A chi serve la “gamification” sul lavoro?
Le dinamiche tipiche dei giochi sono ormai diffuse per motivare i dipendenti e farli rendere di più, ma non vuol dire che lavorino davvero più volentieri e meglio
L’utilizzo delle logiche tipiche di giochi e videogiochi in contesti diversi da quelli del gioco, o gamification, è un meccanismo impiegato ormai da tempo per provare a rendere più piacevoli compiti che tendenzialmente non lo sono, come fare movimento o imparare una nuova lingua. Da qualche anno però ci sono sempre più aziende che utilizzano sistemi basati su punti, classifiche e ricompense anche per provare a rendere il lavoro più piacevole, stimolare la competizione tra i dipendenti, motivarli e influenzare positivamente il loro atteggiamento.
Sono meccanismi che secondo diversi studi sul tema possono avere effetti positivi, rendendo più sopportabili compiti sgradevoli soprattutto sul breve periodo. Sono meno significativi gli effetti duraturi, e invece sono state descritte in più occasioni le conseguenze negative, legate a una distorsione delle dinamiche del lavoro che porta effettivamente le persone a lavorare di più, ma senza che a questo corrisponda necessariamente una migliore retribuzione. La gamification è uno strumento che i datori di lavoro decidono generalmente di introdurre per ragioni di produttività, ma può finire per far lavorare peggio le persone, o renderle meno motivate: l’opposto del suo obiettivo.
Secondo l’imprenditore guatemalteco Luis von Ahn, uno dei co-fondatori di Duolingo, la famosa app per imparare nuove lingue, convincere le persone a usare uno smartphone per imparare qualcosa «è come sperare che mangino i broccoli quando accanto a loro c’è il dolce più buono mai preparato». App come Duolingo infatti devono competere sia con la forte dipendenza creata dai social network che con tutte le altre cose che si possono fare con uno smartphone, con il risultato che se si vuole motivare davvero qualcuno a usarla, dice von Ahn, bisogna «fare in modo che i broccoli siano buoni come il dolce».
È a questo che serve la gamification, che comprende elementi come punti, livelli e classifiche, ma soprattutto logiche basate su obiettivi da raggiungere, sfide, strategie, sistemi di ricompense e strumenti che aiutano a misurare i progressi, come i contatori che misurano i giorni consecutivi in cui si utilizza un’app. Sfruttano meccanismi psicologici simili a quelli impiegati per coinvolgere di più gli utenti dei social network, e funzionano perché soddisfano bisogni come quelli della ricerca e della scoperta, della socializzazione, della competitività o della collaborazione, soprattutto in chi apprezza già le dinamiche di gioco.
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Nel 2019 la società di consulenza informatica e revisione contabile Deloitte introdusse un processo di inserimento dei nuovi dipendenti basato su una specie di gioco di sopravvivenza, in cui i neoassunti devono completare certi passaggi, mentre Google usa questo approccio per gestire le spese dei dipendenti in trasferta, che possono decidere se destinare quello che avanza rispetto al budget assegnato a un viaggio futuro, se riceverlo nella busta paga successiva o se donarlo in beneficenza.
In un libro dedicato a questo tema, l’autore e game designer inglese Adrian Hon ha ricordato come i lavoratori di Amazon in India facciano a gara per consegnare i pacchi più velocemente per ottenere gli smartphone e i motorini in palio in una specie di campionato di cricket virtuale. In altre sedi dell’azienda se si gestiscono cento ordini in un’ora si guadagnano crediti da spendere alle macchinette per cibo e bevande. Tra le multinazionali che fanno ricorso a meccanismi simili ci sono Microsoft, Samsung, Unilever, Uber e la catena di grandi magazzini statunitense Target.
In base a un’analisi pubblicata sulla Harvard Business Review l’impiego della gamification – con app a volte obbligatorie, ma anche con altri sistemi – può effettivamente far sentire più motivati i dipendenti e migliorare la loro percezione del lavoro, come suggeriscono anche altri studi. Un esempio è l’esperimento condotto nel 2016 dalla ricercatrice di economia all’Università di Zurigo Jana Gallus su circa 4mila volontari di Wikipedia.
L’obiettivo di Gallus era capire come farli sentire più coinvolti in un compito che spesso è monotono e complicato e funziona appunto su base volontaria. Così assegnò a caso ad alcuni di loro un riconoscimento espresso in stelline, ipotizzando che questo elemento avrebbe contribuito a rendere il lavoro un po’ più divertente, oltre che a farli sentire apprezzati. Secondo i risultati, chi aveva ricevuto una stellina aveva il 20 per cento in più di probabilità di continuare a gestire le voci di Wikipedia il mese successivo rispetto a chi non ne aveva nessuna, e il 13 per cento in più di essere attivo un anno dopo.
Un altro esperimento è stato quello svolto nel 2013 da Ethan Mollick e Nancy Rothbard della Wharton School della Pennsylvania, che coinvolse alcune centinaia di agenti di commercio. I due ricercatori crearono un gioco che ricordava il basket, in cui ogni contratto concluso corrispondeva a un canestro segnato e i “giocatori” vincenti venivano premiati con una bottiglia di champagne. Secondo le loro conclusioni, tuttavia, di fatto il gioco non migliorò in maniera significativa né le vendite né la percezione del lavoro.
Secondo la rivista Wired probabilmente nel primo caso la gamification aveva funzionato perché i volontari di Wikipedia erano già molto motivati a fare quello che facevano, visto che lo facevano per scelta. Se la dinamica di gioco invece viene percepita come forzata (quello che Mollick e Rothbard definiscono «divertimento obbligatorio») invece è probabile che abbia effetti positivi solo su chi è davvero coinvolto, e scoraggi o demotivi gli altri.
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Già nel 2008 il Disneyland Hotel di Anaheim, in California, introdusse un sistema di gamification per contare quanta biancheria veniva lavata e stirata e in che tempi. Uno schermo indicava in verde, giallo e rosso i risultati considerati più o meno soddisfacenti, mentre le lavatrici emettevano un flash ogni volta che i dipendenti rallentavano il ritmo previsto. Quella che avevano soprannominato “la frusta elettronica” li incentivava a lavorare più velocemente, ma portava anche le persone a saltare le pause pur di aumentare i ritmi, faceva restare indietro le lavoratrici incinte e faceva anche aumentare gli infortuni.
I rischi comunque non riguardano solo la perizia sul lavoro, ma anche il benessere mentale. Sarah Mason, un’autista di Lyft, uno dei principali servizi di noleggio di auto con conducente negli Stati Uniti, raccontò al Guardian come il sistema a punteggio dell’app avesse influito sulle sue abitudini sul lavoro. Dopo che il suo feedback medio assegnato dai clienti sull’app del servizio era sceso da 4,91 (“fantastico”) a 4,79 (“ok”), si sentì male fisicamente. Sviluppò «l’abitudine quasi ossessiva di passare l’aspirapolvere» in auto, riempiendola di bottigliette d’acqua, snack e caramelle «per persuadere i passeggeri a darle quelle cinque stelle», perché se la media degli autisti di Lyft resta sotto al 4,6 per un po’ di tempo si rischia di perdere il lavoro.
Stando sopra quella soglia, spiega Mason, si sta tranquilli, ma aumentando ulteriormente il punteggio non si ottiene nessun bonus particolare. «Anzi, stavo perdendoci dei soldi per coccolare i clienti con i dolci e la macchina così scrupolosamente pulita. Ma ciononostante, volevo essere un’autista ben valutata». È questa secondo Mason la cosa brillante e terribile della gamification: «fa leva sul nostro desiderio di essere servizievoli, di essere apprezzati, di essere bravi. Le settimane che ricevo buoni voti, sono più motivata a guidare. Quando sono valutata male, sono più motivata a guidare».
Quello delle app di servizi di noleggio con autista è uno dei settori in cui la gamification è più presente, per la facilità di misurare e controllare le attività dei lavoratori, come succede anche nei servizi di delivery che si servono di rider. Ma è stato stimato che il mercato della gamification negli Stati Uniti passerà dai 9,1 miliardi di dollari del 2020 a quasi 31 nel 2025, anche perché si integra con facilità alle abitudini con cui generalmente hanno già dimestichezza i millennial e le persone della cosiddetta Gen Z, quindi quelle nate dagli anni Ottanta in poi.
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Steve Sims, vicepresidente di un’azienda statunitense che si occupa di gamification confluita in CallidusCloud, ha detto alla rivista di tecnologia e imprese Fast Company che «ci piace intenderlo un po’ come un controllo del comportamento». Un meccanismo che contribuisce insomma a convincere i dipendenti a fare più cose e più spesso e con più solerzia, ma che rappresenta di fatto una strategia indiretta per contenere i costi, spesso in ambienti in cui i lavoratori sono già soggetti a ritmi molto serrati, scrive la rivista anticapitalista Jacobin.
Un’analisi comparativa svolta nel 2017 su 35 studi da alcune ricercatrici dell’Istituto politecnico di Viana do Castelo e dell’università Portucalense di Porto, in Portogallo, dice che l’applicazione della gamification sul posto di lavoro «sembra favorire livelli più alti di motivazione, coinvolgimento e apprendimento, così come di produttività ed efficacia nell’applicazione dei processi organizzativi». Sempre secondo l’analisi sembra contribuire positivamente alla collaborazione, al lavoro di squadra e al benessere dei lavoratori, ma visto che porta a lavorare più velocemente comporta anche più errori.
Nelle ricerche per il suo libro sul tema Adrian Hon spiega di aver osservato effettivamente che con logiche di questo tipo i dipendenti tendono a lavorare di più o a essere più soddisfatti sul breve periodo, ma anche che il loro effetto novità rischia di svanire dopo pochi mesi, senza far cambiare in maniera sostanziale il modo in cui si lavora o l’ambiente di lavoro.
Per Jacobin la ragione è che quelli previsti dalla gamification sono strumenti orientati non tanto a sviluppare le nostre capacità di gioco, quanto a sfruttare i meccanismi della mente che formano abitudini, creano dipendenze e costringono a fare una serie di gesti, anziché incentivare la creatività e la spontaneità. Servono a rendere piacevoli compiti che diversamente non lo sarebbero, ma hanno in realtà poco a che fare coi giochi, fini a sé stessi per definizione, servendo interessi molto utilitaristici. Il problema della gamification, secondo Jacobin, non è nemmeno tanto nel fenomeno in sé, che può aiutare a rendere più sopportabili certi aspetti spiacevoli del lavoro, quanto che è una mera distrazione, «una soluzione inadeguata a un problema più complesso».