10 grandi dischi prodotti da Steve Albini
Dai Nirvana ai Pixies, fino ai Jesus Lizard, agli Slint e agli italiani Uzeda, dieci esempi di come aiutò band fondamentali a trovare il loro suono
Nel corso della sua carriera il musicista e produttore Steve Albini, morto mercoledì a 61 anni per via di un infarto, ha contribuito come pochi altri a definire il suono del rock alternativo e dei vari sottogeneri che si svilupparono tra gli anni Ottanta e Novanta negli Stati Uniti, come il grunge, il post-punk, il post-hardcore, il noise, il math rock, il doom metal, l’industrial e altri ancora.
Albini in realtà preferiva non definirsi produttore, preferendo la più tecnica etichetta di “ingegnere del suono”. Questo perché iniziò a frequentare l’industria musicale in un periodo in cui le etichette discografiche tendevano a dare un’ampia discrezionalità ai produttori di dischi, incentivandoli a ottenere dalle band canzoni e suoni che fossero il più commerciali possibili. La filosofia di Albini era opposta: interferiva il meno possibile nelle registrazioni per provare a catturare il vero suono delle band, quello dei concerti, e quando possibile tendeva a dare risalto anche agli errori che i musicisti compivano in studio, che a suo dire rendevano la resa finale più autentica.
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Il suo approccio tecnico e la sua ferrea etica proletaria lo resero un’istituzione della musica alternativa, e nei suoi oltre trent’anni di carriera lavorò a centinaia di dischi, con moltissime band sconosciute ed emergenti e con tante altre invece famosissime. Albini di fatto rese possibili molti dischi diventati fondamentali nella storia della musica alternativa, permettendo alle band che lavoravano con lui di esprimersi il più liberamente possibile, e di mantenere la direzione artistica che volevano in un contesto in cui l’espandersi del mercato lo rendeva spesso difficile.
Nirvana – In Utero
Oltre che un produttore e un musicista, Albini era anche un critico musicale attivissimo e piuttosto spietato, e tendeva a demolire senza troppi problemi i dischi che riteneva poco interessanti o annacquati. Per questo motivo, nel corso della sua carriera gli è capitato di produrre album di gruppi che aveva precedentemente stroncato. Accadde anche con i Nirvana: prima di lavorare alla produzione di In Utero, l’ultimo disco del gruppo, Albini li definì dei «R.E.M. che usano la fuzzbox (un particolare tipo di distorsione, generalmente usata in musica su chitarra e basso elettrici)» e «una versione insignificante del sound di Seattle». Cambiò idea quando scoprì che Kurt Cobain era un fan accanito di Surfer Rosa dei Pixies, uno dei dischi che aveva prodotto.
Decise così di proporsi al gruppo tramite una famosa lettera in cui, oltre a esporre la sua concezione molto asciutta e discreta di produzione discografica, chiese di farsi pagare come un idraulico, per il valore del suo lavoro, spiegando di non volere nessuna percentuale sulle vendite del disco. La casa discografica si sarebbe aspettata da lui una richiesta intorno all’1-1,5% dei ricavi del disco, scrisse Albini nella lettera ai Nirvana. «Se ipotizziamo tre milioni di copie vendute, fanno circa 400mila dollari. Col cazzo che accetterei così tanti soldi. Non ci dormirei la notte». In Utero avrebbe poi venduto 15 milioni di copie nel mondo.
Il risultato fu un disco molto più personale e sporco rispetto al precedente Nevermind, che fu registrato in sole tre settimane. Per ottenere dei riff più sporchi e caotici, Albini suggerì a Cobain di utilizzare delle chitarre economiche da «banco dei pegni», tra cui la Veleno, una chitarra in alluminio resa famosa negli anni Settanta dalla band statunitense Grand Funk Railroad. Inoltre, grazie alla peculiare sistemazione dei microfoni, la batteria di Dave Grohl acquisì una grande centralità nella resa finale: per due canzoni, “Tourette’s” e “Very Ape”, la batteria fu registrata vicino a un angolo cottura, che secondo Albini era dotato di un proprio riverbero naturale.
Alla fine la Geffen Records, la casa discografica che aveva sotto contratto i Nirvana, decise di intervenire perché intimorita dalla resa finale del disco, reputata poco appetibile per le radio: i singoli che precedettero l’album vennero ritoccati da un altro produttore, Scott Litt, che curò anche la rimasterizzazione.
Pixies – Surfer Rosa
Surfer Rosa è probabilmente il disco che contribuì maggiormente alla fama di Albini come produttore. Fu l’album di esordio dei Pixies, una band di enorme culto formatasi a Boston nel 1986, oggi considerata un’ispirazione fondamentale per un gran numero di musicisti e gruppi associati alla scena alternativa del rock statunitense.
Uno degli aspetti che vengono spesso citati quando si parla di Surfer Rosa, che uscì nel 1988, sono i costi di produzione: l’intero disco costò appena 10mila dollari, 1500 dei quali utilizzati per il compenso di Albini, che come sempre chiese una retribuzione fissa, rifiutando ogni pretesa sulle royalties. Come nel caso di In Utero, si trattò di una produzione rapida, frenetica, molto poco specialistica: durò appena dieci giorni, e fu scandita da alcune trovate originali di Albini, come per esempio la scelta di registrare in un bagno la voce di accompagnamento di Kim Deal in “Where is my mind?”. Un altro dei tic produttivi di Albini che presero piede a partire da Surfer Rosa fu l’utilizzo di plettri metallici, che a suo dire davano alle chitarre un suono più distintivo. Dopo l’uscita del disco musicisti e gruppi emergenti che volevano combinare qualcosa con il rock volevano avvicinarsi il più possibile al suono originale e poco corrotto di Surfer Rosa, e Albini divenne una figura quasi mistica nell’ambiente.
PJ Harvey – Rid of Me
Oltre a Cobain, anche PJ Harvey rimase folgorata da Surfer Rosa. Nel 1993 era ancora una cantante emergente che si era fatta notare dalle riviste di settore inglesi con Dry, il suo disco di esordio. La sua carriera cambiò anche grazie ad Albini, che scelse come produttore del suo secondo album, Rid of Me. In questo caso le registrazioni furono addirittura più veloci di quelle di In Utero e Surfer Rosa: anche se durarono complessivamente due settimane, Harvey ha raccontato in un’intervista che, in realtà, il grosso del lavoro fu svolto in appena tre giorni.
Apprezzò moltissimo il lavoro di Albini, lodando in particolare l’essenzialità del processo di registrazione: «Il modo in cui molte persone pensano di produrre un disco è quello di aiutarti con gli arrangiamenti o suonare strumenti, lui non fa niente di tutto questo», disse in una delle interviste inserite nel documentario Reeling with PJ Harvey. Nella stessa intervista, disse anche che era rimasta stupita dal modo in cui Albini disseminava i microfoni in tutte le stanze dello studio: «li metteva ovunque, sul pavimento, sui muri, sulle finestre, sul soffitto, a pochi metri di distanza da dove eri seduto… È molto bravo a creare l’atmosfera giusta per ottenere la migliore interpretazione possibile».
Pur non essendo l’album più famoso di Harvey, oggi Rid of Me è considerato uno dei più importanti, ed è citato come un’influenza fondamentale da diverse cantautrici, come per esempio la canadese Alanis Morissette.
Breeders – Pod
Pod fu l’album di esordio delle Breeders, band alternative rock femminile guidata dalla bassista e seconda voce dei Pixies, Kim Deal. Deal aveva conosciuto Albini due anni prima, durante le registrazioni di Surfer Rosa, e aveva una certa consapevolezza dei suoi metodi. Il disco fu registrato ai Palladium Studios di Edimburgo, in Scozia, e in sostanza Albini si limitò a riproporre tutti i suoi marchi di fabbrica, come i microfoni disposti creativamente e la predilezione per spazi piccoli e angusti per catturare il riverbero in modo naturale. Non interferì in alcun modo negli arrangiamenti, ma pretese che le canzoni venissero registrate una sola volta, per ottenere una resa più spontanea.
All’inizio Deal temeva che questa direttiva potesse nuocere al disco, enfatizzando eccessivamente tutti quegli errori che per forza di cose vengono compiuti quando una canzone viene provata solo una volta. Tuttavia, anche se alcune recensioni del tempo furono piuttosto critiche nei confronti del risultato finale, descrivendo Pod come un progetto incompiuto e sviluppato troppo velocemente, oggi è considerato il disco migliore della band.
Slint – Tweez
Tweez è l’album di debutto degli Slint, una band dello stato americano del Kentucky, ed è il disco che aprì la strada a quel genere che il critico musicale britannico Simon Reynolds, in un famoso articolo pubblicato nel 1994 sulla rivista musicale The Wire, definì per la prima volta post-rock. Uscì cinque anni prima che Reynolds coniasse quel termine, quando i membri della band avevano meno di vent’anni ed erano affascinati da alcune figure mitiche della scena punk hardcore di Washington, come i Fugazi di Ian MacKaye, e soprattutto una band dell’Illinois, i Big Black, il gruppo di Albini.
Decisero così di coinvolgerlo nel progetto: il risultato fu un disco che risentiva delle influenze post hardcore con cui il chitarrista Brian McMahan, il batterista Britt Walford e gli altri membri del gruppo erano cresciuti, ma che si staccava da quella tradizione introducendo nuovi elementi fortemente legati alla tecnica strumentale, al progressive e al free jazz. Era un disco molto poco melodico, costellato da tempi complessi e dispari. Su consiglio di Albini incluse rumori veri e vicini al filone della musica concreta, come vetri rotti e telai di automobile distrutti. Fu un disco importantissimo per la storia del rock degli anni Novanta, contribuendo alla nascita del genere noto come “math rock”, e fu poi seguito dal disco più celebre della band, Spiderland.
Jesus Lizard – Goat
È il secondo album dei Jesus Lizard che, pur essendo cresciuti in Texas, si formarono musicalmente a Chicago, la stessa città in cui Albini consolidò la sua carriera come musicista, ingegnere del suono e critico musicale.
Goat è considerato uno dei dischi fondamentali degli anni Novanta. Erano anni in cui la musica era ancora fondata essenzialmente sulle chitarre, che Duane Denison suonò con un approccio diverso dalla maggior parte dei suoi contemporanei: era un maestro di flamenco con una concezione del rock quasi luddista, contraria all’uso eccessivo dei pedali e dell’effettistica che aveva dominato quel decennio, e in questo senso era affine alla visione di Albini. Il disco è ricordato anche per il cantato disperato e in molti casi volutamente stonato di David Yow, che contribuì a fissare l’atmosfera angosciosa del disco.
The Jon Spencer Blues Explosion – The Jon Spencer Blues Explosion
Pubblicato nel 1992, è il secondo album di una band di New York che aveva in mente di specificare una formula che alcuni musicisti, come Captain Beefheart e i Gun Club, avevano già abbozzato nei decenni precedenti: coniugare qualcosa di estremamente classico e codificato, il blues, all’imprevedibilità del punk. Alla fine fecero molto di più: inserirono anche il rockabilly, il funk, il soul, e anche un accenno di rap. Non è il loro album più famoso, ma è quello che rese familiare il loro stile in tutto il mondo. Fu caratterizzato da una produzione abbastanza travagliata: fu infatti realizzata in due sessioni divise, una curata da Mark Kramer e l’altra per l’appunto da Albini che, tra le altre cose, si occupò di registrare la canzone più famosa del disco, “Shirt Jac”. Una band italiana deve il suo nome a questa band e a questo disco.
Low – Things We Lost in the Fire
Nel 1993 i Low, una band alternative rock del Minnesota, pubblicarono I Could Live in Hope e diedero inizio al cosiddetto slowcore, un rock alternativo caratterizzato per l’appunto dalla ricerca di un senso di lentezza, da melodie suonate sempre e comunque in chiave minore e da un modo di cantare malinconico e sussurrato, quasi una litania.
Fu un successo enorme, ampiamente ripreso dalle band che si inserirono in quel filone, ma da un certo punto di vista appiccicò ai Low la fama di un gruppo che non riusciva a emanciparsi da una formula troppo standardizzata e ripetitiva. Provarono a farlo nel 2001 con il loro quinto disco, Things We Lost in the Fire, affidando la produzione proprio ad Albini. Fu il disco che rese i Low nuovamente rilevanti.
Shellac – At Action Park
Steve Albini era anche un musicista attivissimo e, ovviamente, amava coordinare il processo di produzione di tutti i suoi dischi. At Action Park è il primo disco degli Shellac, la band che fondò nel 1992 dopo lo scioglimento dei Big Black prima e dei Rapeman poi. Manco a dirlo, è un album registrato con la tecnica del “performance-based”: Albini, Bob Weston (basso) e Todd Stanford Trainer (batteria) hanno registrato le parti dei loro strumenti in contemporanea, senza successive incisioni, come se stessero registrando un concerto dal vivo.
Uzeda – Quocumque jeceris stabit
Dato che farsi produrre un disco da Albini costava molto poco, negli anni anche gruppi totalmente sconosciuti al grande pubblico hanno potuto usufruire delle sue competenze. In Italia il caso più noto è quello degli Uzeda, un gruppo noise di Catania formato dalla cantante Giovanna Cacciola, dai chitarristi Agostino Tilotta e Giovanni Nicosia, dal bassista Raffaele Gulisano e dal batterista Davide Oliveri. Albini strinse un rapporto di amicizia con la band, di cui produsse quasi tutti gli album, a partire dall’EP 4 (1995) fino al loro ultimo disco, Quocumque jeceris stabit (2019). Oltre agli Uzeda, Albini ha collaborato con altre band italiane, come gli Zu e i 24 Grana.