Il calcio di César Luis Menotti, fra dittatura e desaparecidos
Uno degli allenatori di calcio più celebrati in Argentina, morto domenica, vinse i Mondiali del 1978 quando al potere c'era la giunta militare di Jorge Videla: il suo ruolo nella propaganda di regime è dibattuto da decenni
César Luis Menotti, morto domenica a 85 anni, è stato uno degli allenatori più importanti della storia del calcio argentino. Fu capace di influenzare generazioni di tecnici del suo paese e fu ispiratore di un modo particolare di intendere il calcio, definito poi “menottismo”, in cui la ricerca del risultato si accompagna a quella di un gioco esteticamente piacevole e più focalizzato sulla fase d’attacco che su quella difensiva. Quando non aveva ancora 40 anni Menotti fu l’allenatore della nazionale argentina che vinse i Mondiali del 1978, un’edizione che passò alla storia come il “Mondiale della vergogna”, perché giocata proprio in Argentina durante la dittatura militare guidata dal generale Jorge Videla.
Menotti era simpatizzante dei movimenti di sinistra, fu tesserato del partito Comunista ma in quegli anni diventò strumento della propaganda di regime, che utilizzò quel Mondiale per legittimarsi e che attuò una feroce repressione del dissenso, con rapimenti, torture e uccisioni, anche mentre la competizione era in corso.
Il ruolo di Menotti è stato molto dibattuto, così come quello dei giocatori che vinsero quel Mondiale. Lo stesso Menotti ne parlò più volte, ammettendo di «essere stato usato» ma mai rinnegando completamente la decisione di restare in carica come allenatore, nonostante la dittatura militare. Disse di non aver avuto piena consapevolezza della «locura» (follia) di quegli anni e della dimensione della repressione: si stima che fra il 1976 e il 1983 la giunta militare uccise oltre duemila persone e ne fece scomparire altre trentamila (queste sono ancora oggi note con il nome “desaparecidos”).
Durante il Mondiale del 1978 alcune della partite dell’Argentina si giocarono a meno di un chilometro da una scuola militare di Buenos Aires usata come centro di detenzione e tortura, mentre le feste popolari per le vittorie avvenivano in contemporanea con le manifestazioni delle madri dei desaparecidos, che chiedevano notizie dei propri figli scomparsi.
Proprio la coscienza politica di Menotti e la sua figura di allenatore “filosofo”, capace di profonde analisi e di frasi ad effetto rimaste molto citate, resero più problematico il suo ruolo in quegli anni. Menotti si limitò a svolgere il suo lavoro di allenatore, secondo alcune testimonianze fu critico in privato con la giunta ma pubblicamente non denunciò per anni quanto stava accadendo, nonostante fosse diventato una figura molto importante in Argentina. Solo nel 1980 firmò una petizione sul quotidiano argentino Clarín perché fossero pubblicate le liste dei desaparecidos (unico sportivo a farlo).
Guidò la nazionale argentina fino al 1982, quando lasciò dopo una precoce eliminazione nel Mondiale in Spagna.
Menotti era nato a Rosario nel 1938, perse il padre quando aveva 18 anni e fu giocatore professionista, nel ruolo di centrocampista offensivo, giocando come riserva anche per una stagione nella squadra brasiliana del Santos, quella di Pelé. Era soprannominato “El flaco” (il magrolino), per via della sua corporatura, portò sempre i capelli lunghi e fumò sempre molte sigarette. Diventò allenatore presto, a 32 anni. Nel 1973 vinse uno storico campionato con l’Huracan, squadra che aveva vinto l’ultima volta nel 1928 e che dopo non vinse più. Quella squadra mostrò un gioco innovativo e spettacolare, simile a quello della scuola “olandese” di quegli anni, diventando un esempio da seguire (la scuola olandese inventò il cosiddetto “calcio totale” con Rinus Michels e Johan Cruijff, in cui tutta la squadra partecipava al gioco d’attacco).
Nel 1974 il presidente della federcalcio argentina David Bracuto lo chiamò ad allenare la nazionale. Bracuto era stato presidente dell’Huracan ed era un medico del sindacato nazionale operaio metallurgico: poco dopo il golpe militare fu rimosso dall’incarico, perché considerato troppo di sinistra.
La giunta militare prese il potere nel 1976, approfittando della precarietà del sistema democratico argentino. Al governo c’era Isabelita Perón, ultima moglie di Juan Perón, che era morto nel 1974: fu deposta il 24 marzo, nei giorni successivi si instaurò la giunta militare che sospese la Costituzione, chiuse il parlamento e mise fuori legge tutti i partiti politici e i sindacati. Quando avvenne il golpe, la nazionale era in Polonia per giocare un’amichevole: il capo delegazione della squadra ebbe da Buenos Aires l’ordine di giocare, per mandare un messaggio di “normalità”. Alcuni giocatori volevano tornare a casa, ma la decisione fu messa ai voti e la squadra scelse di giocare: non è mai stato detto se Menotti votò e in che modo.
In quei giorni le comunicazioni erano ridotte e le normali trasmissioni radio in Argentina erano sospese: veniva messa in onda musica classica, che fu interrotta solo per la radiocronaca della partita.
Il Mondiale del 1978 fu visto dalla giunta militare come una grande occasione di legittimazione pubblica internazionale del proprio potere, oltre che come un’opportunità economica. Si attuò quindi un notevole sforzo organizzativo e di propaganda, favorito anche da una certa connivenza della maggior parte dei media internazionali, che per lo più trattarono il Mondiale unicamente come un evento sportivo senza dedicare troppo spazio alle sue implicazioni politiche.
La tribuna che ospitava le autorità nei giorni delle partite era sempre piena di militari e dei più alti esponenti della giunta, che si mostrò molto vicina alla squadra.
L’Argentina arrivò all’ultima partita dell’ultimo girone prima della finale in una situazione complessa: per vincere il girone e superare il Brasile aveva bisogno di battere il Perù con almeno 4 gol di scarto. Vinse 6-0, in una delle partite più discusse della storia del Mondiale, su cui in seguito vennero sollevati molti dubbi. Il generale Videla era stato presente all’allenamento del Perù nel giorno precedente alla partita, e nei mesi successivi il governo argentino fece donazioni a quello peruviano e alcuni giocatori denunciarono pressioni. Menotti smentì sempre queste ricostruzioni.
L’Argentina batté 3-1 l’Olanda in finale, vincendo il primo Mondiale della sua storia, che fu festeggiato per giorni a Buenos Aires e in tutto il paese. Sul campo Menotti e la squadra ricevettero la coppa proprio dal generale Videla, che strinse la mano a tutti i membri della squadra e comparì in molte delle foto celebrative.
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In un’intervista del 2008 al Corriere della Sera Menotti disse: «Fui usato, è chiaro: il potere che si approfitta dello sport è una cosa vecchia come l’umanità. Non lo rifarei, anche se è facile dirlo ora». In altre interviste in Argentina aggiunse: «Avevo una buona formazione politica, non ero uno stupido che si poteva prendere in giro facilmente. Sapevo che la Forze Armate storicamente sono il gruppo armato che difende gli interessi dell’oligarchia e del potere economico». Disse che immaginava che fosse in corso una repressione del dissenso, come era già accaduto in passato in Argentina, ma non «che in quelle stesse ore si stessero gettando dei cadaveri nell’oceano, che avvenissero orrori di così grandi dimensioni».
Jorge Valdano, ex giocatore argentino e poi dirigente del Real Madrid, considerato una sorta di “intellettuale” del calcio, disse di aver sentito il discorso che Menotti fece ai giocatori prima della partita e ne riportò una parte in un’intervista per il libro César Luis Menotti, dejar correr la pelota y al contrario: «Noi rappresentiamo l’unica cosa legittima in questo paese: il calcio. Non giochiamo per le tribune ufficiali piene di militari, ma per il popolo. Non difendiamo la dittatura, ma la libertà».
Adolfo Pérez Esquivel, oppositore del regime e in seguito premio Nobel per la Pace (1980), disse invece che i prigionieri politici, i torturati, i perseguitati e i familiari degli scomparsi si aspettavano da Menotti una parola o un gesto di solidarietà pubblico: «Non lo fece. Anche lui stava facendo politica con il suo silenzio».
Un anno dopo, nel 1979, Menotti vinse con l’Argentina il Mondiale giovanile Under 20 in Giappone, un altro evento molto celebrato dalla giunta. In quella squadra giocava Diego Armando Maradona, che Menotti aveva escluso dal Mondiale del 1978: aveva 17 anni, ma aveva già debuttato in nazionale. Anche quella decisione fu molto discussa. Menotti disse di aver voluto «preservare un ragazzo molto giovane» e costruì poi con Maradona un legame molto solido: lo allenò anche al Barcellona, nella sua prima esperienza in una squadra europea.
Maradona vinse poi il Mondiale nel 1986 allenato da Carlos Bilardo, allenatore dallo stile di gioco molto diverso da quello di Menotti, impostato su difesa e contropiede. Menottismo e Bilardismo furono per decenni due “scuole di pensiero” calcistico fortemente contrapposte nel calcio argentino e i due allenatori furono protagonisti di numerose polemiche, per lo più a distanza, favorite anche da posizioni politiche molto diverse: «Non litigo con qualcuno perché gioca con il libero o con lo stopper – disse Menotti –. È una cosa ridicola inventata dai giornalisti: se andate a vedere la nostra inimicizia è nata da ben altre cose».
Dopo la nazionale, Menotti allenò molte squadre di club in Argentina, Spagna e Messico, fino al 2007: fu anche allenatore della Sampdoria, nel 1997, per otto giornate, prima di essere esonerato. Ma rimase sempre una figura centrale del calcio argentino e nel 2019 fu nominato direttore delle nazionali argentine, un ruolo a metà fra dirigenziale e tecnico, una sorta di supervisore. Mentre occupava quell’incarico la nazionale argentina vinse la Coppa America del 2021 e il Mondiale in Qatar del 2022.