Le volte in cui il governo ottiene la maggioranza, pur non avendola

Regolamenti e prassi parlamentari consentono ai presidenti del Consiglio di inventarsi stratagemmi per non perdere le votazioni, specie nelle commissioni parlamentari

Foto di un senatore nascosto dietro ai banchi del Senato
Aula del Senato, 30 novembre 2022 (ANSA/MASSIMO PERCOSSI)
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Martedì è stata una giornata complicata per la maggioranza che sostiene il governo di Giorgia Meloni. In commissione Finanze al Senato si dovevano votare alcuni emendamenti al cosiddetto decreto “Superbonus” proposto dal ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti. Forza Italia, che da sempre si batte per mantenere e rinnovare appunto il Superbonus – le costosissime agevolazioni fiscali per chi ristruttura la propria abitazione migliorandone l’efficienza energetica – si è opposta alle proposte del governo di cui fa parte, mettendo a rischio la tenuta della maggioranza in commissione. Di fronte a questo atteggiamento il governo ha fatto ricorso a procedure un po’ controverse che hanno generato alcune polemiche, ma che sono in effetti abbastanza consuete nei casi in cui la maggioranza rischia di perdere una votazione.

Partiamo da uno strumento spesso utilizzato dai governi per stroncare possibili atti ostili di partiti di maggioranza: la questione di fiducia. Il governo l’ha posta al Senato sul decreto Superbonus, approvato dalla commissione Finanze martedì sera. È una scelta dettata in parte da ragioni tecniche, visto che il decreto, approvato dal Consiglio dei ministri il 29 marzo, deve essere convertito in legge entro sessanta giorni, e dunque entro il 29 maggio dovrà essere votato anche dalla Camera. Ma la decisione di mettere la fiducia è anche politica: di fronte all’atteggiamento ostile e imprevedibile di Forza Italia, che mercoledì non ha partecipato alla seduta dell’aula con la discussione generale sul provvedimento, la fiducia impedisce azioni di sabotaggio. Quando si pone la questione di fiducia, infatti, il governo vincola la propria sopravvivenza all’approvazione del provvedimento messo in votazione: se questo venisse bocciato, il governo cadrebbe. In questo modo Forza Italia è di fatto obbligata ad approvare il decreto.

Lo scontro tra Forza Italia e il ministero dell’Economia è iniziato venerdì scorso, quando Giorgetti ha inviato al Senato un corposo emendamento con cui, come spesso accade, il governo corregge o integra un provvedimento approvato già dal Consiglio dei ministri (in questo caso il decreto Superbonus). Nell’emendamento di Giorgetti c’erano due aspetti che a Forza Italia non piacevano: da un lato l’entrata in vigore della tassa sulle bibite analcoliche zuccherate (sugar tax) a partire da luglio, dall’altro una modifica al Superbonus che prevede l’estensione del periodo – da 4 a 10 anni – in cui lo Stato può rimborsare i cittadini per le spese sostenute per le ristrutturazioni edilizie fatte nel 2024. Forza Italia aveva presentato allora dei subemendamenti: proposte di modifica dell’emendamento governativo, con cui di fatto annullava questi interventi di Giorgetti.

Dopo varie riunioni in cui la maggioranza ha cercato di trovare una sintesi, si è arrivati alla giornata del voto in commissione, martedì, senza un accordo. In commissione Finanze la maggioranza di destra ha un solo voto di margine: 10 su 19 componenti. Il voto del rappresentante di Forza Italia, Claudio Lotito, era dunque determinante. Il presidente della commissione, il leghista Massimo Garavaglia, uomo di fiducia del ministro Giorgetti, ha prima cercato di prendere tempo rinviando più volte il voto su quell’emendamento, il più contestato. Poi, insieme al capogruppo di Fratelli d’Italia Lucio Malan, ha tentato di risolvere lo stallo facendo una cosa ai limiti del regolamento, cioè modificando la composizione della commissione e aumentando il numero di rappresentanti di Fratelli d’Italia in commissione, così da disinnescare la minaccia Lotito.

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È una facoltà che il regolamento riconosce ai presidenti di commissione e ai gruppi parlamentari, ma per capire com’è possibile che Fratelli d’Italia potesse aumentare i propri rappresentanti in commissione bisogna introdurre il concetto di resti.

Le commissioni sono composte rispettando la proporzionalità dei gruppi, cioè dei partiti, così che vi si riproducano gli stessi rapporti che ci sono in aula. Ciascun gruppo indica in ogni commissione un certo numero di propri rappresentanti, nella misura di uno ogni dieci senatori (o deputati, nel caso della Camera). Fratelli d’Italia ha 63 senatori: ciò vuol dire che in ciascuna delle dieci commissioni può essere rappresentata da almeno 6 esponenti. Tuttavia così restano fuori 3 senatori (3 resti). Il regolamento parlamentare prevede che un partito possa aggiungere questi resti nelle commissioni come meglio crede, di volta in volta. Perciò in 7 delle 10 commissioni del Senato Fratelli d’Italia ha 6 rappresentanti, e in 3, a giro, ne ha uno in più (7).

Un senatore non è obbligato a restare fisso in una commissione, ma può essere trasferito da una all’altra. Ed è esattamente quello che martedì Fratelli d’Italia ha provato a fare, spostando Salvatore Sallemi dalla commissione Giustizia alla Finanze. È una pratica abbastanza consueta: all’inizio della scorsa legislatura, per esempio, alla Camera il Movimento 5 Stelle era solito utilizzare i resti per rafforzare la propria rappresentanza nelle commissioni più importanti, come la Bilancio o la Affari costituzionali.

Il presidente del Senato, Ignazio La Russa, e il capogruppo di Fratelli d’Italia Lucio Malan, il 6 febbraio 2023 (FABIO FRUSTACI/ANSA)

In questo caso però la mossa di Lega e Fratelli d’Italia è stata particolarmente controversa. La decisione di spostare Sallemi in commissione Finanze è stata comunicata da Malan al presidente del Senato Ignazio La Russa dopo la pausa pranzo, tra una seduta e l’altra della stessa commissione, nel corso dell’approvazione di un medesimo provvedimento. Cosa inedita: di solito le modifiche alla composizione vengono notificate al presidente del Senato prima dell’inizio dell’esame di un disegno di legge o di un decreto, non in corso d’opera. E anche per questo La Russa ha stabilito che la composizione della commissione sarebbe stata effettivamente modificata solo a partire dal giorno dopo, cioè mercoledì, rendendo inutile l’espediente di Lega e Fratelli d’Italia.

A quel punto il governo ha adottato altri stratagemmi. Prima ha cercato di convincere Forza Italia, accogliendo una delle sue due richieste, e cioè il rinvio dell’entrata in vigore della sugar tax dal luglio prossimo al luglio del 2025. Poi, siccome neppure questa concessione era servita a modificare l’orientamento di Forza Italia sul Superbonus, il governo ha deciso di persuadere un membro dell’opposizione a non votare contro la maggioranza. Si tratta del trentino Pietro Patton, un esponente del gruppo delle Autonomie, gruppo composito che riunisce i vari eletti che rappresentano i movimenti autonomisti.

Patton è stato eletto nella coalizione di centrosinistra in Trentino, e contro esponenti di centrodestra. Vota stabilmente con l’opposizione, sia in commissione sia in aula. Tuttavia martedì il governo ha concesso il proprio parere favorevole a un emendamento presentato da Patton per estendere alle regioni a statuto speciale e alle province autonome di Trento e Bolzano alcuni finanziamenti speciali per le aree colpite da eventi calamitosi. Ottenuto quel che voleva, Patton non ha partecipato al voto, togliendo dunque un voto potenziale alle opposizioni. Già questo rendeva non più determinante il voto di Lotito, che peraltro aveva deciso di astenersi. Nel frattempo, inoltre, anche Dafne Musolino di Italia Viva aveva fatto sapere che avrebbe votato con la maggioranza sull’emendamento del governo.

Gli eventi di martedì sono solo un esempio di come il governo possa riuscire a indirizzare una votazione a suo favore, anche quando inizialmente non ha numeri sufficienti per assicurarsi una maggioranza. In parte sono i regolamenti delle camere a favorire queste operazioni all’apparenza ardite; in parte, più ancora dei regolamenti, conta la capacità politica che un governo ha di forzare più o meno evidentemente quei regolamenti.

Il 24 aprile scorso, per esempio, in commissione Affari costituzionali della Camera la maggioranza era andata sotto durante il voto di un emendamento del Movimento 5 Stelle al disegno di legge sull’autonomia differenziata delle regioni. Dopo aver indetto la votazione ed essendosi accorto dell’assenza di alcuni deputati della Lega, il presidente della commissione Nazario Pagano, di Forza Italia, ha evitato di dichiarare conclusa la votazione che avrebbe visto vincere le opposizioni, sospendendo la seduta e rinviando tutto a due giorni dopo, quando la votazione è andata poi secondo le previsioni e la maggioranza ha vinto.

Altre volte si rivela decisiva la sostituzione di alcuni componenti di una commissione, anche senza aumentare la rappresentanza di un partito. Un caso di questo genere, il più clamoroso forse, avvenne nell’aprile del 2015, quando l’allora presidente del Consiglio e segretario del Partito Democratico Matteo Renzi cambiò in blocco i dieci esponenti del suo partito in commissione Affari costituzionali della Camera. Pur essendo del PD, quei deputati erano contrari all’approvazione della legge elettorale voluta da Renzi stesso, cioè l’Italicum. I dieci esponenti del PD, rappresentanti della minoranza interna, vennero rimpiazzati da deputati più in sintonia con la segreteria.

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