Tic tic tic SBRANG
«L'approccio alla musica di Steve Albini promanava dalle esigenze oggettive delle band negli anni Ottanta: pochissimi soldi e un’industria musicale ostile al punk. Nella sua esperienza una band indipendente riusciva con fatica a entrare in uno studio dove doveva litigare con ingegneri del suono che cercavano di cambiarle la musica. Serviva un ingegnere del suono che garantisse l’integrità dell’approccio artistico di gente la cui unica idea strutturata di arte era suonare più violenti, brutali e sgradevoli di tutti gli altri. Lui si prese carico del compito. Assecondava i desideri di ogni artista senza fare domande e senza opporre resistenza. Il fatto di aver lavorato con rockstar monumentali come Nirvana, PJ Harvey o Jimmy Page, non intaccò il suo core business: fornire tecnologia e competenza a un prezzo abbordabile per gruppi di scarso appeal commerciale. Per questo è rimasto al centro del mondo della musica per i decenni successivi»
Tic tic tic SBRANG. Potendo scegliere sarei partito da qualcosa di più nobile e meno raccontato, ma come per molti della mia generazione è iniziato tutto con un tic tic tic SBRANG. Tre secondi e mezzo circa di durata totale: tre colpi di bacchette di uno che segna il tempo, e poi il gruppo che entra tutto assieme, basso chitarra batteria, accordi sgraziati, volume davvero troppo alto. La canzone si chiama “Serve The Servants” e apre quello che, oltre trent’anni dopo la sua uscita, rimane per distacco il più famoso disco registrato da Steve Albini. Si chiama In Utero, l’hanno realizzato i Nirvana e nei giorni in cui uscì fu un disco molto controverso. Un brevissimo riassunto del contesto dell’epoca: il precedente album dei Nirvana era stato un caso discografico epocale.
Pubblicato da Geffen con aspettative di vendita piuttosto caute, Nevermind si era affermato in brevissimo tempo come il disco-manifesto di una rivoluzione all’interno del rock statunitense, trasformando i Nirvana in un fenomeno di costume. Ma il disco era e rimane, a livello artistico, il frutto di un compromesso che il chitarrista della band non aveva mai accettato. Era stato registrato con Butch Vig, produttore del giro indipendente da cui i Nirvana provenivano, ma i nastri non erano stati ritenuti pubblicabili e l’etichetta era riuscita a imporre un secondo mixaggio a cura di Andy Wallace. Ne era uscito un disco brillante, meno ruvido, pieno di singoli potenziali, che era stato amato senza riserve da chiunque, con la significativa eccezione della persona che il disco l’aveva scritto. Per l’album successivo Kurt Cobain e i Nirvana decisero di fare le cose a modo loro: avrebbero imposto un produttore e un controllo totale sulla filiera. L’etichetta decise di dar corda alla band, e così si arrivò a Steve Albini. Ingegnere del suono con base a Chicago, già dietro il banco di regia per alcuni dei dischi preferiti di Cobain (tra i vari: Pod delle Breeders, Surfer Rosa dei Pixies e l’intera produzione dei Jesus Lizard).
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In Utero suona come una dichiarazione d’intenti e in quest’ottica la traccia di apertura non potrebbe iniziare in maniera più eloquente. Tic tic tic SBRANG, un suono fastidioso, brutto, sgraziato a cui il gruppo si dedicherà per tutto l’album, alternando canzoni di qualità assoluta e assalti al limite della cacofonia pura. Geffen non amò In Utero e cercò in tutti i modi di respingerlo e ri-registrarlo. I Nirvana rimasero fedeli a sé stessi ma concessero il remixaggio di un paio di canzoni che sarebbero dovute diventare singoli. In seguito Albini avrebbe raccontato di essere stato molto danneggiato dal disco, di aver subito un certo mobbing da parte degli addetti ai lavori e di essere stato additato come responsabile di un disastro occorso ai Nirvana. È un disco ben inquadrato da alcune righe scritte da Eddy Cilìa, ai tempi di una guida al grunge pubblicata da Giunti nel ’99: su Nevermind «le incursioni nel rumorismo fine a sé stesso erano state confinate nella lunga traccia fantasma “Endless, Nameless”. Qui (…) divampano sovente e hanno il perverso gusto della latta di colore scagliata contro un quadro se no bellissimo».
Forse ai tempi alcuni di quelli che ascoltarono In Utero in quei giorni non sapevano ancora che avrebbero dedicato la loro vita al gusto della latta di colore scagliata contro quadri bellissimi. A trent’anni e passa dalla sua uscita, In Utero è ancora il mio Dark Side of the Moon, il disco che utilizzo per testare la resa di un nuovo impianto audio. Il primo su cui l’ho ascoltato era un orrendo walkman vinto coi punti del detersivo nell’anno 1993, l’ultimo è un paio di cuffie bluetooth di mia nipote che ero curioso di provare. Attacco le cuffie, mando il volume a manetta e faccio partire “Serve The Servants”. Ascolto il tic tic tic SBRANG all’inizio del disco e ho tutte le informazioni che mi servono: riconosco la ricchezza dello spettro sonoro negli echi delle bacchette di Dave Grohl, capisco il livello di volume a cui l’impianto può arrivare, eccetera.
Da un punto di vista tecnico, non credo che sia il disco più adatto per questi test. Credo si possa ammettere che alle orecchie di chiunque abbia una preparazione musicale accademica, o anche solo una certa padronanza tecnica di uno strumento, In Utero sia per molti aspetti un disco dozzinale. La sua natura violenta e disturbata è evidente fin dai primi ascolti ed esiste a prescindere dalla coscienza del calvario umano dell’autore di quelle canzoni (che si è suicidato un annetto dopo averle registrate). In questo senso il tic tic tic SBRANG in apertura suona come una lucidissima e chirurgica dichiarazione d’intenti, un marcatore per selezionare naturalmente le persone a cui il disco è davvero dedicato.
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Una parte consistente del fascino della musica è la sua capacità di farci immaginare certe cose. Ascolti un disco e pensi di conoscere le persone che l’hanno realizzato, le loro intenzioni, il loro quotidiano. Questa conoscenza è in realtà il frutto di un’elaborazione personale basata su informazioni incomplete: costruiamo una nostra idea di musica basata su fatti concreti e sull’assenza di elementi che confutino la nostra idea. Un patto informale tra gli artisti e il pubblico impone che i primi accettino di buon grado che qualcuno si faccia idee sbagliate sulla musica, e che sui dischi rimanga quel tanto di mistero che serve a non sbugiardare nessuno. Alcuni dischi, e alcuni artisti, sono così al centro dell’immaginario da rendere quasi impossibile mantenere intatto questo mistero. Recentemente i Nirvana e Steve Albini sono stati intervistati in un episodio del podcast di Conan O’Brien, per celebrare i trent’anni dall’uscita di In Utero. In quell’occasione Steve Albini ha raccontato per la prima volta un aneddoto su come uscirono quei tre secondi e mezzo di musica.
È un episodio avvenuto nel primo giorno di registrazione. Dopo qualche prova con l’acustica e l’impianto, i Nirvana e Albini erano pronti a registrare le tracce base-live in studio, come da prassi del produttore. La prima canzone che la band provò a registrare è “Serve The Servants”; settati i livelli audio dei vari strumenti, Albini fece partire il nastro. Dave Grohl contò un quattro con le bacchette, e il gruppo iniziò a suonare. In quel momento Kurt Cobain azionò un pedale per la chitarra che non aveva usato nelle prove, e i livelli di suono finirono fuori scala; Albini dovette abbassare i canali in fretta e furia per permettere al gruppo di continuare a suonare il pezzo.
Albini lo descrive come un esempio da manuale di «bad engineering from my part»: avrebbe dovuto tenere in conto l’overdrive della chitarra, invece non lo fece e così il pezzo inizia in maniera troppo violenta. Ovviamente i Nirvana avrebbero potuto ri-registrarlo, ma Kurt Cobain aveva trovato gradevole quello sbalzo e decise di tenere la traccia. In altre parole, quella lucidissima dichiarazione d’intenti all’inizio di In Utero è il frutto di un incidente che l’ingegnere del suono non avrebbe voluto accadesse. Se fosse toccata a lui la decisione, la traccia sarebbe stata scartata. Ma Steve Albini non era un tecnico del suono che prendeva questo tipo di decisioni. E così quell’incidente è diventato l’icona del mio amore per la musica.
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Credo che l’aneddoto racconti tanto di quello che è stato Steve Albini, e dei motivi per cui il cordoglio di questi giorni è così corale e intenso. La carriera di Steve Albini è cosparsa di storie come questa. Albini ha registrato una quantità sterminata di dischi. Alcuni di essi sono riconosciuti come opere fondamentali per la storia del rock americano, altri sono dischi orrendi. Il cardine supremo della sua estetica produttiva era la sua ostinata rinuncia a “produrre”, a prendere qualunque tipo di decisione artistica sui dischi che registrava. Questo atteggiamento gli ha permesso di definire un’estetica di secondo grado che milioni di persone in giro per il mondo sono in grado di riconoscere in cinque secondi netti e che lui non ha mai riconosciuto.
Il suo approccio alla musica promanava dalle esigenze oggettive delle band e nasceva nel contesto in cui aveva cominciato a registrare musica negli anni Ottanta: pochissimi soldi per fare il lavoro e un’industria musicale ostile al punk. Nella sua esperienza una band indipendente riusciva con fatica a entrare in uno studio per registrare qualche canzone e nella quasi totalità degli studi doveva litigare con un ingegnere del suono che non capiva la musica della band e cercava di cambiarla. Serviva un ingegnere del suono che garantisse l’integrità dell’approccio artistico di gente la cui unica idea strutturata di arte era suonare più violenti, brutali e sgradevoli di tutti gli altri, e lui si prese carico del compito. Assecondava i desideri di ogni artista senza fare domande e senza opporre resistenza. Grazie a questo approccio è rimasto al centro del mondo della musica per tutti i decenni successivi. Usava la stessa politica di non interferenza con le rockstar monumentali che di tanto in tanto si trovavano a richiedere i suoi servigi; quel che è più importante, il fatto di aver lavorato con Nirvana, PJ Harvey o Jimmy Page non aveva in alcun modo intaccato il suo core business, fornire tecnologia e competenza a un prezzo abbordabile per gruppi di scarso appeal commerciale.
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Pochi giorni fa è uscito il nuovo numero di The Wire. Per uno scherzo del destino, la copertina di giugno è dedicata agli Shellac, la band in cui Albini suonava la chitarra e cantava, per il nuovo disco che esce il 17 maggio. All’interno c’è un’intervista con la band. La parte interessante è nella premessa: Emily Pothast, la giornalista che li intervista, non ha potuto ascoltare l’album in anteprima. È una vecchia politica della band: per evitare circoletti e preferenze, la stampa non riceve copie del disco in anteprima. Non fa eccezione nemmeno una storia di copertina su quella che rimane la rivista musicale più prestigiosa del mondo. La lista di veti e particolarità con cui gli Shellac hanno condotto la loro esistenza è sterminata, ed è tutta volta a parificare il loro pubblico: prezzi ragionevoli, niente accrediti ai concerti, impossibilità di vendere poster della serata al banchetto. Gli Shellac sono il risultato finale di una lista di desideri accumulati in anni di militanza in giro per band dell’underground statunitense, e dal bisogno di continuare a suonare in maniera seria ma non professionale.
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Il primo sottoprodotto della morte di Steve Albini è un bizzarro romanzo collettivo di esperienze vissute da colleghi musicisti e semplici appassionati, con Albini protagonista o presente sullo sfondo. È un romanzo che nella mia bolla di fanatici indie rock supera, in volume ed emotività, qualunque lutto musicale a cui abbia mai assistito. Sono perlopiù storie successe ai bordi del palco, o in tarda notte, e testimoniano di una persona che viveva la musica con l’entusiasmo di un fan e l’accessibilità di un impiegato dell’ufficio postale sotto casa.
Il cordoglio per Steve Albini viene da un pianeta musicale che Steve Albini ha contribuito in maniera fondamentale a creare e tenere in vita, prestando opera per un numero spropositato di artisti, portando a tempo perso la sua poetica artistica sui palchi di tutto il mondo, concedendo interviste a chiunque glielo chiedesse e lasciando sul sentiero un esempio di come condurre la propria esistenza che anche chi non ha lavorato direttamente con lui ha potuto seguire. Gli americani hanno un modo di dire per chi fa quello che dice: «putting his money where his mouth is». Mettere i soldi dove sta la bocca. Funziona particolarmente per Steve Albini, personaggio di loquacità leggendaria e personalità devastante. Ha sempre messo i suoi soldi dove stava la sua bocca e l’investimento ha dato frutti per tutta la comunità. Da buon socialista, credo ne sarebbe stato contento.
L’ossessione pluridecennale per Albini e la sua musica mi ha tenuto per giorni alla ricerca di un testo o una canzone che in qualche modo riassuma tutto quello che lui è stato. Non è così semplice, a dire il vero. È stato importante in così tanti modi e per così tanti aspetti della musica che qualcosa sfugge sempre. Ma d’altra parte il compito di un fan è di ascoltare la musica e immaginare e riempire qualche buco. Così ho deciso che il modo migliore per raccontare Steve Albini e il suo mondo è quello più sbagliato: tre secondi e mezzo all’inizio dell’ultimo disco dei Nirvana. Tic tic tic SBRANG. Un momento di bad engineering in un disco controverso, su cui per un certo periodo lui si pentì di aver lavorato, per giunta uscito per un’odiata major. Ed è in quel momento che viene fuori tutto l’inestimabile valore che Steve Albini ha avuto, e ha ancora oggi, per il mondo della musica.
Post scriptum
In Utero ha guadagnato i suoi gradi di capolavoro assoluto soprattutto ex-post. Negli anni successivi alla fine dei Nirvana la comunità dei loro fan è confluita sul disco e oggi gli riconosce lo status di opera cardine del gruppo, quella che meglio lo rappresenta. Questo ha generato, tra le altre cose, diverse riedizioni dell’album. Nel 2013, in occasione del ventennale, i membri della band ancora in vita hanno deciso di affidare a Steve Albini un nuovo mixaggio del disco. In questa versione “Serve The Servants” inizia con quattro colpi di bacchetta invece che tre. Tic tic tic tic SBRANG.