I vestiti trasparenti sono sempre più noiosi
I cosiddetti "naked dress" sono stati rivoluzionari e poi hanno normalizzato il corpo delle donne: ora che sono ovunque però «la nudità è stata denudata del sesso»
Al Met Gala di quest’anno – la più dispendiosa e scenografica serata di beneficenza del mondo della moda e dello spettacolo, che si è tenuta lunedì 6 maggio a New York – si sono visti molti “naked dress”, cioè vestiti che lasciano intravedere il corpo perché sono velati oppure completamente fatti di perline e pietre preziose che vengono indossate sul corpo nudo o coperto da un body color carne per creare l’illusione della nudità.
Per esempio la cantante Jennifer Lopez, una delle celebrità più associate a questo stile, aveva un abito trasparente del marchio italiano Schiaparelli realizzato con 2,5 milioni di perline in lamina d’argento; la modella Emily Ratajkowski indossava un vestito del 2001 dell’italiana Atelier Versace che le lasciava la schiena e il sedere scoperti; la cantante Rita Ora portava una tutina color carne con sopra fili di perline colorate del marchio italiano Marni; la cantante Doja Cat indossava una maglietta bianca del marchio francese Vetements, lunga fino ai piedi e bagnata per far intravedere il corpo; l’abito della cantante Kylie Minogue, del marchio italiano Diesel, aveva invece disegnato sopra un corpo nudo (un effetto simile all’abito di Dior indossato da Chiara Ferragni a Sanremo).
Sono solo alcuni esempi e molti siti di moda hanno notato come quest’anno i corpi seminudi fossero più del solito. Secondo il New York Times è possibile che il dress code dell’evento – The Garden of Time, il giardino del tempo – abbia fatto pensare alla nudità di Adamo ed Eva oppure che «indossare praticamente niente» potesse essere «il modo migliore di farsi notare tra centinaia di rivali ben vestiti»; comunque sia, «i vestiti trasparenti erano uno dietro l’altro».
È anche vero che al Met Gala i “naked dress” sono quasi una tradizione. Il primo e più famoso “naked dress” di sempre, infatti, venne indossato al Met Gala del 1974 dalla cantante Cher. Fu realizzato dallo stilista statunitense Bob Mackie e le ricopriva il corpo nudo con cristalli, paillettes, perline e piume bianche. Fu così sconcertante e rivoluzionario che l’anno dopo la rivista Time pubblicò in copertina una foto di Cher con indosso quell’abito. «Fece molto scandalo» raccontò Mackie a Vogue nel 2017, perché allora Time metteva in copertina «leader mondiali o gente che aveva inventato qualcosa di importante, come un vaccino. E poi in copertina arrivò Cher, con quel vestito incredibile: le edicole vendettero tutte le copie quasi immediatamente. Alcune città addirittura ne vietarono la vendita».
Da allora i “naked dress” hanno segnato la storia della moda, come quello indossato da Kate Moss nel 1993 e realizzato in nylon dal marchio Liza Bruce o il “jungle dress” di Versace indossato da Jennifer Lopez ai Grammy Awards (i premi dell’industria musicale americana) del 2000, e che contribuì alla nascita di Google Immagini. O ancora quello scelto dall’attrice Rose McGowan agli MTV Video Music Awards del 1998, con dei semplici fili di perline su un perizoma.
Quel vestito fece molto scandalo e anni dopo, nel 2019, lei raccontò di averlo scelto «per un motivo. Era la mia prima apparizione pubblica dopo essere stata stuprata» dal produttore cinematografico Harvey Weinstein, come denunciò nel 2017 contribuendo alla nascita del movimento del #MeeToo. «Quella fu la mia risposta allo stupro», «una dichiarazione politica» e un modo per riappropriarsi del suo corpo, ha spiegato.
Molti anni dopo, nel 2014, la moda del “naked dress” fu rilanciata dalla cantante Rihanna, che si presentò ai CFDA Fashion Awards, i premi della moda americana, con un abito ricoperto di cristalli Swarovski. Da allora si sono visti ininterrottamente sui red carpet e in particolar modo al Met Gala, tra cui su Beyoncé, Kim Kardashian e Kendall Jenner.
Negli ultimi anni gli abiti che scoprono molto il corpo o che lo nascondono con leggere trasparenze si sono visti anche alle sfilate di moda, e quindi nell’abbigliamento pensato per le persone comuni. La tendenza spuntò soprattutto nelle collezioni per la primavera del 2023, presentate nell’ottobre del 2022.
Uno dei motivi era la reazione alla pandemia da coronavirus: molte persone erano stanche di restare chiuse in casa, isolate, avviluppate in una tuta, c’era il bisogno di riportare i corpi al centro dell’attenzione, di contatto fisico, di sensualità e le aziende di moda risposero e rinfocolarono questo desiderio proponendo tacchi alti, abiti aderenti, succinti e molto sensuali.
La critica di moda del New York Times Vanessa Friedman scrisse che questa «nuova nudità» era ideologica: erano passati cinque anni dall’inizio del MeToo e si parlava ancora di come le donne volessero essere guardate. Mostrarsi non era più provocatorio, né un modo per rivendicare sensualità e potere, com’era stato fino a quel momento: era un tentativo di normalizzare il corpo e rivendicare il diritto a spogliarsi quanto e come si volesse. In parte era anche un’eredità della campagna #FreeTheNipple, nata tra il 2012 e il 2013 per rivendicare l’idea che fosse accettabile mostrare in pubblico i capezzoli femminili: molte celebrità aderirono al movimento, indossando in pubblico abiti che lasciavano comparire i capezzoli.
La nudità che si è vista alle sfilate e ai red carpet degli ultimi mesi, però, ha stancato un po’ tutti. Lo scorso febbraio la sfilata per l’autunno 2024 del marchio francese Saint Laurent fu commentata con una certa insofferenza dalla stessa Friedman perché su 48 look soltanto 12 non prevedevano tette scoperte: «a questo punto del XXI secolo così tanta trasparenza sembra la forma più trita di misoginia, travestita da moda. Una misoginia che, in particolare, ha perso di vista l’obiettivo, vista l’attuale situazione dei corpi delle donne. Sono già trattati come oggetti, abbiamo davvero bisogno di ulteriore oggettificazione?».
Sempre sul New York Times la giornalista Mireille Silcoff ha scritto che la «semi-nudità è ovunque, almeno tra le celebrità» ma che «non è, come si potrebbe pensare, sintomo di una cultura sempre più sessualizzata, ma piuttosto di una cultura che ha sempre più chiuso col sesso»: non è «l’espressione di un’epoca d’oro del desiderio» ma il «prodotto del desiderio di ottenere attenzione». Ricordando i tanti studi per cui i più giovani sarebbero sempre meno interessati al sesso, Silcoff ricorda che questi corpi – che quasi sempre rispondono ai canoni di perfezione estetica dominante – sono delle immagini algide e perfette offerte a fotografi che le sottopongono a un pubblico annoiato e assuefatto. «La nudità – riassume – è stata infine denudata del sesso».