Cosa c’è dentro al CPR di Palazzo San Gervasio
Il Centro di permanenza per il rimpatrio dei migranti in Basilicata non è facilmente accessibile, e anche entrandoci non è possibile avere contatti con i migranti detenuti
di Angelo Mastrandrea
Appena varcato il portoncino d’ingresso del Centro di permanenza per il rimpatrio (CPR) di Palazzo San Gervasio, in Basilicata, si viene accolti da un gruppetto di militari in divisa che fanno parte dell’operazione “Strade sicure”. A Palazzo San Gervasio i militari hanno il compito di proteggere il perimetro delle mura esterne e di controllare chi entra e chi esce. Chiedono un documento d’identità e l’autorizzazione della prefettura a entrare nella struttura, poi uno di loro va a chiamare il funzionario di polizia che dovrà accompagnare la visita.
I CPR sono i luoghi in cui vengono detenute le persone in attesa di essere espulse: quelle che non hanno un permesso valido per rimanere regolarmente in Italia e la cui domanda di protezione internazionale è stata respinta. Applicare i decreti di espulsione però è spesso complicato, perché mancano accordi bilaterali con molti dei paesi verso cui dovrebbero tornare le persone detenute, e i tempi di permanenza spesso si allungano. In generale le informazioni su ciò che avviene in questi centri circolano soprattutto grazie alle inchieste giudiziarie, che hanno riguardato il CPR di Milano e proprio quello di Palazzo San Gervasio. Queste inchieste e alcune successive ispezioni di attivisti, avvocati, medici e politici hanno fatto emergere che nei CPR non vengono rispettati i più basilari diritti umani.
Per i mezzi di informazione accedervi non è facile, la richiesta del Post è stata accolta dopo cinque mesi, passando il controllo della prefettura di Potenza, della questura e del ministero dell’Interno.
In mezz’ora di attesa al checkpoint militare non è entrato né uscito quasi nessuno. In giro non si vedono persone e l’atmosfera tra i militari è rilassata. Solo a un certo punto, dal cancello della cosiddetta “area reclusi”, escono alcuni agenti con un giovane. Vanno verso la palazzina dove vengono convalidate o respinte le espulsioni. Li seguono due persone, presumibilmente un avvocato e l’interprete, necessari per lo svolgimento delle udienze, che si svolgono davanti al giudice di pace che arriva da Melfi (provincia di Potenza). Dopo un quarto d’ora escono e lo riportano oltre le sbarre. Passano ancora pochi minuti e arriva il funzionario di polizia che è il responsabile della sicurezza nel centro. Per entrare dentro, il cellulare e i bagagli devono restare fuori, in un armadietto chiuso a chiave.
La struttura si trova in piena campagna, a quattro chilometri da Palazzo San Gervasio, un paese di 4.500 abitanti al confine tra Puglia e Basilicata. È stata costruita su un terreno che negli anni Novanta ospitava una fabbrica di mattoni confiscata a un imprenditore affiliato alla Sacra Corona Unita, la più importante organizzazione criminale pugliese. Nei primi anni Duemila, dopo la confisca, il comune ci fece un centro di accoglienza per i lavoratori migranti che arrivavano d’estate a centinaia per la raccolta dei pomodori. Furono montate 300 tende che i migranti portarono con sé anche a Rosarno, in provincia di Reggio Calabria, dove in autunno si spostavano per la raccolta delle arance.
Poi nel 2010 il centrodestra vinse le elezioni comunali e la nuova giunta decise di chiudere il centro di accoglienza.
I migranti però non hanno mai smesso di andare a Palazzo San Gervasio per lavorare nei campi: cominciano ad arrivare a maggio e vanno via a ottobre. Nel periodo di maggiori arrivi, in piena estate, si contano tra le 1.500 e le 2.000 presenze, con i “caporali”, come vengono chiamati gli intermediari che contribuiscono allo sfruttamento della manodopera, che organizzano il trasporto nei campi. Molti dormono in un centro di accoglienza a pochi chilometri di distanza dal CPR, altri in baracche e masserie nei terreni in cui lavorano, mentre un centinaio ha trovato casa e vive a Palazzo San Gervasio tutto l’anno.
Il primo aprile del 2011 il governo di centrodestra guidato da Silvio Berlusconi vi aprì uno dei tre Centri di identificazione ed espulsione (CIE), creati per affrontare quella che fu definita «emergenza Nordafrica», cioè il massiccio arrivo di migranti con i barconi dopo e durante le cosiddette “primavere arabe” e la guerra in Libia. Su un terreno di un ettaro fu costruito un piazzale di cemento sul quale furono montati 18 tendoni blu con il marchio del ministero dell’Interno.
– Leggi anche: Le fasi del percorso di accoglienza dei migranti, sulla carta
Il centro fu recintato con una rete metallica alta cinque metri e con le maglie strette. «Somigliava a una enorme gabbia per uccelli, per questo da allora lo chiamiamo la voliera», dice Gervasio Ungolo, coordinatore dell’Osservatorio migranti Basilicata. La tendopoli arrivò a ospitare fino a 600 persone, tutti maschi tunisini tra i 18 e i 35 anni.
Le condizioni di queste persone erano inumane e degradanti, come documentarono alcune inchieste giornalistiche. Dopo un’ispezione dei parlamentari del PD Jean-Léonard Touadi, Rosa Calipari e Giuseppe Giulietti, e dopo la pubblicazione di un video registrato dagli stessi detenuti che mostrava una rivolta e un tentativo di fuga di massa con persone ferite e agenti in tenuta antisommossa, alla fine del 2011 il centro fu chiuso. Rimase abbandonato fino al 2017, quando una legge firmata dal ministro dell’Interno Marco Minniti e dal ministro della Giustizia Andrea Orlando, entrambi del PD, aumentò i Centri per il rimpatrio, che fino ad allora si chiamavano Centri per l’identificazione e l’espulsione (CIE). L’ex tendopoli per i migranti di Palazzo San Gervasio fu così ristrutturata e riaperta come CPR.
Oggi il piazzale di cemento è circondato da alte mura e da una rete di recinzione. Le tende sono state sostituite da container e moduli in muratura prefabbricati. Non ci sono alberi, solo qualche ciuffo d’erba al cancello d’ingresso. Il colore dominante è il grigio delle mura e dei pavimenti. Ci sono sbarre e inferriate dappertutto come in un qualsiasi carcere, anche se i migranti «trattenuti», come vengono definiti in gergo burocratico, non hanno commesso reati, ma sono in attesa di essere espulsi perché non hanno un permesso di soggiorno in Italia.
Il CPR è diviso in due settori. Oltre il checkpoint militare c’è un piazzale su cui sono parcheggiate le auto degli operatori e i mezzi della polizia e dei carabinieri, tra cui ci sono anche un paio di pullman. Sulla sinistra c’è una palazzina di un piano con alcuni uffici della questura e le aule in cui si svolgono le udienze di convalida delle espulsioni. Più avanti alcuni prefabbricati ospitano l’ufficio immigrazione, dove i migranti vengono portati per essere identificati e registrati appena arrivano nel centro. C’è anche una stanza per gli avvocati, spesso nominati d’ufficio, e un deposito dove devono lasciare tutto ciò che hanno con sé.
Nel mezzo, all’aperto, ci sono una macchinetta del caffè e un distributore automatico di bibite e snack per il personale che lavora nel centro, per le forze dell’ordine e per gli avvocati, ma non per i migranti.
Proseguendo, si arriva a un campo di calcetto circondato da alte sbarre dove a volte di pomeriggio i migranti vanno a fare una partita: è l’unica attività consentita nel centro, poiché i migranti non possono uscire all’aperto, neppure nel piazzale davanti alle celle, e non ci sono altri spazi di socialità, neppure una mensa. Il pranzo viene portato da un’azienda esterna e ogni migrante riceve una diaria di 2 euro e mezzo al giorno che può spendere come vuole, spesso ordinando del cibo aggiuntivo. Un’inferriata alta cinque metri dipinta di giallo e un cancello separano quest’area da quella di reclusione.
Catia Candido dirige il CPR dal luglio del 2023, quando Officine Sociali, una cooperativa di Priolo Gargallo, in provincia di Siracusa, sostituì la Engel. «Inutile negarlo, qui dentro non è tutto rose e fiori e non è facile gestire un luogo come questo», dice.
A gennaio del 2024 la procura di Potenza ha iniziato le indagini su una trentina di persone, tra cui un ispettore di polizia, diversi medici e due amministratori della società Engel, che aveva gestito il CPR prima dell’arrivo di Candido. L’inchiesta riguarda presunti maltrattamenti sui migranti, che sarebbero avvenuti tra il 2018 e il 2022. Secondo gli investigatori, le persone indagate avrebbero usato in «maniera massiva» e «senza che ce ne fosse bisogno» alcuni psicofarmaci, in particolare il Rivotril, un antiepilettico prescritto anche come tranquillante, per sedare i detenuti e «risolvere le situazioni di tensione provocate dalle forme di disagio psicologico e di dipendenza».
«Le situazioni di degrado e non conformità al rispetto della persona umana e dei diritti in cui si trovavano a vivere i reclusi venivano lenite dall’uso inappropriato di farmaci sedativi volti a rendere gli ospiti innocui e quindi neutralizzare ogni loro possibile lamentela per le condizioni disumane in cui si trovavano a vivere», si legge nell’ordinanza del giudice per le indagini preliminari (gip). In un’indagine parallela, i magistrati hanno parlato anche di «un vero e proprio monopolio dell’assistenza legale» all’interno del centro, con parcelle «in un caso anche di 700mila euro» pagate dallo Stato a un unico studio legale. «Sulla gestione dei CPR è in gioco la credibilità dello Stato», aveva detto il procuratore di Potenza Francesco Curcio durante la conferenza stampa in cui ha illustrato i risultati dell’inchiesta.
A luglio 2023 Officine Sociali si era aggiudicata la gara indetta dal ministero dell’Interno per un importo di 7 milioni e 300 mila euro, calcolato sulla base di 128 migranti e corrispondenti a 46,43 euro al giorno per ogni persona reclusa, di cui 2,50 euro da dare a ciascun detenuto sotto forma di pocket money (la diaria) o di scheda telefonica. Secondo un’elaborazione di ActionAid sugli ultimi dati che riguardano il 2021, la cooperativa in realtà riceve circa 30 euro al giorno per ogni migrante trattenuto. La cooperativa gestisce anche l’hotspot di Taranto (una delle strutture volute dall’Unione Europea per identificare rapidamente, registrare, fotosegnalare e raccogliere le impronte digitali dei migranti arrivati in Europa) e i Centri di accoglienza per richiedenti asilo (CARA) di Treviso e di Borgo Mezzanone, in provincia di Foggia.
Dal 2021 al 2023 ha gestito anche l’hotspot di Pozzallo, in provincia di Ragusa. La direttrice Candido proviene da lì e sostiene che «qui è molto meglio perché i migranti sono molti meno e hanno più spazi a disposizione e una maggiore privacy». La nuova direttrice ci tiene a mostrare che la gestione del CPR è cambiata rispetto a quando c’era la Engel. Ora ci lavorano venti persone, tra medici e infermieri, una psicologa, mediatori culturali, interpreti e altri operatori. Dice che «i medici del centro non prescrivono gli psicofarmaci, ma quando c’è bisogno di una terapia inviamo i migranti da uno specialista esterno».
«Cerchiamo di lasciarli liberi di esprimere le loro emozioni e puntiamo a diminuire o togliere del tutto le medicine, qualche volta anche su loro richiesta», dice Maria Monetti, che lavora nel centro come psicologa.
Il piazzale dell’area reclusi ha una forma circolare. Attorno ci sono i moduli con le sbarre, gli uffici amministrativi di Officine Sociali, la sala per i colloqui con i detenuti e l’infermeria. C’è un problema con il condizionamento, perché i moduli non sono isolati e si soffre il freddo d’inverno e il caldo d’estate, come ha segnalato il Garante nazionale dei detenuti. Sul piazzale non ci sono alberi o zone d’ombra per ripararsi dal sole, né zone coperte per proteggersi dalla pioggia.
All’aperto ci sono solo agenti di polizia. Si intuisce che i migranti si trovano dietro le sbarre, dove sono appesi dei panni ad asciugare. Su 128 posti disponibili, al momento della visita ne sono occupati 92. I detenuti provengono soprattutto dall’Africa settentrionale e dalla Nigeria, qualcuno dall’Europa orientale. Secondo i dati forniti dalla prefettura di Potenza, tra il 2018 e il 2021 a Palazzo San Gervasio sono state recluse 2.479 persone: il 37 per cento erano tunisini, il 14 per cento nigeriani e il 12 per cento marocchini. Di questi ne è stato rimpatriato il 35 per cento, meno della media degli altri sette CPR italiani (48,9 per cento) a causa di una maggiore presenza di migranti che hanno ottenuto una forma di protezione internazionale. Nella relazione al parlamento del 2023, l’ufficio del Garante nazionale dei detenuti ha scritto che delle 6.383 persone recluse nei CPR italiani nel 2022 ne sono state rimpatriate 3.154.
I «trattenuti» di Palazzo San Gervasio sono tutti maschi. La direttrice Candido dice che molti di loro vivevano per strada, alcuni hanno problemi di dipendenza da alcol o sostanze stupefacenti, altri hanno problemi psichiatrici. Non è possibile parlare con nessuno di loro e neppure avvicinarsi alle sbarre. Trascorrono le giornate tra le celle o in un piccolo cortile recintato che si trova davanti a ogni modulo.
La zona in cui sono le celle è costituita da 14 moduli abitativi e ognuno ha due camere con quattro posti ciascuna. A questi si aggiungono altri due moduli destinati all’isolamento, per un totale di altri 16 posti. «La zona, ampio piazzale dove si affacciano le gabbie antistanti i diversi moduli abitativi, sembra replicare lo stile del “canile”», si legge in un rapporto dell’Associazione studi giuridici sull’immigrazione (ASGI). L’ASGI ha visitato il centro a maggio del 2022, denunciando di aver trovato bagni con le porte divelte e stanze piccole e non arredate, che ricordano «le celle medievali della Santa Inquisizione».
L’infermeria è stata allestita in un piccolo container. «Appena arrivano qui dentro vengono portati a fare un check-up medico e un esame tossicologico per valutare l’eventuale tossicodipendenza, poi facciamo un colloquio conoscitivo e prepariamo una scheda psicosociale», dice Monetti. La stanza in cui si svolgono gli incontri si trova in un modulo di fronte all’infermeria, arredata con un tavolo e alcune sedie. «Capiamo bene che nessuno di loro vorrebbe stare qui dentro e cerchiamo di gestire al meglio la loro permanenza», prosegue. Con quelli che vogliono e che parlano meglio l’italiano, Monetti cerca di avviare un percorso terapeutico, anche se «non si tratta della classica psicoterapia perché sarebbe impossibile per me dedicare un’ora alla settimana a ciascuno di loro». In qualche caso va a incontrarli nelle celle e nei casi più difficili prova a organizzare delle sedute di gruppo per permettere anche a chi è più restio di esprimersi. Le condizioni di reclusione, a detta degli stessi gestori del CPR, giustificano in molti casi il fatto che alcuni detenuti diano in escandescenze.
Tornando indietro verso l’uscita, seduto su una panchina nel piazzale dell’area reclusi c’è un detenuto attorniato da un gruppo di poliziotti che lo sorvegliano a vista. È un giovane con la pelle molto chiara e il volto con alcuni tatuaggi indefiniti. A parte questo incontro, per tutto il tempo nel centro c’è stato un grande silenzio. «È stata una mattinata tranquilla», commenta la direttrice Candido, lasciando intendere che non è sempre così.
All’esterno l’avvocato Arturo Covella, che segue diversi migranti reclusi nel CPR, dice che con la nuova gestione di Officine Sociali «c’è stato qualche miglioramento». Tuttavia il problema di Palazzo San Gervasio, secondo lui, è strutturale, perché chi comanda davvero nel centro sono le forze dell’ordine, che hanno come unico obiettivo di garantire la sicurezza «con norme più rigide e una maggiore discrezionalità rispetto alle carceri». Covella ritiene che gli psicofarmaci vengano ancora prescritti con troppa leggerezza. Mostra alcuni documenti che riguardano un suo assistito, un giovane marocchino, che è entrato nel CPR il 12 febbraio.
Era stato inviato a Palazzo San Gervasio dall’ufficio immigrazione di Ancona, dove un medico dell’azienda sanitaria locale aveva attestato che fosse «esente da patologie evidenti che rendano incompatibile l’inserimento» nel CPR. Tra queste, secondo una direttiva del ministero dell’Interno, ci sono i «disturbi psichiatrici», eppure dal giorno seguente e per un mese di fila al giovane sono stati somministrati un antipsicotico e un ansiolitico.
Il decreto-legge del 2017 noto come Minniti-Orlando prevede che per costruire i nuovi CPR vadano privilegiati «i siti e le aree esterne ai centri urbani che risultino più facilmente raggiungibili e nei quali siano presenti strutture di proprietà pubblica che possano essere, anche mediante interventi di adeguamento o ristrutturazione, resi idonei allo scopo». Il CPR di Palazzo San Gervasio risponde in pieno alle prescrizioni legislative: fuori non c’è nulla, solo un distributore di benzina e un bar poco lontani. Se la detenzione non viene convalidata dal giudice di pace, i migranti recuperano le loro cose sequestrate all’ingresso, restituiscono i soldi della paga giornaliera che non hanno speso e vengono buttati fuori con l’obbligo di andare alla questura di Potenza, dove spesso ricevono l’ordine di lasciare il territorio nazionale entro sette giorni. Una volta fuori, si trovano in piena campagna e non sanno dove andare e come spostarsi.
L’ex Garante nazionale dei detenuti Mauro Palma, dopo una visita al centro avvenuta il 18 giugno del 2019, scrisse che il fatto che il centro si trovi in una zona periferica, lontana dal centro abitato, «è un problema per le persone trattenute al momento della loro uscita». Un tempo c’era una stazione ferroviaria, inaugurata nel 1891 ma dismessa nel 2011. Gli autobus del trasporto pubblico regionale, appaltati a un concessionario privato, passano una volta al giorno e il fine settimana sono sospesi.