A Giorgia Meloni conviene far fare il lavoro sporco a Giancarlo Giorgetti
Da ministro dell'Economia, il vicesegretario della Lega fin qui si è assunto la responsabilità delle decisioni più impopolari sulla finanza pubblica: sta succedendo di nuovo anche in questi giorni
Le politiche economiche che il governo di Giorgia Meloni ha messo in atto in questo primo anno e mezzo di mandato sono state per lo più improntate a una grandissima prudenza. Il principale garante di questa linea austera è stato ed è il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, vicesegretario della Lega. La scelta di Giorgetti all’Economia non era scontata, e anzi comportò per Meloni un certo affanno; ma si è rivelata quanto mai azzeccata, anche e soprattutto a livello di tattica politica, dal momento che ha in un certo senso messo al riparo la presidente del Consiglio e il suo partito, Fratelli d’Italia, dalle polemiche che spesso vengono innescate da una condotta molto cauta del governo nella gestione dei conti pubblici. Questa dinamica, che si è manifestata varie volte negli ultimi mesi, è la stessa che sta animando lo scontro in atto in questi giorni al Senato, dove Forza Italia sta contestando duramente le proposte del ministro dell’Economia sull’entrata in vigore della sugar tax e sul Superbonus, anche a costo di mettere a rischio la tenuta della maggioranza nella commissione Finanze.
Già durante la campagna elettorale che l’avrebbe vista poi vincere e ottenere l’incarico di formare il governo, Meloni aveva tentato di convincere alcuni prestigiosi economisti ad assumere l’incarico di ministro dell’Economia. Le persone che erano state in vario modo valutate da Meloni avevano tutte un tratto comune: e cioè l’essere piuttosto lontane dalle idee fino a quel momento espresse in politica economica da Fratelli d’Italia. Gli ex ministri dell’Economia Domenico Siniscalco e Daniele Franco, così come l’amministratore delegato di Cassa depositi e prestiti Dario Scannapieco, erano tutti assai incompatibili con le tesi sovraniste ed euroscettiche fino ad allora sostenute da Meloni. Tra i vari, il più corteggiato di tutti fu Fabio Panetta, economista romano di idee conservatrici e allora membro del comitato direttivo della Banca Centrale Europea. A lui Meloni propose insistentemente l’incarico di ministro dell’Economia, anche solo per un breve periodo: l’ambizione di Panetta era infatti quella di diventare governatore della Banca d’Italia, com’è poi accaduto nel novembre scorso. L’ansia di Meloni in questa ricerca riguardava soprattutto la volontà di rassicurare i mercati internazionali sull’affidabilità del governo che stava per formare: e in questo senso l’indicazione di un ministro dell’Economia del genere era necessaria.
Tuttavia la ricerca si rivelò più tribolata del previsto, dato che tutti rifiutarono le proposte di Meloni. Alla fine, un po’ come una soluzione di ripiego, Meloni scelse Giorgetti. Laureato alla Bocconi, per molti anni presidente della strategica commissione Bilancio della Camera (competente sui temi economici), da sempre la persona ritenuta più istituzionale della Lega fin dai tempi di Umberto Bossi, piuttosto stimato dai diplomatici statunitensi: Giorgetti era senza dubbio, tra i dirigenti politici della destra, quello più adatto al profilo di prudente custode dei bilanci statali che Meloni stava cercando.
Ma la nomina di Giorgetti per Meloni era funzionale anche per motivi tattici. Era prevedibile fin dall’inizio, com’è poi effettivamente stato, che Salvini avrebbe via via assunto il ruolo dell’alleato “indisciplinato” all’interno del governo, nel senso che avrebbe cercato di assumere posizioni più estreme per provare a recuperare il consenso elettorale perso negli ultimi anni proprio a favore di Fratelli d’Italia. Fin dall’inizio dell’esperienza di questo governo quindi Salvini ha avuto interesse a distinguersi da Meloni, a criticarne sia pur indirettamente alcune scelte, seguendo una traiettoria opposta a quella della presidente del Consiglio: tanto lei si mostrava moderata e cercava di accreditarsi come una leader responsabile in Europa, tanto il leader della Lega provava a ricollocarsi all’estrema destra della coalizione di governo e a proporsi come il più credibile esponente del sovranismo a cui Meloni è andata via via parzialmente rinunciando.
In questa dinamica le politiche economiche sono centrali, perché le scelte politiche di un governo dipendono in grandissima parte dalle decisioni che vengono prese a livello di finanza pubblica. Senza un ministro dell’Economia che autorizzi certe spese, qualsiasi richiesta di riforma risulta semplicemente insostenibile. Da questo punto di vista la nomina di Giorgetti è stata per Meloni una mossa molto furba: fin qui infatti la persona del governo che ha dovuto ribadire con insistenza la necessità di gestire con rigore i conti pubblici è stata il vicesegretario della Lega, cioè Giorgetti; e Salvini, che della Lega è il segretario, almeno su questi temi non può permettersi polemiche contro il governo di cui fa parte, perché significherebbe appunto sconfessare in primo luogo proprio Giorgetti e il lavoro del suo partito.
Per questo, come spesso raccontano i parlamentari a lui più vicini, Salvini è costretto «a mordersi la lingua». Ma non è solo Salvini a vivere con un certo disagio questa situazione: è un po’ tutta la fazione più radicale della Lega a essere insofferente. Gli esponenti sovranisti più intransigenti del partito, come il senatore Claudio Borghi, il deputato Alberto Bagnai e vari europarlamentari, da anni contestano l’approccio secondo loro troppo responsabile di Giorgetti: a partire dalle alleanze europee, su cui Giorgetti auspica l’avvicinamento al Partito Popolare e il distacco dagli alleati sovranisti; ma anche sul posizionamento internazionale più in generale, su cui Giorgetti è molto atlantista e assai contrario alle tendenze filorusse di Salvini; e poi ovviamente sulle politiche di bilancio che sono centrali da quando è ministro dell’Economia.
Le posizioni assunte in questi mesi da Giorgetti hanno contraddetto, e spesso in maniera clamorosa, alcune storiche battaglie della Lega. Sulle pensioni, per esempio, il ministro dell’Economia ha più volte ribadito come la spesa previdenziale sia eccessiva e alla lunga insostenibile, proprio mentre Salvini rilanciava iniziative per abbassare l’età pensionabile come Quota 41. Sul Meccanismo Europeo di Stabilità (MES), il ministro dell’Economia ha smentito nei documenti ufficiali le tesi sostenute pure dal suo partito sui rischi a cui l’Italia andrebbe incontro ratificando la riforma del fondo europeo, che serve a garantire finanziamenti d’emergenza agli Stati o alle grandi banche dei paesi dell’Unione Europea che dovessero entrare in crisi.
Più in generale, la fermezza di Giorgetti sulla gestione oculata del bilancio pubblico ha scombinato un po’ il gioco delle parti tra gli alleati di governo. Meloni, infatti, ha ribadito spesso la sua totale fiducia nei confronti di Giorgetti: in questo modo, assecondandolo quasi sempre silenziosamente, ha dato copertura e legittimità alle sue iniziative, ma ha lasciato spesso che fosse lui ad assumersi la responsabilità politica delle scelte più impopolari o più difficili da far accettare agli altri colleghi di governo, come per esempio i tagli alle spese dei vari ministeri. Inoltre, il fatto che a Salvini sia di fatto impedito di attaccare il ministro dell’Economia del suo partito ha fatto in modo che Forza Italia diventasse progressivamente l’alleato di governo più critico nei confronti delle decisioni del governo stesso sull’economia. È successo soprattutto su un provvedimento: il Superbonus, cioè la cospicua agevolazione fiscale per gli interventi di ristrutturazione edilizia finalizzati a migliorare l’efficienza energetica di case e condomìni.
– Leggi anche: Sul Superbonus il governo va da una parte, Forza Italia dall’altra
Approvato dal secondo governo di Giuseppe Conte nel maggio del 2020, e sostenuto negli anni convintamente dai partiti della destra anche quando erano all’opposizione, il Superbonus si è rivelato una misura decisamente difficile da gestire dal punto di vista finanziario: insieme agli altri bonus edilizi, è costato finora circa 220 miliardi di euro, circa 150 miliardi in più rispetto a quelli stimati dal ministero dell’Economia nel 2020. Anche per questo, e sia pure tra tentennamenti e contraddizioni all’interno della maggioranza, Giorgetti si è impegnato fin dall’inizio per limitare questa misura, renderla meno conveniente per chi ne usufruiva e per diluirne l’impatto sul bilancio dello Stato.
Dall’altra parte invece Forza Italia, guidata dal ministro degli Esteri Antonio Tajani, da sempre rifiuta di criticare il Superbonus e anzi ha chiesto in più occasioni proroghe e rinnovi, assecondando le richieste dei costruttori e degli imprenditori del settore edilizio. Venerdì scorso Giorgetti ha presentato un emendamento al decreto Superbonus, un provvedimento già di per sé ideato per limitare le spese connesse alla misura. Questo emendamento prevede, tra le altre cose, che il periodo entro cui il governo dovrà restituire ai cittadini le spese sostenute per le ristrutturazioni edilizie sotto forma di credito d’imposta aumenti da 4 a 10 anni.
Tajani ha subito contestato questa decisione, lamentando il fatto di non essere stato consultato per tempo. Soprattutto, Forza Italia critica l’aspetto retroattivo della misura: tra i crediti d’imposta la cui durata dovrebbe essere estesa fino a 10 anni ci sono infatti anche quelli maturati nel 2024. Dunque l’emendamento di Giorgetti riguarderebbe anche i lavori per cui sono già stati chiesti dei rimborsi allo Stato nel corso di questi primi quattro mesi e mezzo. Ne è nata una polemica anche abbastanza dura, all’interno della quale Tajani ha detto che Forza Italia potrebbe votare in dissenso rispetto alla maggioranza. Giorgetti invece è arrivato a minacciare, sia pure in maniera un po’ strumentale come già aveva fatto altre volte, le sue dimissioni.
I parlamentari più vicini a Giorgetti raccontano che più volte in questi mesi il ministro dell’Economia ha spiegato che la situazione dei conti pubblici è molto più complicata di quanto si pensi. Per questo lui non è disposto ad avallare scelte irresponsabili sul piano finanziario, anche se convenienti in ottica elettorale, perché non vuole passare alla storia come il ministro dell’Economia che ha compromesso il bilancio dello Stato.