del mondo».
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Dovrei spiegare che Hannon ride molto in mezzo a certe frasi, come se realizzasse improvvisamente di avere fatto una battuta che lo fa ridere. È che ho sempre trovato artificiosa e capace di abbassare tutto il ritmo quella cosa che scrivono certi intervistatori: (ride). Immaginatevela, quindi, dove le cose sembrino troppo serie, oppure un po’ imbarazzanti. Tipo: «È cambiata anche la mia relazione con i tour: negli anni Novanta suonare dal vivo era fondamentalmente un modo per rimorchiare, eravamo guidati dagli ormoni. Era tutto lì: sesso, sesso, sesso» (ride). «Ho dovuto cambiare modo di vedere, perché uno deve, perché si cresce: e così ora il mood non è più concentrato su cosa succede dopo il concerto, ma su cosa succede durante, sulla musica, sullo spettacolo. È stupendo, una rivelazione!» (ride).
I biglietti per il concerto del 12 luglio si comprano qui.