La lettera di Xi Jinping sul bombardamento dell’ambasciata cinese di Belgrado, 25 anni fa
Nel 1999 la NATO bombardò per errore la sede diplomatica durante la missione in Kosovo: il presidente cinese, in visita in Serbia, ha commemorato l'anniversario con molta durezza
Ieri il giornale serbo Politika ha pubblicato una lettera del presidente cinese Xi Jinping, arrivato mercoledì nel paese nell’ambito di una visita ufficiale in Europa. Nella lettera, tra le altre cose, il presidente cinese ha ricordato, proprio nel giorno del suo 25esimo anniversario, il bombardamento da parte della NATO dell’ambasciata cinese a Belgrado, in cui morirono tre persone.
Il bombardamento avvenne nell’ambito dell’intervento militare della NATO in Kosovo, iniziato nel 1999 e giustificato con la necessità di porre fine a una deliberata campagna di pulizia etnica portata avanti dai serbi guidati da Slobodan Milošević contro la popolazione musulmana di origine albanese del Kosovo. Il bombardamento dell’ambasciata cinese, che secondo gli Stati Uniti avvenne per errore, è diventato negli anni un elemento importante del nazionalismo cinese e della retorica anti occidentale del governo. «L’amicizia fra la Cina e la Serbia è stata forgiata con il sangue dei nostri compatrioti, che resteranno nella memoria condivisa dei nostri due popoli», ha scritto Xi Jinping nella lettera.
L’operazione della NATO contro la Serbia cominciò la sera del 24 marzo del 1999: 80 jet appartenenti a Canada, Francia, Gran Bretagna, Paesi Bassi, Spagna, Germania, Stati Uniti, Italia, e poi le navi da guerra statunitensi e britanniche dislocate nell’Adriatico iniziarono i bombardamenti e i lanci di missili contro il paese. In una prima fase vennero attaccati i radar e le installazioni serbe per la difesa aerea a nord di Pristina (la capitale del Kosovo) e intorno a Belgrado. La seconda fase del conflitto iniziò il 27 marzo ed era diretta alla distruzione delle forze armate serbe. Il 23 aprile gli alleati NATO riuniti a Washington decisero di intensificare gli attacchi ed ebbe così inizio la terza e conclusiva fase della guerra. I bombardamenti furono diretti anche verso obiettivi non strettamente militari come centrali elettriche, ponti, acquedotti, depositi di carburante, radio e televisioni.
Nella notte tra il 7 maggio e l’8 maggio cinque bombe sganciate dagli aerei da guerra degli Stati Uniti colpirono l’ambasciata cinese a Belgrado. Furono uccisi tre giornalisti cinesi (Xu Xinghu, 31 anni, Zhu Ying, 27 anni, Shao Yunhuan, 48 anni) e una ventina di persone furono ferite.
Quella notte fu raccontata sulla BBC da Shen Hong, un uomo d’affari cinese che si trovava a Belgrado e che arrivò sul posto poco dopo le esplosioni. L’ambasciata della Cina a Belgrado stava bruciando, funzionari e dipendenti cercavano di uscire dalle finestre coperti di sangue e polvere e chi si trovava ai piani superiori aveva annodato delle tende per riuscire a calarsi: «Non potevamo entrare. C’era molto fumo, non c’era elettricità e non potevamo vedere nulla. È stato orribile», ha detto Shen Hong.
Il bombardamento dell’ambasciata cinese generò enormi polemiche, sia perché la Cina era un paese non coinvolto nel conflitto, sia perché attaccare un’ambasciata è un atto gravissimo, visto che la legge internazionale garantisce protezione alle sedi diplomatiche.
In poco tempo iniziarono a emergere due narrazioni contrastanti. La Cina parlò subito di un atto intenzionale da parte degli Stati Uniti. Mesi dopo due giornali europei, uno inglese e uno danese, suggerirono che i bombardamenti fossero stati pianificati poiché la CIA aveva scoperto che la sede diplomatica della Repubblica Popolare veniva usata come base per le comunicazioni dalle forze armate di Milosevic. Altri giornali e inchieste, tra cui una del New York Times, smentirono la tesi dell’atto deliberato e confermarono che invece si era trattato di un errore. Fu anche la tesi portata avanti, fin da subito, dal presidente degli Stati Uniti Bill Clinton e dalla NATO il cui portavoce diede una delle prime spiegazioni di quanto era accaduto: gli aerei da guerra, aveva detto dal podio della conferenza stampa, avevano «colpito l’edificio sbagliato».
Ci volle più di un mese perché gli Stati Uniti fornissero alla Cina una spiegazione completa: una serie di errori di mappatura avevano portato cinque bombe guidate dal GPS a colpire l’ambasciata cinese, ma il vero obiettivo sarebbe stato il quartier generale dello Yugoslav Federal Directorate for Supply and Procurement (FDSP), un’agenzia di stato che importava e esportava attrezzature per la difesa e che si trovava a circa 350 metri dalla sede diplomatica della Cina.
In quei giorni, gli Stati Uniti e la NATO erano già al centro di critiche e pressioni a causa dell’elevato numero di civili morti in una campagna di bombardamenti condotta senza l’autorizzazione delle Nazioni Unite e fortemente contrastata da Cina e Russia. Con il bombardamento dell’ambasciata gli Stati Uniti e la NATO, a causa di un errore di mappatura, avevano attaccato la sede diplomatica di uno dei membri del Consiglio nazionale di sicurezza dell’ONU, quello che più si era opposto alla campagna aerea in Serbia.
La Cina disse che le spiegazioni fornite non erano convincenti, il governo parlò di un «atto barbaro» e «criminale», e di «ipocrisia» della NATO.
Dopo il bombardamento cominciarono grosse proteste in Cina, direttamente sostenute dal governo: a Pechino, a Shanghai e in altre città della Cina. Nel centro di Chengdu, capoluogo della provincia sud-occidentale di Sichuan, la residenza del console statunitense fu incendiata. Ci furono manifestazioni e proteste anche da parte delle comunità cinesi in vari paesi di tutto il mondo.
Alla fine del 1999 le relazioni tra Stati Uniti e Cina ripresero gradualmente a migliorare. Dopo le scuse ufficiali, in agosto il governo degli Stati Uniti decise di pagare 4,5 milioni di dollari alle famiglie dei tre cittadini cinesi uccisi. Il 16 dicembre i governi dei due paesi raggiunsero un accordo in base al quale gli Stati Uniti accettarono di dare a titolo di risarcimento per i danni alla struttura dell’ambasciata cinese 28 milioni di dollari e la Cina accettò a sua volta di pagare 2,87 milioni di dollari per i danni causati durante le proteste alla sede diplomatica statunitense a Pechino.
Nel 2017 la sede dell’ambasciata cinese di Belgrado è stata trasformata in un Centro culturale cinese.