Alessia Pifferi è stata condannata all’ergastolo
I giudici l'hanno ritenuta colpevole di aver lasciato morire di stenti la figlia di 18 mesi, abbandonandola da sola in casa per sei giorni nel luglio del 2022
Alessia Pifferi è stata condannata all’ergastolo. I giudici l’hanno ritenuta colpevole di aver lasciato morire di stenti la figlia di 18 mesi, Diana, nel luglio del 2022. La sentenza di primo grado è stata pronunciata dal giudice Ilio Mannucci Pacini nel primo pomeriggio di lunedì, al termine di un lungo processo iniziato nel marzo del 2023. Il pubblico ministero che rappresenta l’accusa aveva chiesto l’ergastolo, la difesa della donna invece l’assoluzione. La donna era accusata di omicidio volontario pluriaggravato: significa che le erano contestate diverse aggravanti come la premeditazione, l’aver agito in ambito famigliare e per motivi «futili e abietti». In caso di condanna la pena massima per questo reato è proprio l’ergastolo.
Alessia Pifferi abitava a Milano nella zona di Ponte Lambro, un quartiere vicino all’aeroporto di Linate, nella zona sudorientale della città. Il 14 luglio del 2022, un giovedì, uscì di casa poco prima delle 18 per raggiungere il compagno a Leffe, un comune in Valseriana, in provincia di Bergamo. Lasciò la figlia in casa da sola, senza avvertire parenti, amici o vicini di casa. Pifferi disse al compagno che la bambina era al mare con la sorella. Ai magistrati che la interrogarono disse che pensava di tornare a casa il giorno dopo, invece rimase quasi una settimana lontano da casa. Tornò a Milano soltanto mercoledì 20 luglio, poco dopo le 10 di mattina.
Durante una delle prime udienze del processo, Pifferi disse di essersi subito accorta che la figlia non dava segni di vita. Era immobile dove l’aveva lasciata. Tentò di rianimarla con il massaggio cardiaco, la portò in bagno per bagnarle i piedi, la faccia e la testa nel tentativo di farla rinvenire. Poi la mise nel suo lettino e le spruzzò dell’acqua in bocca per farla bere. Solo allora si rese davvero conto che la bambina era morta: uscì di casa e chiese aiuto a una vicina che chiamò i soccorsi.
Secondo i risultati dell’autopsia la bambina morì di disidratazione. Inizialmente i consulenti della procura dissero che alla bambina erano state somministrate benzodiazepine, cioè psicofarmaci che normalmente vengono usati per gestire gli stati di ansia, per controllare le convulsioni e come sedativi. L’ipotesi si basava sui risultati dell’esame del capello. L’accusa ipotizzò che la bambina fosse stata indotta dai farmaci in una sorta di torpore, per evitare che chiedesse aiuto piangendo. Sul comodino del letto dove fu trovata c’era una boccetta di En, un medicinale che contiene delorazepam, un principio attivo che appartiene al gruppo delle benzodiazepine.
Tuttavia gli esami fatti durante il cosiddetto incidente probatorio, cioè il procedimento con cui si anticipa e si acquisisce la formazione di una prova emersa durante le indagini prima del processo vero e proprio, rivelarono che nella bottiglietta d’acqua e nel biberon lasciato a Diana Pifferi non c’erano «composti di interesse tossicologico». L’esame del capello della consulenza iniziale aveva individuato solo una potenziale contaminazione dovuta ai prodotti utilizzati dalla madre.
Alessia Pifferi aveva sempre negato di aver somministrato sostanze alla figlia, salvo il paracetamolo (il principio attivo della tachipirina). Gli avvocati di Pifferi avevano sostenuto che «l’assenza di benzodiazepine nel biberon e nella bottiglietta dimostra che Alessia è sempre stata genuina nel suo racconto e, sul piano giuridico, che la premeditazione manca di elementi concreti».
Durante il primo interrogatorio, Alessia Pifferi disse ai magistrati che le era già capitato di lasciare a casa la bambina da sola per tutto il fine settimana, dal venerdì al lunedì. Un’amica raccontò agli investigatori che una sera si fermò a dormire insieme a Pifferi, a casa del compagno: «Alessia aveva tenuto Diana nel passeggino. Non l’aveva portata a letto con lei, ma l’ha lasciata lì tutta la notte», ha detto.
In un’udienza dello scorso settembre Pifferi raccontò anche che non sapeva di essere incinta della figlia: le nacque all’improvviso il 29 gennaio del 2021 nel bagno della casa del compagno, in provincia di Bergamo. La bambina, nata prematura, fu ricoverata per un mese e mezzo all’ospedale di Bergamo. Pifferi disse di non sapere chi fosse il padre.
Durante tutto il processo c’era stato uno scontro tra il pubblico ministero Francesco De Tommasi e l’avvocata di Pifferi, Alessia Pontenani, per via della richiesta presentata dalla difesa di una consulenza neuroscientifica, cioè un esame per accertare se Alessia Pifferi fosse capace di intendere e di volere, e quindi processabile. L’accusa si era sempre opposta a questa richiesta sostenendo che l’avvocata, insieme a due psicologhe del carcere di San Vittore dove Pifferi era detenuta, le avessero «messo in testa» di non avere responsabilità in quanto incapace di intendere e di volere.
I giudici della Corte d’Assise avevano infine commissionato una perizia psichiatrica, nonostante il parere contrario dell’accusa. Elvezio Pirfo, perito del tribunale, aveva stabilito che il quadro psichiatrico della donna «non è tale da far scemare in maniera significativa la capacità di intendere e volere né da minarne la capacità di stare consapevolmente in giudizio». Secondo la perizia, insomma, Pifferi era capace di intendere e di volere.
Durante le ultime udienze il pubblico ministero Francesco De Tommasi aveva chiesto ai giudici di condannare Pifferi all’ergastolo. Lunedì mattina, prima della sentenza, l’avvocata di Pifferi Alessia Pontenani aveva chiesto ai giudici di assolverla dal reato di omicidio. «Lei credeva che alla bambina non sarebbe successo nulla», aveva detto. «Non la voleva uccidere, non esiste giuridicamente l’omicidio legato a una morte per disidratazione. Esiste la morte come conseguenza di un altro reato, cioè l’abbandono di minore. Io chiedo che lei venga assolta dal reato di omicidio e condannata per morte come conseguenza del reato di abbandono di minore».
Dopo la sentenza, il pubblico ministero Francesco De Tommasi ha detto che l’ergastolo è una pena giusta e che in questo modo si è riportato al centro del processo la vittima, cioè la figlia di Pifferi. «Ho visto una donna che ha recitato una parte, mi aspettavo l’ergastolo. Vi è stata raccontata una storia che non trova riscontri in questo processo», ha detto il pubblico ministero. «Alessia Pifferi vi è stata descritta come una vittima e una bambina. In questo processo c’è un’unica bambina che si chiama Diana e c’è un’unica vittima che si chiama Diana. C’è una bugiarda che si chiama Alessia Pifferi, c’è un’unica attrice che si chiama Alessia Pifferi. Datele la speranza di compensare attraverso la sofferenza della pena il dolore che prima poi le scorrerà dentro».
La richiesta di perizia psichiatrica sollecitata dalla difesa è anche al centro di un procedimento penale parallelo avviato dal pubblico ministero De Tommasi, che ha chiesto e ottenuto dal giudice per le indagini preliminari di intercettare per due mesi le conversazioni in carcere tra Pifferi e due psicologhe, indagate per falso ideologico insieme all’avvocata Alessia Pontenani. L’iniziativa del pubblico ministero De Tommasi è stata molto criticata dalla camera penale di Milano, l’associazione degli avvocati penalisti che discute con la magistratura e con altre istituzioni dei problemi della giustizia. Secondo la camera penale l’indagine parallela vìola diverse norme e avrà conseguenze che vanno oltre il caso in questione, perché non solo compromette l’assistenza alle persone detenute, ma è un attacco diretto e illegittimo al ruolo della difesa.
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