Le università americane non sanno come gestire le manifestazioni pro Palestina
Alcune amministrazioni universitarie hanno provato approcci permissivi, altre duri e securitari, ma quasi tutte hanno fallito
Le proteste contro la guerra a Gaza che da settimane si stanno svolgendo in molte università statunitensi sono probabilmente le più diffuse e significative da quelle del 1968 contro la guerra in Vietnam, e stanno avendo serie conseguenze sul mondo accademico e politico in tutti gli Stati Uniti. Davanti alla diffusione delle proteste, che sono cresciute in varie forme in decine di campus, le amministrazioni universitarie hanno adottato approcci molto differenti: alcuni più duri e altri più permissivi, ma molto spesso fallimentari.
I problemi nella gestione delle proteste mostrano le difficoltà di grandi istituzioni come le università americane, che devono tenere insieme i diritti degli studenti (quello di esprimersi e manifestare liberamente, ma anche quello di studiare senza subire disagi e impedimenti) ma devono anche garantire gli interessi di varie parti in causa, non tutte legate al mondo accademico.
Alcune amministrazioni universitarie hanno adottato un approccio più permissivo. È il caso dell’Università della California di Los Angeles, meglio nota come UCLA, che fino a un paio di giorni fa, come ha raccontato il New York Times, aveva deciso di non interferire con le proteste che erano cominciate nel suo campus. L’amministrazione era convinta che un approccio tollerante avrebbe contribuito al dialogo e a mantenere pacifiche e serene le attività degli studenti.
Ma nella notte tra martedì e mercoledì nel campus di UCLA sono cominciati violenti scontri tra manifestanti pro Palestina e pro Israele, ai quali hanno partecipato molte persone che non fanno parte del corpo studentesco. L’amministrazione ha chiamato la polizia e interrotto le lezioni, ed è diventata oggetto di grosse polemiche sulla gestione della situazione.
Approcci differenti sono stati usati alla Columbia University di New York, un’altra delle grandi università americane, dove in più di un’occasione la rettrice — Nemat Shafik, musulmana di origini egiziane — ha chiesto l’intervento della polizia per sgomberare gli accampamenti dei manifestanti, che sono stati arrestati a decine. L’ultimo sgombero, particolarmente grosso, è avvenuto dopo che alcuni studenti avevano occupato un edificio dell’università. Tutte le volte però i manifestanti sono tornati.
Varie università hanno adottato questo approccio di sgomberi ripetuti: soltanto di recente, al City College di New York, alla Tulane University di New Orleans, alla University of Wisconsin, all’University of Utah e così via. Secondo una stima del New York Times, da metà aprile nelle proteste nelle università sono state arrestate circa 1.600 persone (e quasi tutte rilasciate poco dopo).
Ad ogni modo, gli sgomberi non hanno placato le proteste, e anzi hanno spesso danneggiato le amministrazioni.
Per esempio Nemat Shafik, la rettrice della Columbia, che è la dirigente universitaria in assoluto più esposta in questo periodo, è stata criticata sia da sinistra, per aver chiamato la polizia contro gli studenti che stavano protestando in maniera tutto sommato pacifica (fino alle occupazioni di questa settimana), sia da destra, per aver dato corda a manifestazioni che in alcuni casi hanno assunto toni antisemiti e per aver consentito che un gruppo minoritario di studenti causasse problemi a tutti gli altri: attualmente il campus della Columbia è chiuso a tutti tranne gli studenti che ci abitano.
Varie altre università hanno interrotto temporaneamente le lezioni, modificato il proprio calendario accademico o chiuso biblioteche e altri edifici amministrativi a seguito delle proteste.
Questo mostra quanto sia complesso per le amministrazioni universitarie barcamenarsi tra due diversi diritti degli studenti: da un lato quello di protestare, manifestare ed esprimere liberamente il proprio pensiero; dall’altro quello di tutto il corpo studentesco di poter frequentare l’università senza interruzioni o problemi.
Le università che sono riuscite a trovare una sintesi sono quelle che hanno negoziato con i rappresentanti dei manifestanti, e in alcuni casi fatto anche concessioni: è il caso della Brown University, nello stato del Rhode Island, dove i manifestanti hanno smobilitato il loro accampamento a seguito di un accordo con l’amministrazione, che ha acconsentito a discutere le loro richieste.
Non sempre è facile, tuttavia. Più o meno tutte le amministrazioni universitarie stanno parlando e negoziando con i loro manifestanti: sempre alla Columbia i negoziati vanno avanti da una decina di giorni, ma finora è stato impossibile trovare un accordo.
Una delle richieste principali degli studenti è che le loro università smettano di fare investimenti che abbiano a che fare con Israele, e che interrompano le collaborazioni accademiche con istituzioni israeliane. Alla Columbia, per esempio, gli studenti chiedono all’università di bloccare tutti i suoi investimenti a scopo di lucro in Israele, oltre che gli scambi accademici con l’Università di Tel Aviv.
Per l’amministrazione universitaria molte di queste richieste sono irricevibili, sia per questioni di principio (l’amministrazione ha fatto sapere di non essere disposta a interrompere i rapporti con un’altra università solo perché israeliana) sia per questioni economiche: le università americane sono di fatto grandi e ricche imprese, che gestiscono strategie di investimento finanziario complesse, e per molte bloccare gli investimenti verso Israele sarebbe complicato ed eticamente discutibile.
Anche per questo, la questione economica finisce per complicare ulteriormente la gestione delle proteste: le università non devono rispondere soltanto a studenti e professori, ma anche a investitori, consulenti finanziari, donatori. Subiscono inoltre grosse pressioni politiche, come si è visto nei mesi scorsi quando la rettrice di Harvard è stata costretta a dimettersi perché inizialmente accusata di non aver contrastato a sufficienza l’antisemitismo nel suo campus.