Biden e Netanyahu sono più distanti che mai
Il primo ministro israeliano dice che sull'invasione di Rafah andrà avanti per la sua strada senza cedere alle pressioni del presidente statunitense: e ora che succede?
La decisione presa martedì dal presidente degli Stati Uniti Joe Biden di sospendere per la prima volta l’invio di un carico di nuove armi verso Israele ha segnato un nuovo punto di rottura nelle relazioni fra lo stesso Biden e il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu.
Biden e Netanyahu hanno sempre avuto relazioni personali complesse, ma l’amministrazione statunitense aveva appoggiato Israele in modo pressoché incondizionato dopo gli attacchi di Hamas del 7 ottobre. Ora Biden ha minacciato di sospendere anche l’invio di artiglieria e munizioni se Israele attaccherà le zone di Rafah dove hanno trovato rifugio oltre 1,4 milioni di palestinesi in fuga da altre aree della Striscia di Gaza. E Netanyahu ha confermato di voler comunque procedere: «Se dovremo essere soli, saremo soli».
Negli ultimi mesi l’amministrazione statunitense ha mostrato con sempre maggiore frequenza e sempre più apertamente di non condividere il modo in cui Israele sta conducendo la guerra nella Striscia di Gaza. Non sembra però che il governo israeliano abbia ceduto troppo alle pressioni provenienti dal suo principale alleato: la progettata invasione della zona di Rafah, a cui gli Stati Uniti si oppongono, ha reso ancora più evidenti le distanze fra i due paesi e i due leader.
Biden e Netanyahu devono anche rispondere a sempre maggiori critiche interne che li portano in direzioni opposte. L’opinione pubblica statunitense, e soprattutto una componente importante dell’elettorato di sinistra dei Democratici, sono sempre più critici nei confronti del sostegno concesso dall’amministrazione Biden alle operazioni militari israeliane, in cui sono stati uccisi oltre 34mila palestinesi. In vista delle complesse elezioni presidenziali di novembre, che in molti stati americani si potrebbero decidere per poche migliaia di voti, la gestione della crisi a Gaza è diventato un tema centrale.
Netanyahu è invece un leader assai impopolare in Israele e deve rispondere alla componente più estrema della sua maggioranza, che ha minacciato di togliere il proprio sostegno al governo di unità nazionale se le operazioni militari non verranno completate. Per questo Netanyahu ha più volte ribadito che la guerra finirà solo dopo il raggiungimento di una “vittoria totale”, cioè con la distruzione di Hamas.
È un obiettivo che viene considerato dagli esperti di fatto impossibile da raggiungere, ma che per il governo israeliano passa dall’invasione di Rafah, l’unica zona della Striscia ancora non attaccata. Per questo Netanyahu ha risposto alla minaccia statunitense di bloccare l’invio delle armi dicendo: «Se sarà necessario, combatteremo con le unghie. Ma abbiamo molto di più delle unghie».
Giovedì il portavoce per la sicurezza nazionale statunitense John Kirby ha ribadito che il presidente Biden sostiene ancora Israele nell’obiettivo di sconfiggere Hamas, ma ritiene che «entrare nelle zone più popolate di Rafah non rappresenterà un passo avanti verso quell’obiettivo». Al momento è difficile ipotizzare come le posizioni dei due leader possano riavvicinarsi: Biden si era più volte sbilanciato assicurando che un accordo per un cessate il fuoco fosse imminente, ma anche le ultime trattative non hanno portato a nulla.
La politica di Biden di appoggiare pubblicamente il governo israeliano, contando sulla propria capacità di influenzarlo nei colloqui privati, non ha sortito grossi effetti finora e ha messo il presidente statunitense in una difficile posizione politica, rendendo ancora più tesi i rapporti personali con Netanyahu. C’è inoltre da considerare che Biden e Netanyahu non erano mai andati d’accordo durante le loro rispettive carriere politiche. Anche durante l’amministrazione di Barack Obama, quando Biden era vicepresidente, i dissidi tra il governo statunitense e quello israeliano erano frequenti.