Com’era la Milano di Vallanzasca e Francis Turatello
Raccontato da Stefano Nazzi nel suo nuovo libro, dedicato alla cronaca nera della città nel periodo in cui c'erano 150 omicidi all’anno
Tra gli anni Settanta e Ottanta a Milano venivano commessi in media 150 omicidi all’anno. Era una città molto diversa da come la conosciamo oggi, molto più violenta, così come l’Italia intera: anche gli atti di terrorismo e i sequestri di persona erano frequenti. A Milano alcuni gruppi criminali si contendevano il controllo sui locali notturni, che erano luoghi di spaccio di droghe illegali e bische clandestine, ma erano anche molto frequentati da persone comuni.
Stefano Nazzi, giornalista del Post e autore del podcast Indagini, lo ha raccontato nel suo nuovo libro, Canti di guerra (Mondadori), che ricostruisce le storie di tre noti criminali di quegli anni: Renato Vallanzasca, Francis Turatello e Angelo Epaminonda. Pubblichiamo un estratto del libro, che racconta come fosse Milano in quel periodo. Nazzi presenterà Canti di guerra questa sera alle 18:30, proprio a Milano, allo Spirit de Milan, insieme a Matteo Bordone.
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C’è un’altra protagonista di questa storia, oltre a Renato Vallanzasca, Francis Turatello e Angelo Epaminonda: Milano. È la città dove i tre vivono e crescono, dove diventano banditi. Per Renato è la città più bella del mondo, il suo rifugio, il posto a cui tornare sempre, «il luogo dell’anima» la definirà un giorno. Per Francis è il regno da conquistare e dominare, «chi ha Milano ha il mondo» pensa, e la capitale di quel regno, il quartier generale, è il luogo in cui si trova lui, il re, qualunque esso sia. Per Epaminonda Milano è denaro, ricchezza, auto di lusso, belle donne, cocaina, la notte che vince sul giorno, la rivincita.
Diventano grandi assieme alla città, la vedono trasformarsi ed espandersi, cambiare faccia. Vedono crescere le industrie, la Breda, l’Alfa Romeo, la Pirelli, la Falk, la Motta, l’Alemagna, vedono le banche aprire le proprie filiali, i quartieri nascere e popolarsi. Tra la fine degli anni Sessanta e i primi anni Settanta Milano diventa una città moderna dove prendono energia le rivendicazioni operaie per condizioni di vita migliori, per la sicurezza dei posti di lavoro, per stipendi più dignitosi. Ed è la città in cui i movimenti degli studenti prendono forza. È il centro motore d’Italia, dove crescono cose nuove.
E cresce la violenza, quella politica, che dai primi anni Settanta diventerà sempre più sistematica. Ma loro quella Milano la sfiorano, la guardano di sfuggita. Se ne approfittano perché polizia e magistratura si concentrano sul pericolo terrorismo e la criminalità cresce e agisce.
È un’altra Milano quella che loro amano di più, che respirano. È quella che si agita nelle bische segrete, nei luoghi di prostituzione nascosti ma che in realtà tutti conoscono, che fa affari dietro i paraventi dei locali. La Milano che si trova fino all’alba nei night club di Lello Liguori, il più famoso imprenditore notturno della città e che avrà, all’apice della sua carriera, undici locali: il Number One e lo Studio 54 sono i più famosi. È l’uomo che possiede anche il Covo di Nord-Est a Santa Margherita Ligure e che non ha mai disdegnato, o forse non ha mai potuto disdegnare, soci che provengono da una zona grigia, quel territorio di frontiera tra legalità e illegalità. Liguori sarà una presenza importante in questa storia, avrà contatti con Turatello e poi con Epaminonda.
Di quella Milano Francis, Renato e il Tebano conosceranno ogni angolo e movimento, ogni luogo segreto e mascherato: i finti circoli culturali e le associazioni regionali dove in realtà si gioca fino all’alba a trente et quarante, a seven eleven, a chemin de fer, e dove a una certa ora spuntano le roulette e le fiches. Fuori è notte o giorno, conta poco. I giocatori puntano le «gambe», cioè le 100.000 lire, o i «testoni», i milioni. Ci sono le bische per gente ricca e quelle per chi ricco non è. E dentro ci sono gli usurai, pronti a prestare denaro. All’ingresso i gorilla chiedono la parola d’ordine, non solo per paura della polizia ma soprattutto delle bande rivali che vogliono impossessarsi di quella bisca, che vogliono controllarla. Perché lì girano tanti soldi.
E poi ci sono le bische all’aperto, quelle che aprono dopo mezzanotte, a un segnale concordato, dove si gioca illuminati dai fari delle auto: all’Arena, in piazza Wagner, in via Palmanova, in piazza Napoli, alla Stazione Centrale. Lì rotolano i «borlotti», i dadi. E se arriva la polizia, poco male, la bisca si sposta da un’altra parte. È sul controllo delle bische che a Milano si scateneranno le guerre di malavita più sanguinose.
Cambia Milano e cambia la malavita, diventa più moderna, efficiente, più ambiziosa e anche più spietata. La ligera di una volta, quel termine romantico che indicava la malavita milanese perché i ladri, i topi d’appartamento, andavano in giro non armati, «leggeri», lascia il campo ad altri. Turatello, Vallanzasca ed Epaminonda si impongono in una città in cui andare in giro senza armi equivale a un suicidio, non è previsto, non è pensabile.
Francis ha già 14 anni quando quella malavita romantica fa il suo grande colpo, l’ultimo: la rapina di via Osoppo. È il 27 febbraio 1958, quello che un tempo veniva chiamato San Paganino, il 27 del mese, il giorno degli stipendi. Sette uomini fermano, all’angolo tra via Osoppo e piazzale Brescia, un furgone portavalori della Banca Popolare di Milano. Usano una Fiat 1400 che fa sbandare il furgone, poi un camion OM Leoncino blocca la strada. Uno dei rapinatori sfonda, con un martello, il vetro del furgoncino e porta via il mitra di una delle guardie, è l’unica arma presente sulla scena. Rubano ufficialmente 70 milioni di lire, anche se molti sostennero poi che erano tanti di più. Una cifra inimmaginabile per anni in cui lo stipendio medio di un operaio è attorno alle 45.000 lire mensili. I sette uomini d’oro, così li chiameranno i giornali, vanno via mimando pistole e mitra con le mani e facendo ta-ta-ta-ta con la voce, quasi divertendosi mentre la gente assiste dai balconi.
Li prendono tutti poche settimane dopo. Uno di loro, prima della rapina, aveva fame, era entrato in una latteria e aveva comprato due panini e un pezzo di formaggio taleggio. Fanno l’identikit, trovano lui e poi gli altri, a uno a uno. Il capo è Ugo Ciappina, ha fatto parte di quella che a Milano chiamano la «banda dovunque», perché fa rapine in ogni quartiere. Esce dal carcere nel 1974 ma poi continuano ad arrestarlo: dopo una rapina, a Cosenza, dopo un’altra in piazza Diaz, a Milano, e poi mentre tenta di bucare il muro del negozio Tincati, in piazza Oberdan, sempre a Milano. Quando lo arrestano l’ultima volta, nel 2002, dice semplicemente: «Io non so fare altro che il ladro, è il mio mestiere».
Francis Turatello sente parlare di quel gruppo, nei bar ne discutono con ammirazione e rispetto. Lui pensa: «Col cavolo che a me mi prenderanno mai». Turatello è già diventato grande il 25 settembre 1967, il giorno della banda Cavallero, il giorno dei mitra e delle pistole. Renato Vallanzasca ha 17 anni, il giorno dopo quella rapina legge tutto sui giornali: i colpi di mitra, i morti. Ha un misto di stupore e fastidio: «Non si spara sulla gente che non c’entra niente. Un conto sono i poliziotti, un altro le persone che vanno a lavorare» dice ai suoi amici.
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