I quattro musei della Città Proibita
«Quando sono a Pechino vado sempre a visitare la Città Proibita, l’antica dimora degli imperatori cinesi, e il suo museo. Gli oggetti più preziosi della Città Proibita, però, non sono a Pechino, ma a Taipei, la capitale di Taiwan. Quando sono a Taipei vado sempre al Museo di Palazzo. A complicare ulteriormente le cose, però, negli ultimi anni sono venuti fuori altri due musei della Città Proibita. Uno nel 2016 a Taiwan, nella città centro-meridionale di Chiayi, per creare un “effetto Guggenheim di Bilbao”. Il quarto nel 2022 a Hong Kong»
Quando sono a Pechino, vado sempre a visitare la Città Proibita, l’antica dimora degli imperatori cinesi, e il suo museo. Se resto a lungo, vado in tutte le stagioni e nei diversi momenti della giornata – appena apre, con la luce trasparente del mattino. Di sera, quando il sole calante rende più saturo il colore rosso delle mura. È bello andarci quando piove, facendo attenzione a non scivolare, o quando nevica. È sempre affollatissima. Malgrado le ripetute visite sono davvero pochi gli scorci che credo di conoscere – alcuni punti del palazzo sono labirintici, altri confondono i passi con un’insistente simmetria. All’uscita nord c’è ancora l’albero al quale si è impiccato Chongzhen (1611-1644), l’ultimo imperatore della dinastia Ming (1368-1644), sentendosi perduto davanti a una ribellione popolare che aveva raggiunto Pechino.
A volte aree nuove vengono aperte al pubblico, mentre gli oggetti in mostra cambiano regolarmente. È possibile visitare ricostruzioni delle stanze di personaggi particolarmente noti – come l’imperatore Qianlong (1711-1799), la cui stanza privata, lo Studio delle Tre Rarità, è stata riprodotta fedelmente. È minuscola. Entrandoci, l’imperatore non poteva far altro che andarsi a sedere a gambe incrociate sulla poltrona in seta gialla e nera nell’angolo di destra, e lavorare al tavolino senza l’ombra di distrazioni. Al muro contro cui poggia lo schienale della poltrona sono appese tre calligrafie antiche, le “tre rarità” per l’appunto, componimenti di Wang Xizhi (303–361), di suo figlio Wang Xianzhi (344–386) e di suo nipote Wang Xun (349–401), artisti leggendari a cui l’imperatore si ispirava per migliorare la sua (già buona) calligrafia.
Oggi questo studio minimo di un metro per un metro e mezzo lo si guarda da fuori verso l’interno (sovvertendo la prospettiva dell’imperatore) e, nonostante l’accalcarsi e il vociare, è possibile estraniarsi e immaginare Qianlong seduto lì. Per impedire al fruscio degli alberi di fargli alzare lo sguardo dal lavoro, aveva fatto mettere uno schermo di lacca rossa a un metro dalla finestra, ed è in quello spazio che oggi noi curiosi ci spingiamo gli uni contro gli altri per guardare. Cosa pensava? Chissà che effetto fa essere convinti di essere divini, e di avere il diritto di vita e di morte su tutti.
La Città Proibita non è più proibita dal 1925, quando, dopo la cacciata di Pu Yi (1906-1967), l’ultimo imperatore a cui Bernardo Bertolucci dedicò l’omonimo film, divenne un museo. Nel corso della Rivoluzione culturale fu chiusa e in parte vandalizzata, ma oggi registra quasi 20 milioni di visitatori l’anno. Siccome è un simbolo della grandezza imperiale cinese, non c’è scritto da nessuna parte che l’architetto di tanta meraviglia fosse vietnamita, Nguyen An, regalato – come un pacco – dalla corte vietnamita a quella Ming.
Gli oggetti più preziosi della Città Proibita, però, non sono a Pechino, ma a Taipei, la capitale di Taiwan. Ricapitolare come sia avvenuto tutto sarebbe un po’ lungo e ci porterebbe fuori strada, per cui andiamo per sommi capi. La rivoluzione del 1912 che mise fine all’era imperiale fu portata avanti dai repubblicani, guidati dal dottor Sun Yat-sen, considerato così il padre della patria tanto a Pechino che fra i partiti pro-unificazione di Taiwan. Fu lui a portare la Cina ad essere una Repubblica, per quanto sia stato un eroe ideologico e capace di raccogliere fondi più che un eroe d’armi. Sun ebbe anche il pregio di non governare a lungo (solo per tre mesi), e quindi non ha fatto in tempo a fare male e intaccare il suo ricordo: fece cadere la dinastia, stabilì la Repubblica, e fondò il Partito Nazionalista (KMT). Poi, dopo una serie di andirivieni, nel 1928 divenne primo ministro e generalissimo Chiang Kai-shek, che si reputava figlio adottivo di Sun (Sun ne era convinto solo in parte).
Nel 1937 Chiang dovette vedersela con l’invasione giapponese, che diede inizio alla Seconda guerra mondiale in Cina, e il tesoro imperiale custodito nella Città Proibita era a rischio. Per paura che i giapponesi svaligiassero il palazzo, infatti, il governo cinese decise di spostarlo: il meglio fu messo in ventimila casse, e portato in giro per il paese, a seconda dell’avanzare dei giapponesi: prima Nanchino, poi Chongqing, e varie altre località. Con la guerra civile le casse continuarono a spostarsi per tutta la Cina, questa volta su ordine del KMT che voleva sottrarle al Partito comunista. Per questo, quando Chiang si vide sconfitto, decise di fuggire a Taiwan trasportando con sé il corredo imperiale. Più di 600mila oggetti di valore inestimabile sbarcarono a Taipei nel 1949 insieme a circa un milione di soldati sconfitti, a cui era stato promesso che da lì sarebbe partita la riconquista della Cina (e il ritorno a casa dei tesori).
Nel 1965, a riconquista accantonata, Taipei costruì il Museo di Palazzo, in cui le meraviglie portate da Pechino (conservate fino a quel momento in un’ex fabbrica di zucchero) erano messe in mostra a rotazione. Pochi mesi dopo, in Cina, cominciò la campagna contro i “Quattro vecchiumi” – costituiti dalle vecchie idee, le vecchie abitudini, la vecchia cultura e le vecchie tradizioni. Fu uno sfacelo. Migliaia di oggetti vandalizzati e un numero imprecisabile di persone perseguitate, che già presagiva l’arrivo della Rivoluzione culturale. Quando questa seconda, lunga ondata di follia e violenza iconoclasta travolse la Cina, i tesori trafugati a Taipei erano davvero più al sicuro.
Da un lato c’era la dittatura comunista che doveva creare l’uomo e la cultura nuovi distruggendo cose e persone attaccate “al passato” (furono perseguitati e in alcuni casi uccisi anche i cuochi, perché anche la cucina doveva essere collettiva e rivoluzionaria), e dall’altro la dittatura nazionalista a Taiwan, che rappresentava sé stessa come il baluardo protettore della cultura cinese classica.
Il museo si era sdoppiato, e c’era chi lo usava come simbolo del passato opprimente da distruggere – per quanto a un certo punto le autorità avessero chiuso le porte, per evitare ulteriori distruzioni – e chi invece come aulica cultura di cui sentirsi eredi.
Oggi le cose sono molto cambiate: il Partito comunista reprime la memoria dei momenti distruttivi dell’era maoista, ergendosi a unico custode della cultura cinese. Taiwan invece mostra al pubblico queste splendide antichità in un museo affetto dallo stile classicista-militarista dei tempi di Chiang, con elementi tradizionali ripresi in modo squadrato e pesante. Da un po’ di anni il governo di Pechino ha cominciato a dire che i tesori devono tornare indietro, senza però usare mai la parola “rimpatriati” perché sarebbe un riconoscimento implicito che Taiwan fa Stato a sé. Taipei è così intimorita all’idea di un colpo di mano cinese da aver sospeso ogni prestito, e non concede nessun oggetto per nessuna mostra, perché non è certo come andrebbe a finire se la Cina ne chiedesse la restituzione a un museo terzo.
Dal 2021, stando a quanto sostengono le autorità taiwanesi, la Cina ha lanciato una campagna di disinformazione digitale piuttosto aggressiva tesa a discreditare la gestione del museo, accusando in particolare i curatori di aver rotto sei preziose tazzine di porcellana. Lo scorso anno un attacco hacker al server privato del museo di Taipei ha portato al furto di circa 100mila immagini scannerizzate ad altissima risoluzione, scaricate illegalmente e messe in vendita sulla piattaforma cinese Taobao a pochissimo.
Quando sono a Taipei vado sempre al Museo di Palazzo. Il contenitore lascia a desiderare, ma ha davvero capolavori straordinari, mostrati a rotazione per cui si vedono sempre cose nuove: ci sono le ceramiche più misteriose, chiamate ru, prodotte per un breve periodo nel 1100, durante la dinastia Song (960-1279), dalla laccatura opalescente dalla formula segreta, mai riprodotta. O il bellissimo Concerto a Palazzo, un dipinto anonimo della dinastia Tang (618-907) in cui dieci signore suonano, bevono tè e vino intorno a un tavolo, con un cagnolino che sonnecchia vicino – tutte hanno fatto molta attenzione a come acconciare i loro chignon, secondo la moda del tempo. Ci sono bronzi straordinari appartenenti ai primi cicli dinastici (a partire dal 1600 avanti Cristo) e c’è la Monna Lisa del museo, un cavolo di giadeite che fa impazzire i visitatori ed è diventato il simbolo del museo (riprodotto su tutta la mercanzia, dai post-it agli ombrelli). È un tocco surreale, forse, ma il cavolo rappresenta un simbolo di purezza e fertilità – oltre che un’opera di trompe-l’oeil di tutto rispetto.
Quando ai cittadini della Cina popolare è dato il permesso di recarsi a Taiwan (un permesso che Pechino nega, come punizione finanziaria, se a Taiwan sono al potere politici che non piacciono al Partito comunista), il museo si affolla di cinesi come la Città Proibita. I taiwanesi? Meno, perché tra gli abitanti di Taiwan e la cultura classica cinese comincia ad aprirsi un divario. Il museo è dimezzato: l’opulenta e imperdibile scatola in mattoni che un tempo aveva contenuto il tesoro inamovibile dalla capitale cinese, e il contenuto splendido del museo di Taipei.
A complicare ulteriormente le cose, però, negli ultimi anni sono venuti fuori altri due musei della Città Proibita. Uno nel 2016 a Taiwan, nella città centro-meridionale di Chiayi, per creare un “effetto Guggenheim di Bilbao” – ovvero per attirare fino a qui i visitatori che si fermano solo a Taipei. L’edificio è un po’ scomodo da raggiungere, ma molto bello: opera di Kris Yao, è ispirato ai colpi di pennello della calligrafia cinese per creare pieni e vuoti quasi aerei. Gli oggetti sono selezionati fra quelli trasportati a Taiwan da Chiang Kai-shek, con qualche acquisizione o donazione più recente. L’altro obiettivo del museo è inserire l’arte della Cina classica in un contesto internazionale grazie a mostre pensate ad hoc. Quando ci sono andata, una mostra contrapponeva gli sviluppi artistici alla corte cinese a quelli che avvennero in Corea nel lungo periodo Joseon (1392 -1910), per dimostrare che la Cina non era culturalmente isolata ma in un dialogo culturale con i paesi vicini. Un’altra mostra era incentrata sulla storia del tessile nell’Asia intera nei vari periodi. Nelle timeline che ne dettagliavano i momenti salienti nel mondo, e in Asia in particolare, erano riusciti a non scrivere mai la parola “Cina”.
Nel 2022 è stato aperto un quarto museo della Città Proibita, o Museo di Palazzo, questa volta a Hong Kong. Disegnato da Rocco Yim, rappresenta un misto fra un lingotto d’oro e un bronzo sacro della dinastia Shang (1600-1046 a.C). No, non è la sua opera migliore. È questo il museo più esplicitamente politico di tutti: ogni oggetto è in prestito da Pechino e non c’è curatela locale, perché anche questa viene decisa a Pechino, come da Pechino vengono inviati esperti e storici dell’arte. Naturalmente anche il costo del museo è tutto sostenuto da Pechino, che lo ha definito “un regalo” a Hong Kong. Il suo scopo dichiarato è fare in modo che gli hongkonghesi, col loro noto spirito ribelle, diventino più fieri della cultura classica cinese, e più patriottici. Per crearlo non è stato chiesto nulla a nessuno: Carrie Lam, l’impopolare capo dell’esecutivo di Hong Kong dal 2017 al 2022 (selezionata da Pechino tramite dei rappresentanti locali), annunciò la decisione di Pechino e spiegò dove sarebbe sorto il museo. Fine del dibattito.
La costruzione ebbe inizio nel 2019, l’anno delle proteste a Hong Kong, ma l’apertura al pubblico avvenne nel 2022, quando Hong Kong era ancora sotto le restrizioni anti-pandemiche e sconvolta dalla Legge sulla sicurezza nazionale che ampliò il controllo cinese. Anche quella, una legge decisa e scritta a Pechino, fu presentata come “un regalo” a Hong Kong per impedire nuove proteste prolungate e difficoltose, ed estirpare la sedizione anti-governo centrale… il parallelo si scrive da sé, anche troppo. Ed è così che le vicende storiche e politiche cinesi hanno portato a un museo della Città Proibita che periodicamente si sdoppia, spinto da forze politiche contrastanti. Chissà se continuerà a replicarsi, in incarnazioni nuove, che potrebbero portare a un quinto, o a un sesto, museo della Città Proibita, ora patriottico, ora nazionalista, ora monumentale, ora internazionalista…